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La Redazione

 

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Il seme della violenza – Parte II. Dal 1948 all’ascesa di Hamas

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A cura di Redazione CDC
Il 11 Novembre 2023
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IL SEME DELLA VIOLENZA PARTE II - DAL 1948 ALL'ASCESA DI HAMAS

Dopo la prima parte de Il seme della violenza. Le origini del conflitto israelo-palestinese, pubblichiamo l’ultima puntata della serie che analizza le radici storiche degli orrori che viviamo oggi.

Buona lettura.

IL SEME DELLA VIOLENZA PARTE II – DAL 1948 ALL’ASCESA DI HAMAS

Di Domenico Moro per ComeDonChisciotte.org

Il periodo che va dalla fine della guerra del 1948, definita dai sionisti prima guerra di indipendenza e dai palestinesi Nakba (disastro), fino all’inizio del XXI secolo è caratterizzato da un quadro di grande complessità e denso di forti contraddizioni a livello sia regionale sia mondiale, che ha reso a tutt’oggi la questione palestinese ancora senza soluzione.

La fondazione del nuovo stato di Israele

La guerra del 1948 lasciò due questioni irrisolte. La prima fu il riconoscimento internazionale di Israele, che, sebbene riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi (compresa l’Urss), non ebbe il riconoscimento dei Paesi arabi limitrofi. La seconda fu la questione della collocazione dei profughi palestinesi, che si ritrovarono senza terra e senza Stato.

Lo Stato sionista, comunque, beneficiò di alcuni vantaggi rispetto ai Paesi del Terzo mondo che, alla fine del colonialismo, si resero indipendenti. Mentre questi ultimi dovevano adattare le istituzioni ereditate dalla potenza colonialista o costruirle ex novo, Israele poteva contare su istituzioni formatesi nel corso del mezzo secolo precedente. Israele poteva beneficiare, inoltre, dell’aiuto degli ebrei della diaspora, che fornivano sostegno politico ed economico al nuovo Stato. Si trattava di una sorta di assicurazione economica di cui gli altri Paesi di recente costituzione erano privi.

Israele si caratterizzò sin dall’inizio come uno Stato confessionale. Infatti, mentre impediva il rientro dei Palestinesi fuggiti durante la guerra del 1948, sollecitava l’immigrazione degli ebrei provenienti da tutto il mondo. Nel 1950 il parlamento israeliano votò la cosiddetta Legge del ritorno, il cui primo articolo stabiliva: “Tutti gli ebrei hanno diritto a immigrare nel Paese”. Del resto, lo Stato sionista si appropriò del 94% delle proprietà dei palestinesi fuoriusciti, assegnandole a ebrei israeliani.

L’omogeneità etnico-religiosa di Israele fu raggiunta, oltre che con la pulizia etnica nei confronti dei palestinesi, favorendo l’immigrazione degli ebrei della diaspora, specie di quelli provenienti dai Paesi musulmani. Ben 700mila immigrati fecero ingresso nei primi quattro anni di esistenza di Israele e nei quindici anni successivi ne arrivarono altri 700 mila. Fra i Paesi arabi gli arrivi maggiori di ebrei provenivano dal Marocco (165mila), dall’Iraq (120mila) e dall’Egitto (80mila). Comunità ebraiche vecchie di secoli sparirono dall’oggi al domani, tanto che nel 2000 nell’intero mondo arabo rimanevano appena 5mila ebrei. Gli ebrei arabi lamentarono una certa discriminazione rispetto agli ebrei provenienti dall’Europa, anche perché l’élite dirigente israeliana pensava di dover “civilizzare” i correligionari arabi. Col tempo gli ebrei arabi sostennero un partito, il Likud, che raccoglieva quanti si sentivano esclusi e nutrivano rancore verso l’élite del partito laburista, che però mantenne il controllo delle istituzioni statali, continuando a infoltire le proprie fila.

