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La Redazione

 

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IMPATTO DEL PEAK OIL SUL NOSTRO SISTEMA SANITARIO

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A cura di supervice
Il 3 Marzo 2012
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DI ANTONIO TURIEL
The Oil Crash

Sicuramente a nessuno suona

strano dire che il sistema sanitario spagnolo sia tra i migliori al

mondo. Anche se ultimamente

sembra incontrare un periodo di difficoltà,

per il momento, il febbraio del 2012, sembra essere ancora ben supportato

dalle statistiche internazionali che collocano il nostro paese tra quelli

che hanno una maggiore speranza di vita alla nascita, pur avendo una delle

spese sanitarie pro capite annuali più contenute.Potremmo cercare di mentire

a noi stessi dicendoci che è dovuto alla dieta mediterranea e alle

buone abitudini a cui quasi nessuno oramai si attiene, ma la realtà

è un’altra. Anche se il sistema sanitario spagnolo sta cercando di

incentrarsi sulla prevenzione e la diagnosi precoce, il contenimento

della spesa sanitaria in rapporto al numero degli abitanti viene da

una spinta al ribasso degli stipendi dei dipendenti del sistema sanitario,

un dato a cui si giunge grazie a un’analisi comparativa dei costi globali

per trattamento tra i paesi dell’UE (“health

basket project“,

realizzato dall’Associazione Europea per la Gestione della Salute, EHMA. È la rimunerazione dei professionisti

sanitari spagnoli, una

delle più basse dell’Europa comunitaria e quindi del mondo sviluppato, che riesce a ridurre il costo

finale del costo della sanità (estratti

dalla stampa sull’argomento).

Questa situazione – unita

alla tirannia che viene esercitata dalla struttura di una carriera sanitaria

basata sullo sfruttamento

abbondante dei borsisti

e la scarsità

di posti per le promozioni,

l’eccesso di carico lavorativo dovuto al fatto che in Spagna i medici

concentrano la gran parte dell’attività sanitaria e un organico infermieristico

ridotto rispetto al resto dell’Europa,

ha obbligato centinaia di professionisti della sanità a emigrare ogni

anno col titolo di studio sotto braccio alla ricerca di un futuro migliore.

Ovviamente, questo processo si è aggravato

con la crisi odierna e la riduzione della contrattazione. Malgrado i fatti appena esposti,

il sistema sanitario spagnolo continua ad essere di buona qualità e

riesce a coprire quasi la totalità della popolazione. Per questa ragione,

è ancora uno dei settori economici più importanti in rapporto al PIL,

con una spesa sanitaria totale (pubblica più privata) dell’8,4 per

cento nel 2007, del 9.0 per cento nel 2008 e che nel 2009 ha

raggiunto per la prima volta il livello medio dei paesi dell’OCSE con

il 9,7 per cento del PIL nazionale,

essendo questo l’ultimo

dato disponibile pubblicato dalla Banca Mondiale.

Bisogna sottolineare che, malgrado la

spesa pubblica abbia rappresentato nel 2009 il 74% della spesa sanitaria

spagnola, il

fatto che la sanità spagnola abbia raggiunto il livello del resto di

paesi sviluppati non è dovuto a un miglioramento sostanziale dei servizi,

del personale, della contrattazione o delle retribuzioni (che tutte

le imprese hanno cercato di attaccare con maggiore o minore successo

prima e durante le prime fasi della crisi), ma alla contrazione

progressiva del PIL nazionale.

Dopo questo ripasso necessario,

possiamo comprendere che il sistema sanitario spagnolo era una macchina

che funzionava in modo regolare grazie al livello dei finanziamenti

concessi fino all’inizio della crisi, e ha fornito un servizio di qualità

ai residenti e persino

ai non sporadici turisti sanitari

(meno male che il

parlamento europeo ha posto l’anno scorso un limite a questa diaspora, di modo che, quando ci sarà

qualcuno che parla di una sanità spagnola non efficiente, potrà tranquillamente

incurvare le sopracciglia.

È vero che se consideriamo

anche il costo di formazione, la “TRE” della sanità non ne usciva

granché bene, ma ancora poteva accontentarci che il sistema continuasse

a funzionare… fino a che siamo giunti alla discussione attuale: la

sanità e il Peak Oil. Come abbiamo potuto apprendere in alcuni

post precedenti, una delle prime manifestazioni del Peak Oil

è una crisi economica che nei

termini attuali non avrà mai fine.

