Imprenditori: analfabeti macroeconomici

Il benessere materiale di una società si misura con la sua capacità di produrre beni e servizi, e per ottenere al meglio questi risultati bisogna sviluppare le migliori tecnologie ma soprattutto è fondamentale utilizzare tutta la forza lavoro disponibile

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Di Tiziano Tanari per ComeDonChisciotte.org

Il titolo, rispettoso, ma volutamente provocatorio, si rivolge ai protagonisti di questo articolo: gli imprenditori. Grandi e piccoli, in sostanza a tutti coloro che producono beni e servizi. Per comprendere il senso profondo di questa analisi dobbiamo prima spiegare che cos’è la ricchezza.

Esistono due tipi di ricchezza: ricchezza reale e ricchezza finanziaria.

Per “ricchezza reale” intendiamo i beni e servizi che utilizziamo per le nostre esigenze di vita; questi vengono creati con il nostro lavoro. Da qui capiamo subito l’importanza del lavoro umano, con la sua creatività e la sua intraprendenza, e senza il quale non si potrebbe costruire e produrre nulla.

La “ricchezza finanziaria” è rappresentata dalla moneta che nasce come strumento di scambio di beni e servizi.. per sostituire il baratto e come riserva di valore. E’ fondamentale comprenderne la sua funzione primaria poiché, oggi, il suo utilizzo è stato totalmente snaturato diventando, anche e soprattutto, oggetto di speculazione.

Possiamo tranquillamente affermare che la ricchezza finanziaria alimenta, in modo disfunzionale all’utilità pubblica, la speculazione creando nocumento e privazioni inenarrabili all’economia reale senza riuscire a creare beni reali e tangibili per la comunità. Un’importante componente strutturale per creare una barriera all’intromissione della finanza speculativa nell’economia reale, sarebbe la divisione delle banche commerciali dalle banche di investimento riattivando la legge Glass-Steagall abolita nel 1999 da Bill Clinton il quale, con questa decisione, ha spalancato le porte dell’economia all’aggressione e allo strapotere degli investitori internazionali e delle multinazionali da loro controllate.

Ritornando sull’importanza fondamentale dell’economia reale, è utile evidenziare un paradosso: se non esistessero merci da acquistare, i soldi, semplicemente, non varrebbero nulla.

Da qui ne consegue un dogma incontestabile: il benessere materiale di una società si misura con la sua capacità di produrre beni e servizi, e per ottenere al meglio questi risultati bisogna sviluppare le migliori tecnologie ma soprattutto è fondamentale utilizzare tutta la forza lavoro disponibile. Abbiamo trattato in alcune trasmissioni su Lombardia TV (1), a più riprese, l’importanza dei Piani di Lavoro Garantito e Transitorio perché non c’è ingiustizia e spreco maggiore della disoccupazione, ovvero persone che non riescono a dare il loro contributo alla comunità, producendo anche loro ricchezza reale, e soprattutto perché vengono private del principale strumento per il loro sostentamento e la piena realizzazione come persona umana (l’Art. 3 della Costituzione).

Possiamo quindi ritenere il lavoro umano come il motore del mondo, il motore della vita. Se riteniamo valida questa affermazione del lavoro come fondamento della società, diventa logico e naturale pensare che il lavoro in genere debba essere sostenuto, incentivato, valorizzato e soprattutto rispettato.

È importante che sia rispettato in tutte le sue forme, essendo praticamente tutte necessarie alla costruzione e al miglioramento di una società civile, moderna e sostenibile. Sottolineiamo, inoltre, il ruolo indispensabile del lavoro in entrambi i settori, sia quello pubblico che quello privato, poiché ognuno riveste ruoli primari e complementari.