Le istituzioni preesistenti alla proclamazione dello Stato di Israele subirono delle modifiche. Molte funzioni svolte da organizzazioni private passarono sotto la responsabilità dello Stato. Ad esempio, lo Stato continuò a consentire al sindacato, la Histadrut, di provvedere ai servizi sociali, ma pretese che l’istruzione gli venisse ceduta. Per garantirsi il monopolio dell’uso della forza, fondamentale aspetto della sovranità di uno Stato, il governo di Ben Gurion bombardò una nave che trasportava armi per conto dell’Irgun, che si era rifiutato di consegnarle. In quell’occasione furono uccisi 16 combattenti dell’Irgun, ma il monopolio sulla violenza dello Stato non fu più messo in discussione.

Lo Stato di Israele poté contare e conta tutt’ora sulla cosiddetta “rendita”, cioè su risorse finanziarie extra rispetto alla normale tassazione applicata dallo Stato sui suoi cittadini. I finanziamenti vengono sia dal mondo ebraico sia da altri Stati che aiutano Israele. Per facilitare i contributi provenienti da privati, si sono resi deducibili dalle tasse i contributi degli ebrei statunitensi all’Agenzia ebraica e al Fondo nazionale ebraico. L’aiuto di altri Stati verso Israele è cominciato molto presto. Nel 1953, ad esempio, la Repubblica federale tedesca ha devoluto ben 700 milioni di dollari come riparazione per la Shoah. La Francia nello stesso periodo ha cominciato a fornire assistenza militare. Il maggiore contributo viene dagli Usa, che da decenni contribuiscono con circa 3,8 miliardi di dollari all’anno sotto forma di aiuto diretto e quasi altrettanti in forma indiretta (cancellazione del debito, sovvenzioni speciali).

Il conflitto arabo-israeliano

Israele non fu l’unico Stato a subire modificazioni nell’area medio-orientale. A Partire dalla fine degli anni ‘40 del secolo scorso ci furono diversi colpi di stato messi in atto da gruppi di militari che avevano come obiettivo l’emancipazione dei loro paesi dall’imperialismo occidentale, in particolare britannico. Il più famoso di questi militari fu Giamal ‘Abd an-Nasir, meglio conosciuto come Nasser, che nel 1952 assunse il potere in Egitto.

Gli israeliani si mostrarono subito ostili verso il nuovo Egitto di Nasser. Nel 1954 gli egiziani scoprirono il piano sionista, conosciuto come “affare Lavon”, dal nome dell’allora ministro della difesa israeliano, che prevedeva di fare alcuni attentati contro installazioni britanniche e statunitensi in Egitto. Gli Israeliani pensavano di far ricadere la responsabilità di questi attentati sugli egiziani, per indurre gli Usa a interrompere la fornitura di armi all’Egitto e i britannici a interrompere i negoziati per il ritiro delle loro truppe dalla zona del canale di Suez.

In quel periodo gli israeliani fecero una incursione su Gaza, all’epoca controllata dall’Egitto. Nasser fece richiesta di armi ai paesi occidentali, che però rifiutarono. Di conseguenza Nasser, dopo aver proclamato il “non allineamento”, si rivolse per le armi alla Cecoslovacchia, che all’epoca era parte del blocco sovietico. Inoltre, Nasser riconobbe ufficialmente la Cina comunista, con grande disappunto degli Usa. Gli Usa per risposta bloccarono un prestito della Banca mondiale agli egiziani per costruire la diga di Assuan. A sua volta Nasser decise di nazionalizzare il canale di Suez, cosa che innescò la cosiddetta crisi di Suez (1956). In risposta alla nazionalizzazione, le vecchie potenze coloniali, la Gran Bretagna e la Francia, d’accordo con Israele, provarono a invadere l’Egitto. L’invasione, però, suscitò la riprovazione della comunità internazionale e in particolare degli Usa. Questi ultimi erano contrariati perché Suez sviava l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale dall’Ungheria dove si registrava un intervento militare sovietico. Gli Usa imposero il ritiro delle truppe anglo-francesi, e da quel momento assunsero il ruolo di potenza egemone nel Medio-Oriente al posto della Gran Bretagna e della Francia.