La sanità, che come il

resto delle amministrazioni pubbliche si finanzia con l’emissione

di debito (parte a carico del governo centrale e parte a carico degli

enti locali per le competenze che gli sono state trasferite) si trova

di anno in anno in una situazione di bancarotta totale, non potendo

far fronte ai pagamenti dovuti per la stagnazione e la riduzione delle

entrate fiscali. Per questo, i gestori della cosa pubblica – che sembrano

saper poco o non voler sapere niente del Peak Oil, ma che se

sanno molto di BAU – cercano di puntellare il sistema

nel miglior modo possibile con nuovo debito, ma ci sono limiti

al deficit di bilancio che non possono essere evitati.

Siccome non c’è denaro

per tutto, gli amministratori – che non sono fessi e che sanno che devono

ritardare quanto più possibile il conflitto sociale – danno

preferenza al pagamento del personale ed evitano al massimo la riduzione

o la chiusura dei servizi (anche se talvolta

non rimangono alternative).

Non avendo il denaro per

tutto, bisogna comunque mantenere il livello del servizio a ogni costo,

e si procede allora a incrementare un altro tipo di debito: quello dei

fornitori. L’acquisto a credito (il pagamento differito, trattando

un certo interesse sul costo di acquisto) – che non era una cosa insolita

a causa delle difficoltà degli stanziamenti dei fondi che di anno in

anno erano sempre maggiori – diventa in questo caso (per le inadempienze

dei pagamenti) il “modus vivendi” di un’amministrazione

dalle risorse sempre minori.

Ciò ci porta al punto

attuale in cui nel complesso l’industria sanitaria reclama circa

12 miliardi di euro al sistema sanitario pubblico, 6,3

miliardi da parte dell’industria farmaceutica

e il resto viene dal

settore dei prodotti sanitari

(dai cerotti alle macchine per i raggi X, passando per siringhe, contagocce

e tutto il resto), industrie che stanno

minacciando azioni di ritorsione per i mancati pagamenti che, come vedremo più tardi,

potranno avvenire.

Come si può capire,

questa situazione è analoga a quella di qualsiasi “impresa

pubblica” ed è quindi un’economia di guerra non dichiarata

in cui ognuno si difende come può. Vediamo le armi a disposizione di

ciascuno: le amministrazioni centrali e quelle autonome hanno cercato

soprattutto di favorire

l’uso dei medicinali generici per risparmiare sulla spesa farmaceutica, di centralizzare

in ambito regionale l’acquisto di materiale deperibile per evitare la complessità delle

relazioni commerciali e per ottenere prezzi migliori grazie al volume

degli acquisti e, ovviamente, tagliare costi che la gente non riesce

a percepire, ma che le statistiche terranno di conto.

Gli effetti della prima

misura sono limitati, per il fatto che i

rappresentanti dei farmaci continuano a fare il proprio lavoro in totale

libertà (io

direi impunità) e che, in realtà, un farmaco generico e uno di marca

non sono la stessa cosa perché, pur condividendo

il principio attivo principale

possono differire notevolmente nel resto degli ingredienti (eccipienti

che possono essere soggetti a brevetto), modificando completamente la

dinamica degli effetti e quindi il criterio decisionale del medico e

del paziente.

La seconda misura è

ancora in fase di introduzione ma ha

notevoli limitazioni

perché, pur suggerendo un risparmio potenziale, l’amministrazione deve

farsi carico di una sfida logistica gigantesca, che prima veniva ripartita

tra centinaia di imprese farmaceutiche e dei trasporti, dovuta all’infinità

di prodotti sanitari esistenti e alle variabili dei ritmi di consumo

dei differenti centri sanitari. Per evidenziare i risultati di questa

ultima misura, per i posteri rimarranno le centinaia di professionisti

fuggiti della Spagna per mancanza di lavoro e le statistiche. Intanto, abbiamo già

qualcuno che si dichiara innocente.

In tutte le guerre ci sono

almeno due fazioni e in questa il rivale viene rappresentato da un’industria

che ha anch’essa i suoi problemi, un calo del numero delle imprese

nazionali, una sempre maggiore concentrazione di potere e che comunque

sta imparando a difendersi. L’aumento progressivo dei costi di produzione

degli ultimi quindici anni, associato al prezzo dell’energia (anche

se non lo sapessero) ha costretto l’industria sanitaria a cercare un

delicato equilibrio tra i prezzi di produzione e quelli di vendita,

da cui sono fuggite le imprese che hanno potuto portare la produzione

nell’Europa dell’est o in Cina.

Quello che sembrava essere

una panacea è invece diventato un mal di testa senza fine: i produttori

orientali non sono mai del tutto fidati e specialmente i cinesi sembrano

non avere limiti nello spedire merce problematica, in alcuni casi per

difetti “che non vengono rilevati“, in altri in modo

deliberato da parte di lavoratori disperati che vivono nelle fabbriche

e che passano al lavoro giornate interminabili per paghe miserabili.