Qui si scontrano le due grandi teorie economiche: il pensiero unico globale liberista che vede nel privato l’unico attore determinante alla creazione del lavoro e il pensiero, ad oggi ritenuto superato, del keynesismo dove si ritiene che lo Stato abbia un ruolo insostituibile come regolatore dell’economia e come partecipazione attiva in quei settori dove vige un regime di monopolio, dove certi servizi non permettono o non garantiscono un guadagno al privato e nei settori strategici per la sicurezza nazionale.

Molti ritengono che senza la finanza, nel mercato reale, mancherebbero risorse economiche per incentivare imprese e lavoro; non c’è nulla di più pericolosamente sbagliato: uno Stato a moneta sovrana può finanziare qualsiasi impresa, lavoro, progetto che si sviluppi all’interno della sua economia e può perseguire l’obiettivo della piena occupazione garantendo, lui solo, il massimo potenziale produttivo del Paese. Non dimentichiamo che oggi, nel nostro Paese, le attività dello Stato costituiscono oltre il 55% del PIL nazionale, in un contesto, che è bene sottolineare, dove le peculiarità e potenzialità dello Stato sono fortemente limitate dai vincoli di un’Unione Europea che, nei suoi vent’anni di vita, ci ha portato ad essere l’area economica che cresce di meno al mondo e chi fa impresa ancora non l’ha capito.

Questo è il punto dirimente: il mondo dell’impresa, italiano ed europeo, non ha compreso che se non si crea un contesto favorevole al settore economico da parte dello Stato, non esiste possibilità alcuna che la singola impresa riesca ad esprimere il suo potenziale in un mercato limitato da regole che lo penalizzano.

L’Unione Europea ha impostato “un economia sociale di mercato altamente competitiva” dove, oltre alla naturale competizione fra imprese, si è costituita un’innaturale competizione anche fra gli Stati conseguente ai pochi mezzi che gli Stati stessi hanno a disposizione per sostenere finanziariamente le proprie economie e, quindi, le proprie imprese.

Non a caso, una delle regole più stringenti riguarda le limitazioni sui cosiddetti “aiuti di Stato” con le quali impediscono, di fatto, politiche fiscali e politiche monetarie adeguate ai cicli economici interni ai vari Paesi.

Mi preme sottolineare inoltre come, fuori dal rispetto di queste regole, la Commissione Europea utilizzi pesi e misure diverse permettendo alle economie più strutturate, come ad esempio la Germania, lo sforamento strutturale di quei parametri che sono resi inviolabili per altri Paesi, primi fra tutti l’Italia. Comprendere queste dinamiche macroeconomiche per gli imprenditori italiani è indispensabile in quanto gli permetterebbe di capire i gravi ostacoli che limitano la loro competitività, sia a livello nazionale che estero.

A nulla servono consessi europei dove si fanno passerelle mediatiche (da oltre 60 anni) senza che nulla possa essere effettivamente deciso e/o cambiato (2).

Entriamo ora nello specifico dei temi che riguardano l’impresa italiana: per quanto concerne le capacità imprenditoriali, professionali, la creatività, possiamo tranquillamente ritenere che non siamo secondi a nessuno.

La tradizione storica che ha plasmato il nostro DNA lavorativo non ha eguali al mondo; fino alla fine del secolo scorso eravamo fra le primissime economie manifatturiere al mondo con punte di eccellenza uniche. Poi il ciclo si è invertito; dall’inizio degli anni 2000, ma anche qualche anno prima, quasi tutti i nostri parametri macroeconomici sono cominciati a regredire, il segno  – (meno) era diventato una costante.