Nasser, comunque, era sempre più convinto del pericolo rappresentato da Israele. Il 14 maggio 1967 scoppiò di nuovo la guerra tra, da una parte, Israele e, dall’altra parte, Egitto, Siria e Giordania. L’esito del conflitto per questi ultimi fu disastroso: in sei giorni Israele sbaragliò gli avversari e occupò diversi territori appartenenti agli stati arabi, la penisola del Sinai, le alture del Golan, la Cisgiordania, la striscia di Gaza e Gerusalemme est. Quindi, dopo la guerra la posta in gioco non sarebbe più stata l’esistenza di Israele ma la restituzione dei territori occupati. La risoluzione 242 dell’Onu (22 novembre 1967) formalizzò tale situazione, secondo la formula “terra in cambio di pace”. Israeliani, egiziani e giordani accettarono la risoluzione in breve tempo, i siriani nel 1973. Nonostante questo i governi del Likud di fatto sostituirono alla formula “terra per pace” la formula “pace per pace”.

In questo periodo, i paesi arabi rifiutarono di trattare direttamente con Israele, intendendo trattare solo attraverso Usa e Unione sovietica. Dal momento che l’Unione Sovietica aveva interrotto i rapporti con Israele furono gli Usa ad intervenire come forza di mediazione. Il loro vero obiettivo, però, era quello di escludere l’Unione Sovietica da aree significative del mondo come il Medio-Oriente. Inoltre, gli Usa scelsero la strategia di fornire ad Israele armi sufficienti da poter essere superiore a tutti gli stati arabi messi insieme. Per superare la situazione di stallo, che gli Usa avevano contribuito a creare, egiziani e siriani intrapresero una nuova guerra contro Israele nel 1973 (Guerra del Kippur). La guerra fu un quasi pareggio: non portò a esiti risolutivi ma dimostrò agli arabi che Israele non era così forte come si credeva. Finita la guerra, il segretario di stato Usa, Kissinger, dovette fare la spola tra Damasco, il Cairo e Tel Aviv per occuparsi nei minimi dettagli del riposizionamento delle truppe israeliane e arabe.

I territori occupati

Israele opponeva motivi ideologici e pratici alla restituzione dei territori occupati, ad esempio di Gerusalemme est, dal momento che Gerusalemme era stata definita capitale dello Stato. Differente era il discorso per il Sinai che non aveva mai fatto storicamente parte di Israele e che alla fine fu restituito all’Egitto nel 1979. Israele fu invece restia a restituire le alture del Golan perché rappresentano un luogo di importanza strategica dal punto di vista militare, dal momento che dominano la Galilea.

Per quanto riguarda Gaza e la Cisgiordania, dopo il 1967 questi territori furono integrati nell’economia israeliana: i palestinesi potevano andare liberamente a lavorare in Israele, dove furono usati come forza lavoro a basso costo. Dal momento che l’integrazione era avvenuta forzosamente e data la grande differenza nello sviluppo di Israele e dei territori occupati, di fatto l’economia di questi ultimi fu di tipo coloniale dipendente. Nel 1993 Israele però decise di fare a meno della forza lavoro palestinese, favorendo l’immigrazione dall’Asia orientale e meridionale, dall’Europa dell’Est e dall’Africa, con effetti devastanti a Gaza sulla disoccupazione e sulla povertà che aumentarono vertiginosamente. Ma l’elemento che ha ostacolato maggiormente lo scambio di terra in cambio di pace è sempre stata la presenza di insediamenti di coloni israeliani nei territori occupati. Il numero dei coloni israeliani è cresciuto esponenzialmente e gli insediamenti sono numerosi nella Cisgiordania, dove sono protetti dall’esercito. L’insediamento di coloni, che è stato ripetutamente condannato dall’Onu, è facilitato da incentivi e agevolazioni fiscali disposti dallo Stato israeliano.

