INVERNO, LA LEZIONE DEL NULLA

Meditazioni psicoanalitiche sui tratti distintivi della “mente invernale”, usa a confrontarsi con il vuoto e con la finitudine.

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di Alessia Vignali
comedonchisciotte.org

MENTE STAGIONALE E INTEGRITÀ STRUTTURALE DELL’OGGETTO “STAGIONE”

E’ affascinante immaginare che, così come le diverse versioni della cattedrale di Rouhen del pittore Claude Monet restituiscono realtà radicalmente mutate al variare dell’atmosfera esterna, vi siano forme di pensiero differenti e diversi “stati dell’essere” chiamati ad affacciarsi alla nostra mente a ogni stagione.

Volendo essere arditi, potremmo ipotizzare l’esistenza di una “mente autunnale”, una “mente invernale”, una “primaverile” e una “estiva”. Nel delizioso “Suwen”, trattato di medicina redatto dall’Imperatore Giallo a partire dal 3000 A.C. (la datazione è del tutto incerta, persa com’è tra leggenda e realtà) in cui questi trascrive le sue “domande semplici” al suo medico di corte, si teorizza proprio questo. Strettamente interconnesso con il cosmo, i cui “soffi” regolano l’armonia universale secondo le leggi del Tao in perenne mutamento, l’uomo è sottoposto alle caratteristiche della stagione, che influisce sui suoi organi, sulla natura del suo volere e del suo desiderare, sulla sua mente… contemporaneamente e nello stesso modo.

Lo Yin/Yang che si esprime in Quattro stagioni
è, per i Diecimila esseri, tronco e radici.
Per questo motivo, i Santi
Con la primavera e l’estate mantengono lo Yang,
con l’autunno e l’inverno mantengono lo Yin.
Con la fedeltà a questi radicamenti,
si accompagnano i Diecimila esseri, nell’immersione e nell’emersione,
alla porta della generazione e della crescita.“

Per l’Imperatore Giallo, è proprio partendo dalla diversità espressa nelle quattro stagioni che ogni vita o situazione particolare prende il suo posto nell’immensa coreografia dell’universo.

La psiche è talmente pervasa dai soffi cosmici che determinano la natura delle stagioni da farsi essa stessa autunno, inverno, primavera, estate.

Lo psicoanalista Christopher Bollas si è occupato di come consacriamo il mondo con la nostra soggettività, investendo persone, luoghi, oggetti e fatti di un significato idiomatico, e ha sottolineato come in questa operazione trattiamo gli oggetti da “contenitori” di aspetti del nostro Sé e, assieme, da potenziali agenti di trasformazione.

L’incontro con oggetti epifanici è assieme incontro con oggetti trovati e a un tempo creati, in cui il soggetto tratta la realtà come area potenziale creativa in cui rinvenire, giocando-si con investimento affettivo e libidico, gli elementi della sua stessa soggettività. Così, lo spazio in cui ci muoviamo è letteralmente vivo, per chi sappia emozionarsi a contatto con esso e sappia infondervi la potenza della sua emozione. A maggior ragione lo diventa il grande spazio della natura, investita dal fenomeno della stagione che coinvolge con i suoi macroscopici mutamenti ogni suo essere. Mentre proiettiamo aspetti di noi sugli oggetti prima di farli nuovamente nostri reintroiettandoli, mentre conosciamo e sperimentiamo noi stessi nel nostro idioma soggettivo fatto d’oggetti trascelti, gli oggetti esistono di per sé e hanno una “integrità strutturale”. Essa aggiunge all’esperienza proiettiva di noi in essi qualcosa di diverso, che non avevamo prima. Con la sua “integrirà strutturale”, l’oggetto amplia la vastità del nostro Sé, arricchisce e costituisce un elemento nel tessuto dell’identità.

“Per esempio”, osserva Bollas, “colloco la gioia tratta dalla capacità giovanile di giocare al baseball in un brano musicale – come la sinfonia in “do maggiore” di Schubert – e se nella stessa settimana proietto qualcosa del mio rapporto erotico con la mia ragazza ne “Il giovane Holden” di Salinger, l’incontro con questi oggetti nella vita adulta potrà far emergere le esperienze del Sé conservate negli oggetti (quelle storiche o arcaiche del passato personale, n. d. r.) ; ma, nello stesso modo, l’esperienza musicale e il processo letterario sono tipi diversi di oggetti, ciascuno con un suo potenziale elaborativo, con il che intendo che l’uso dell’uno o dell’altro mi porterà a una forma diversa di trasformazione soggettiva, che deriva dall’integrità della struttura dell’oggetto“ (Bollas, C., 1992).

A questo punto, egli osserva che occorrerebbe una “filosofia dell’integrità degli oggetti” che ci consenta di esaminare quali forme scegliamo per contenere le trame psichiche del nostro Sé e in che modo tali forme ci contengono e ci modificano una volta che, successivamente, accederemo ad essi per elaborar-ci.