Ad oggi, dopo attente analisi comparate, possiamo ritenere, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa lenta e costante recessione è il frutto avvelenato delle politiche macroeconomiche imposte dall’UE. Come si può vedere dai dati statistici degli ultimi vent’anni, l’Eurozona ha avuto la crescita minore rispetto a tutte le altre economie del mondo. In questo contesto, l’Italia è rimasta la più penalizzata proprio perché obbligata a sottostare pedissequamente a tutti i vincoli imposti per il suo alto debito pubblico, debito pubblico che rappresenta un reale problema in quanto, dopo l’entrata nell’euro, non abbiamo più una Banca Centrale che funga da “prestatrice di ultima istanza”, ovvero, che in caso di non sufficienti acquisti dei Titoli di Stato da parte dei Mercati, possa intervenire con l’acquisto diretto, garantendone la solvibilità. Ricordiamo che fra i compiti della BCE non è contemplata questa funzione irrinunciabile; ciò rende l’Italia, come tutti gli altri Paesi dell’Eurozona, una potenziale candidata al default.

Evidenziamo ora i parametri che limitano il potenziale delle imprese italiane oggi. Innanzi tutto i vincoli fiscali a cui è costretta l’Italia impongono alle imprese una tassazione altissima, di molto superiore agli altri Paesi; abbiamo un apparato burocratico elefantiaco appesantito dalle sempre più asfissianti norme europee e dalle quali ci dobbiamo aspettare imminenti brutte sorprese per una sconsiderata e improponibile transizione ecologica e per le dissennate strategie di geopolitica internazionale che ci complicheranno l’approvvigionamento delle risorse energetiche. Tutti questi costi si ribaltano su una sempre meno sostenibile competitività.

Un altro dato estremamente significativo e penalizzante per l’economia italiana è rappresentato dalla deflazione salariale che ha portato a una riduzione dei nostri stipendi addirittura del 12%, dal 2008 al 2022, la peggiore performance in tutta l’UE (3).

Un ultimo grande limite imposto dall’Unione Europea è costituito dall’indice NAIRU, ovvero il tasso di disoccupazione che mantiene stabile l’inflazione; questo comporta il mantenimento di un livello di disoccupazione strutturale che per l’Italia è stimato intorno al 10% della forza lavoro. Tutto ciò costituisce un grande limite al potenziale produttivo di un Paese, cioè alla sua capacità di produrre ricchezza reale limitandone la crescita e riducendo in modo sostanziale la “domanda aggregata”, ovvero la capacità di acquisto dei cittadini che si traduce in una diminuzione dei consumi. Questo è un fattore importantissimo in quanto rappresenta un parametro costitutivo del PIL che possiamo rappresentare con questa formula:

 Y (Pil)= C + I + G + (X – M)

               Y= PIL ; C = Consumi; I = Investimenti; G = Spesa Pubblica;

(X-M) = Differenza fra esportazioni e importazioni

Questa formula ci permette di comprendere le pesanti ricadute di questo perverso processo sulla nostra economia: calando gli stipendi, calano i consumi (C), quindi cala il PIL, calano le vendite per le imprese che devono licenziare e ridurre gli investimenti (I) calano gli introiti per lo Stato che deve aumentare le tasse e tagliare i costi diminuendo i servizi e la spesa pubblica (G).

In questo contesto può forse aumentare leggermente la Bilancia Commerciale ma non in modo sufficiente da compensare il calo marcato di tutti gli altri indici. Abbiamo, in conclusione, raffigurato l’andamento degli ultimi decenni dell’economia italiana che si è costantemente ridotta anche per le scellerate politiche fiscali che hanno costretto gli italiani a trent’anni di avanzo primario, ovvero di sottrazione di liquidità dall’economia reale. Alcuni economisti ritengono un miracolo che l’Italia non sia ancora mai fallita e chi scrive non può che condividere questa analisi.

Questo è il devastante panorama in cui si devono muovere le imprese italiane: un mercato interno sempre più povero e vincoli sempre più stringenti che ne limitano la competitività sui mercati esteri. È in seguito a questa spirale regressiva che le grosse imprese e le multinazionali hanno iniziato già da molti anni un processo di delocalizzazioni che ha impoverito ulteriormente la struttura economica del Paese.