A questo bisogna aggiungere i costi folli e sempre più alti delle materie

prime e del trasporto che obbligano

a negoziare continuamente i prezzi di vendita,

spremendo al massimo i margini di sopravvivenza delle imprese.

È drammatico il caso della

plastica utilizzata in migliaia di prodotti, perché i principali fornitori

della materia prima sono in Europa e, come non poteva essere altrimenti,

il prezzo segue quello del petrolio. Per questo, quando l’amministrazione

ritarda un pagamento (generalmente a centinaia), si tratta spesso di

un colpo (un mitragliamento) di grazia per decine di PMI che non possono

accumulare altro debito.

E se anche rimanesse una

qualche possibilità per le PMI, il sistema di acquisto centralizzato

tende a escluderle, perché normalmente non hanno la capacità

di produzione necessaria per partecipare ai concorsi, oltre ad avere

una capacità scarsa o nulla per vendere a credito.

In questo modo, a poco

a poco, solo i pesci multinazionali più grassi continuano a restare

nell’acquario e l’amministrazione elimina senza volerlo la concorrenza

dal mercato, facendo andare all’aria i vantaggi della strategia di

un acquisto centralizzato. Non esistendo una concorrenza reale, gli

ospedali devono accettare le condizioni imposte dall’industria se vogliono

ottenere una fornitura con l’acquisto a credito.

Credo sia chiaro che quando

un’industria multinazionale minaccia di sequestrare un governo non lo

dice invano, e

mi rimetto ai fatti.

E anche se intuiamo che

la situazione può solo peggiorare a causa della spirale deflazionistica

e debitoria in cui si trova l’economia, può aggravarsi ancora di più

per un qualcosa che la maggioranza ignora: l’ambito delle regolamentazioni.

L’adozione di nuovi protocolli e materiali in ambito sanitario è una

corsa di fondo che sembra non avere fine. E ci sono dubbi sta che questa

maratona abbia avuto un effetto positivo sulla qualità e l’efficacia

del servizio (“che la speranza di vita media continua ad essere

di 80 anni nonostante la vita che facciamo“). Ma niente è

gratis e le migliori tecnologie sanitarie si fanno ben pagare.

Evidentemente, l’industria

non ha gli stessi costi se deve fabbricare un ago che dura una vita

(ago, adattatore conico e cappuccio) rispetto a un ago con capacità

di autodistruzione (ago, adattatore conico e cappuccio con parti mobili

che impediscono un secondo utilizzo), e per questo i costi maggiorati

di progettazione e di produzione si ripercuotono sul prodotto finale.

Si potrebbe può pensare “compriamo allora aghi che durano una

vita”, ma qui c’è il problema, perché la trasposizione delle

normative europee obbliga progressivamente il settore sanitario all’adozione

di materiali moderni in vari aspetti (qualità del servizio, sicurezza

dell’operatore, sicurezza del paziente…). Cosicché sia per interessi

lobbistici dell’industria, sia per necessità reali del servizio, la

trasposizione di alcune normative europee garantisce la creazione di

un collo di bottiglia ai bilanci per niente marginale, per cui ancora

va trovata una soluzione.

Dopo avere saputo tutto
questo e senza prendere in considerazione quello che ci è sfuggito, è evidente che nel settore sanitario si sta sviluppando un’autentica guerra di guerriglia economica, in cui quale i centri medici decimati nel personale si vedono accantonati e fanno quello che possono
per mantenere il servizio, anche cercando di riciclare o di riutilizzare il materiale (non fatevi spaventare dalle
informazioni tendenziose degli uffici stampa dell’industria, perché molte di queste pratiche sono fattibili e non venivano realizzate solo per comodità) si fidino del personale sanitario che si affida più di altri a valori umanisti).

Per fortuna, la sanità
sembra essere l’ultima cosa che i gestori della cosa pubblica pensano
di tagliare, ma la situazione non è agevole.

Dato che pagare il debito è una priorità, sentirete sempre più spesso parlare di più di un
ticket” che è invece un salasso (asimmetrico, inefficace e ingiusto,
DITE NO!) o di privatizzazioni parziali. Quindi non mettetevi comodi e scendete in strada a protestare perché somiglia sempre di più ad una tragedia greca con frasi epiche come questa. Le conseguenze non saranno per niente lusinghiere.

Salute e buona fortuna.

**********************************************

Fonte: Impacto del Peak Oil en nuestro sistema sanitario

23.02.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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