Ragioneremo, qui, dell’impatto sul Sé e sui pensieri dell’”integrità strutturale” di quell’evento ciclico del mondo che è la stagione invernale.

LANGUORE D’INVERNO: PSICOLOGIA DEL SILENZIO

Languore d’inverno.
Nel mondo di un solo colore
Il suono del vento”.
Matsuo Basho

Come all’improvviso, un cielo bianco avvolge il mondo in una specie di sfondo incorporeo. Nulla ricopre nere strutture d’alberi cedui. Il sole è quasi assente, dal corpo non promanano ombre né profumi e lontano, lontanissimo da noi, risplendono Orione e il favoloso ammasso delle Pleiadi.

E’ l’universo abissale dei mesi più bui, le cui gelate disseccano la vita in una morsa, come accade alle piante annuali, oppure la costringono a nascondersi.

Per l’Imperatore Giallo, l’inverno suggella la separazione di ciò che costituisce la vita compenetrandosi: Yin e Yang, Cielo e Terra, umidità e suolo (la terra si screpola), liquidi e soffi animatori (ibidem).

Ci si affaccia, dunque, su un’ipotesi impensabile, quella della finitudine delle cose e del sé, della separazione da tutto quanto abbiamo gradito, amato, tutto ciò che ci ha tenuto in vita. Le cose si “slegano”. Gli animali della foresta non sanno se si reincontreranno, alla fine dell’inverno.

Quando una coltre di neve annulla la fisionomia del mondo, prima delle immagini del dolce Natale ci assale un’inquietudine ancestrale. E’ un pensiero, quello dei lunghi mesi che ci attendono, su cui non vogliamo soffermarci. Malattie, freddo, perdita, ritmi febbrili, nonsense, bulimie passive, feste come recite a soggetto dal copione arcinoto… meglio non pensarci.

E’ diniego: la mente si svuota, teme i suoi stessi contenuti e se ne allontana. Ci avvolgiamo in un torpore atarassico. Le attività frenetiche con cui ci difendiamo sono peggiori del male: cominciamo a sentirci automi trascinati in una routine che perde progressivamente di senso e di sapore.

Qualcuno partecipa a rituali collettivi come quello di “Halloween”, festa importata nel tentativo di sotterrare in un trionfale sghignazzo l’orrore del mondo. L’irrisione alla morte, come insegnano le “danses macabres” di cui è fitta la storia dell’arte, è un empito d’arroganza vitalistica venata d’erotismo, capace di esorcizzare per un attimo il grande freddo. Ma la festa d’accatto non funziona.

Il consumismo imbandisce le strade con precoci addobbi natalizi, panettoni fin da novembre o addirittura estivi e Jingle bells” sempre uguali. E’ un dilagare di cose da dimenticare, vòlte solo ad impedire un varco al pensiero della solitudine… di fronte alla morte.

Perché è di questo che stiamo parlando.

La terra gelata dell’inverno è e sempre fu un deserto di vita e di senso allusivo della morte… eppure il deserto, afferma lo psicoanalista junghiano Luigi Zoja, rimarrebbe esperienza fondamentale da attraversare per far di un uomo un Uomo. “Chi è umano non nasce soltanto dal corpo. Per la seconda nascita, che è quella dell’anima, all’uomo serve l’opposto di un utero che lo circonda. Il deserto è una controfaccia e un completamento del ventre materno, essendo assolutamente aperto e vuoto. E’ una tabula rasa delle presenze e delle conoscenze. Solo lì, lontanissimi dalla mandria, si può rinascere come esseri coraggiosamente e personalmente pensanti”. Perché la disperazione che allora sentirò sarà la mia, la mancanza sarà la mia, l’inermità sarà la mia. Se mi concedo il lusso d’esperire la lontananza da tutto capirò che solo io, nessun altro, posso trovare rimedio a quel vuoto che è soltanto mio, anche se lo sentono tutti.

La “lezione dell’assenza”, in un mondo eternamente connesso, fatto di cordoni ombelicali telematici, è quasi irraggiungibile. Quand’è che contatto me stesso, oggigiorno? Quand’è che sento, al di là richiami, delle seduzioni e delle re-azioni a quanto mi sta intorno, ciò che davvero mi si muove nel profondo?