Un ultimo dato di cui i piccoli e medi imprenditori dovrebbero prendere consapevolezza riguarda il settore delle privatizzazioni dei grand assets industriali avvenute negli ultimi decenni e con i quali si era garantito un forte indotto e un settore di ricerca tecnologica di altissimi livelli. Tutto questo è potuto avvenire per la costante riduzione della presenza attiva dello Stato nell’economia e per il suo depotenziamento con la privazione di una valuta nazionale che non permetteva più nessuna politica fiscale e monetaria autonome. Lo Stato, non potendo più svolgere la sua funzione primaria di regolatore dell’economia, costringe le imprese italiane a subire i diktat di una UE governata, di fatto, da Stati nostri competitor (scordiamoci la cooperazione europea), Germania in testa.

A questo punto diventa essenziale una corretta analisi delle strategie proposte dalle varie associazioni di categorie, prime fra tutte Confindustria la quale, nella sua Assemblea Nazionale del 2023, “Impresa, Lavoro e democrazia: la strada della Costituzione”(4), ha delineato alcune linee guida imprescindibili e i valori che le sostengono. Citiamo alcuni passaggi fondamentali:

  • 19:00: Si fa riferimento alla “Giornata internazionale della democrazia”.
  • 21:30: “Sig. Presidente deve continuare ad essere garante della Costituzione a tutela dei principi della nostra democrazia e a sostegno delle scelte internazionali fatte liberamente dall’Italia”.
  • 22:20: “Confindustria riconosce nella democrazia un valore universale e nella Costituzione la stella polare”. “Senza democrazia non possono esserci né mercato, né impresa, né lavoro, né progresso economico e sociale”.
  • 24:00: “La democrazia, nel mondo, sta regredendo”.
  • 34:00: “È in gioco il futuro del pluralismo della nostra informazione tutelato dalla nostra Costituzione”.

Come si può chiaramente notare, nelle dichiarazioni del Presidente di Confindustria Carlo Bonomi, sono esplicitati i fondamenti su cui si basano i pilastri di una sana economia di mercato: democrazia, che presuppone una libera informazione, e il rispetto dei Principi Costituzionali. Appare evidente, a questo punto, un paradosso irrisolvibile: come si può definire democratico un modello che si basa sui Trattati Europei, dove gli Stati hanno perso completamente la possibilità di autodeterminarsi e dove il modello socio-economico è totalmente in antitesi a quello della nostra Costituzione? Queste sono le Associazioni che dovrebbero tutelare l’interesse del mondo delle imprese e del lavoro: non sanno quello che dicono o, peggio, se lo sanno, vuol dire che stanno tradendo i diritti e gli interessi di tutti i loro associati.

A questo punto diventa una necessità imprescindibile compiere un piccolo salto culturale del mondo dell’impresa e del lavoro per comprendere quale siano gli obiettivi macroeconomici utili al migliore sviluppo dell’economia e del mercato. In conclusione, possiamo riassumerli in alcuni dei punti fondamentali:

-Lo Stato deve poter svolgere il suo ruolo determinante nell’economia attraverso le politiche fiscali e monetarie e deve essere dotato di una propria valuta nazionale che le permetta di finanziare, senza limiti oggettivi ne condizionamenti esterni, la spesa pubblica necessaria e piani di lavoro che concorrano al raggiungimento della piena occupazione. È altresì fondamentale la gestione diretta, da parte dello Stato, dei grandi Monopoli e delle aziende di interesse strategico, garantendo con esse anche un importante sviluppo nel campo della ricerca e dell’innovazione. Queste sono le premesse ineludibili perché il mondo dell’impresa privata e del lavoro possano esprimere il massimo delle loro potenzialità. Tutto ciò è inscritto in modo chiaro e inequivocabile nel Modello Costituzionale, tanto caro a Confindustria.