La fonte più pura della soggettività autentica si trova in profondità e si contatta in solitudine, ebbe ad affermare lo psicoanalista Donald Winnicott, secondo il quale molto al nostro interno, al “cuore” dell’essere, giace un Sé centrale non comunicante, immune per sempre dal principio di realtà e silenzioso per sempre, in cui la comunicazione non è verbale ma assolutamente personale. Nello stato di salute è da questo che sorge naturalmente la comunicazione. E’ da esso che scaturisce il gesto spontaneo che testimonia la vera soggettività, oltre la coltre degli adattamenti, dei “Falso sé”. Le mamme di oggi, che accompagnano i figli a scuola fino ai loro vent’anni, i social e i videogiochi non ne agevolano certo la frequentazione. Winnicott stesso vi si avvicinava attraversando, nell’analisi dei suoi pazienti, proprio il silenzio. Imponeva cioè a volte al paziente, capace di lunghi vaniloqui, di tacere, perché stava riempiendo le sedute di parole inutili.

Dell’inverno temiamo il profondo silenzio.

Con Zoja continuiamo a riflettere: “L’uomo che non incontra il deserto fisicamente e mentalmente non sa di esser nato nudo come ogni animale, solo e ignorante come ogni umano. Gesù che dubita di esser stato abbandonato dal padre e Socrate cui si rivela la sapienza di non sapere sono invece completamente uomini perché, a differenza di quella che si illude di essere umanità, hanno incontrato il deserto e sono sopravvissuti alla desertificazione”. Potremo, cioè, sentici uomini solo se superiamo la paralisi che il vuoto e la solitudine di fronte alla morte temuta ci danno; solo quando avremo, per un attimo, gridato “Dio mio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”.

Avremo toccato e attraversato l’incertezza radicale e la nostra inermità… e vi avremo posto un rimedio.

Paradossalmente, osservano Sigmund Freud e Wilfred Bion, sarebbero proprio il vuoto e il sentimento di “mancare di qualcosa” le matrici del pensiero. Laddove non siamo appagati, laddove esperiamo la mancanza, l’insufficienza, la voragine… è lì che alluciniamo un appagamento proveniente dal mondo esterno. Quel desiderio, nel suo prefigurare l’oggetto mancante, diviene il marchio della nostra soggettività. L’assenza, il non-seno che costellano la nostra esperienza rieducano al dolore del vuoto, alla necessità del desiderio, al vagare nel buio cercando a tentoni… e poi solo fortunosamente, contro tutti, a ritrovare la fiaccola. “Dove sono, io? Mi sono perduto. Sono solo nel buio. Chi è l’uomo? Cos’è e che senso ha la vita, in tutto questo gelo, nell’abisso del cosmo vuoto e infinito?“

Benché sia difficile, abbiamo bisogno di sentire che potremmo perdere tutto, come in una lunga convalescenza che sfida la nostra inconscia tesi sulla nostra “invincibilità”, l’“immortalità” del nostro corpo. Necessitiamo di sentire che il nostro esserci è precario, che potrebbe non darsi.

UN PENSIERO IMPOSSIBILE CHE OCCORRE PENSARE

Possiamo davvero pensarla, la finitudine cui il mondo intero allude, in inverno? Ne ho parlato in un recente articolo, in cui sostenevo che la “meditazione della morte”, così come l’investimento in progettualità che ci trascendano e ci facciano sentire che la nostra personale unicità non è trascorsa invano (anche se questa è, davvero, un’altra delle illusioni necessarie che ci aiutano a vivere, dunque anche ad accettare la morte), siano essenziali nel far di un uomo un Uomo. Non mi dilungo, dunque, oltre in questa sede.

Ricorderò solo che culture arcaiche non credono che fino a un certo punto alla possibilità di una guarigione, di una restaurazione e di una rigenerazione del singolo individuo. Come asserisce lo storico delle religioni Mircea Eliade, “tutti i popoli primitivi hanno sentito in modo profondo il bisogno di rigenerarsi periodicamente abolendo il tempo trascorso e ritualizzando la cosmogonia. La festa, presso i popoli creatori della storia, assume allora il senso della rigenerazione collettiva resa possibile dalla loro mentalità antistorica. Questa rigenerazione è possibile con l’interruzione del tempo profano attraverso l’erompere del tempo sacro, caratterizzato da quella nostalgia delle origini che è alla base dell’idea primitiva secondo cui la vita non può essere riparata, ma solo rinnovata.”

A un certo punto la mente invernale si squarcia, dunque, per accogliere nell’abbraccio della comunità una soluzione sempre uguale e sempre imprevista, squillante come un dono divino: l’irrompere dell’evento della nascita. E’ tempo che “un bambino nasca per noi” come luce nella notte.

Dopo il solstizio d’inverno, il sole bambino torna ad affacciarsi sulla terra, l’anno bambino che verrà cancella il terrore dell’annullamento… e sopraggiunge, nella nostra cultura, il tempo dell’Avvento. La mente invernale ritrova allora la magia della speranza e ammanta di fiaba, commozione e meraviglia gli ultimi giorni dell’anno degli uomini.

Alessia Vignali
Pubblicato da Tommesh per ComeDonChisciotte.org

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