Ma questo non è tutto; il ruolo dello Stato investe anche la sfera sociale e valoriale in quanto espressione delle attitudini e delle potenzialità di un Popolo in un determinato territorio. Il motivo principale è che l’economia è uno processo anche politico strettamente legato alla capacità di un Popolo di trasformare le proprie risorse e di realizzare fini sociali alla cui base c’è un’etica e una cultura proprie. E proprio sul piano dell’etica e dei valori che merita una considerazione particolare la tradizione culturale cristiana che ha impregnato la nostra Costituzione partendo proprio da un primo e fondante documento stilato nel 1943: “Il Codice di Camaldoli”.

Riportiamo alcuni passaggi particolarmente pregnanti:

-Qualunque forma di Stato e qualunque partecipazione di cittadini alla vita dello Stato, non vale a salvare l’umanità della vita sociale se gli individui non sentono quelle esigenze di GIUSTIZIA E CARITA’.

-Per questo gli spiriti più attenti, gli animi più appassionati, fra i quali fermentano i germi di quel profondo rivolgimento sociale che batte alle porte dei tempi nuovi, guardano oggi con grande fiducia e speranza all’idea cristiana, come all’ UNICA capace di difendere insieme le ragioni dell’uomo e quelle della comunità, le esigenze della giustizia e della libertà; visione ed universalità di valori che sta al disopra di ogni contingenza di singoli popoli e di particolari situazioni storiche.

-Il lavoro è all’origine di ogni proprietà; l’acquisizione di beni che non trovi corrispondenza in un adeguato e lecito lavoro, rappresenta un indebito arricchimento effettuato impoverendo altri uomini (speculazione finanziaria).

-La vera ricchezza e la sola forza della società è nelle energie degli individui (e nella loro capacità di sviluppare lavoro). L’interesse massimo della società è di fare che tutte queste energie siano portate al massimo sviluppo di cui sono capaci ed impedire che rimangano non svolte e puramente potenziali, per modo che ciascuno eserciti le sue facoltà individuali e sociali ora dando e ora ricevendo per il bene suo e quello degli altri. (La vera ricchezza di una nazione è data dal lavoro dei suoi cittadini)

-Il cittadino è chiamato a dare il proprio contributo al bene comune anche con la propria attività privata. Nel perseguire il proprio interesse deve tenere conto delle esigenze superiori del bene comune. Il conciliare gli interessi privati con quelli della comunità eleva l’attuazione di tali interessi a compimento di un dovere sociale. (lo Stato deve esserne il mediatore)

-Creare le condizioni perché le forze del lavoro disponibili trovino un’adeguata occupazione promuovendo eventualmente attività economiche trascurate dall’iniziativa privata, giudicate PROFITTEVOLI AL BENE COMUNE.

-Indurre la generalità dei membri della società ad assumere la responsabilità di un lavoro e far si che le condizioni nelle quali i lavoratori danno la loro opera siano tali da consentire, pur nell’accentuarsi delle specializzazioni, un ARMONICO SVILUPPO DI TUTTE LE SUE FACOLTA’. Il lavoro è in sé, in ogni caso, mezzo di ELEVAZIONE e di PERFEZIONAMENTO DELLA PERSONA.

-È doveroso un intervento dell’autorità (Stato) inteso a modificare la ripartizione dei salari così da riportare le retribuzioni insufficienti a un livello non inferiore a quello giudicato equo. Risponde a giustizia che la differenziazione delle retribuzioni al disopra del livello minimo avvenga in rapporto alla qualifica e al rendimento del lavoratore.

-Dal concetto cristiano di comunità sociale deriva l’opportunità di promuovere forme di collaborazione fra le associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, come pure di favorire per mezzo di tali associazioni il raggiungimento di COMUNI SCOPI di assistenza sociale, di istruzione professionale e simili.

-La vita economica, in quanto consta di atti umani, dipende anche dalla LEGGE MORALE, la quale viene determinata dalla morale cristiana. Per ordinare la vita economica è necessario che si aggiunga alla legge della giustizia la legge della carità (quindi solidarietà come fondamento dello STATO SOCIALE).

-Le esigenze della giustizia sociale legittimano dunque, in via primaria, l’INTERVENTO POSITIVO dell’autorità nella vita economica, sia per promuovere, coordinare e limitare nell’interesse del bene comune le attività degli individui e delle comunità locali, regionali e professionali, sia per svolgere una diretta attività economica.

-Compito dello Stato è promuovere e regolare i rapporti con le altre ECONOMIE NAZIONALI affinchè i beni della terra raggiungano attraverso un’equa distribuzione la loro fondamentale destinazione a vantaggio di tutti gli uomini.

-Il buon funzionamento della cosa pubblica e il rispetto delle stesse libertà civiche costituiscono la somma cura della “politica” ed ESIGONO UNA FORMAZIONE POLITICA DEI CITTADINI. Ne consegue la necessità di coltivare tale coscienza per stimolare l’attività e garantirne la conoscenza.

-Un regime economico ben ordinato non può sorgere dal gioco spontaneo delle forze economiche. Per quanto utile, la concorrenza contenuta nei giusti limiti, come principio regolatore del prezzo, non può bastare da sola a regolare tutti gli aspetti della vita economica. E’ necessaria ma non sufficiente.                  

-POLITICHE SOCIALI

-Lo Stato ha per proprio connaturale fine il BENE COMUNE. Nella vita sociale, per gli individui vale il principio fondamentale dell’UNITA’ DI ORIGINE e di fine di tutti gli uomini e la legge etica dell’uguaglianza (di pari dignità). E’ esigenza fondamentale della civiltà che tale profonda comunità di origine e di fini entri a far parte della coscienza etica degli Stati. L’AUTORITA’ E’PER CONSEGUENZA PER LA SOCIETA’ E NON LA SOCIETA’ PER L’AUTORITA’. LA SUA ESSENZA E’DI SERVIRE IL BENE DEGLI INDIVIDUI E DELLA SOCIETA’

Se il mondo dell’Impresa, come l’intera comunità sociale, potesse raggiungere la giusta consapevolezza e, con essa, la giusta coerenza, potrebbe costituire la principale forza capace di traghettarci verso quel cambiamento indispensabile per un futuro di benessere, civiltà e, soprattutto, di democrazia. In questa globalizzazione dove impera la legge di Mercato, dove la competizione e la ricerca esasperata del profitto sono le uniche regole riconosciute, assistiamo ad un cambiamento antropologico dell’intera comunità umana dove cooperazione, solidarietà e giustizia sono di fatto scomparse.

Il cambio, oltre che economico, deve essere culturale ed etico e, paradossalmente, potrebbe cominciare proprio dall’azione di chi dovrebbe fare del profitto, la sua stella polare: l’Impresa.

Come abbiamo trattato in questo articolo, l’etica e il giusto funzionamento del mondo delle imprese e del lavoro possono coesistere; se ben coordinato, l’apparato produttivo di un Paese, con la sua potente forza propulsiva, può rappresentare la vera svolta verso un futuro di benessere diffuso e per una società più giusta, inclusiva e armoniosa.

Di Tiziano Tanari per ComeDonChisciotte.org

31.12.2023

NOTE

(1) https://comedonchisciotte.org/i-conti-non-tornano-7-puntata-il-lavoro/

(2) https://www.confindustria.it/home/confindustria-eu/ceu-chisiamo

(3) https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—europe/—ro-geneva/—ilo-rome/documents/genericdocument/wcms_863230.pdf#:~:text=Variazione%20dei%20salari%20reali%20nei%20paesi%20UE%20%282008,In%20Italia%20e%20Spagna%20i%20salari%20sono%20decresciuti

(4) https://www.youtube.com/live/6XAHk5vA_Ek?si=BYJYD6-9nkeZDr3R

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