L’economia e la società palestinese dei territori occupati venne sconquassata. Regole e normative fastidiose e vessatorie pervadevano tutti gli aspetti della vita. La terra era espropriata dalle autorità di occupazione per le più svariate ragioni a favore dei coloni, mentre le politiche agricole israeliane avevano ridotto la superfice dei coltivi a un livello più basso di quello del 1947. Le politiche del lavoro erano discriminatorie nei confronti dei lavoratori palestinesi. La densità abitativa a Gaza era altissima. Tutto questo portò alla rivolta che si concretizzò nella prima intifada che iniziò nel 1987, durando per cinque anni. I giovani palestinesi impegnavano l’esercito con sassi e fionde, mentre gli adulti praticavano la mobilitazione passiva, basata sul boicottaggio e sulla disobbedienza civile. La reazione israeliana fu durissima: tra 1987 e 1993 furono uccisi dai soldati israeliani dai 900 ai 1200 palestinesi, 18000 furono feriti, 175000 furono detenuti, 23000 furono torturati, furono distrutte 2000 abitazioni palestinesi per rappresaglia e infine il livello di vita nei territori si abbassò del 40%.

Tra le organizzazioni venute alla luce durante la prima intifada ci fu il Movimento di resistenza islamica, meglio noto con l’acronimo di Hamas, che sfidò l’egemonia dell’Olp, l’organizzazione storica del movimento di liberazione della Palestina guidata da Yasser Arafat. Hamas si differenzia dalla laica Olp non solo perché si rifiuta di riconoscere Israele ma anche perché vuole rimodellare la società palestinese secondo principi islamici. L’affermazione di Hamas fu facilitata dallo sviluppo di istituzioni caritative e associazioni di assistenza sociale islamiche, finanziate da Kuwait e Arabia Saudita. Nel 1967 a Gaza c’erano 77 moschee, allo scoppio dell’intifada ce n’erano 150, che spesso furono incubatrici delle nuove organizzazioni politiche islamiche. L’altro fattore di sviluppo di Hamas e di altre organizzazioni islamiche fu l’appoggio di Israele. Così scrive lo storico statunitense James L. Gelvin:

“Dal canto loro, gli israeliani fornirono un tacito appoggio alla diffusione delle associazioni islamiche nei territori. Il governo israeliano credeva che, fornendo assistenza e servizi alla popolazione dei territori, […] le associazioni islamiche ne avrebbero alleviato le durissime condizioni, contribuendo, in tal modo, a tenere calmi i palestinesi. Inoltre, gli israeliani erano convinti che le associazioni islamiche […] potessero contrapporsi, indebolendola, all’Olp. Insomma, non si resero conto che stavano scherzando col fuoco.” (i)

Hamas ha certamente controbilanciato il potere dell’Olp e si è tenuto alla larga dall’Autorità palestinese (Ap), vale a dire dall’embrione di governo costituitasi, a seguito dell’Accordo di Oslo, nel 1995 nelle zone di Gaza e Cisgiordania. Tuttavia, Hamas nel gennaio del 2006 partecipò alle elezioni del Parlamento palestinese, risultando, tra la sorpresa generale, la prima forza politica e conquistando 72 seggi su 132. La vittoria di Hamas non significò che la maggioranza dei palestinesi fosse diventata integralista, ma piuttosto rifletteva la stanchezza nei confronti dei limiti dei politici dell’Olp.

L’accordo di Oslo e la sua vanificazione

Nel 1991 l’Unione sovietica venne sciolta. La fine dell’Urss determinò una modificazione del quadro internazionale, dal momento che con essa veniva meno il confronto tra il blocco occidentale e quello sovietico, che aveva avuto una influenza notevole anche sul conflitto arabo-israeliano. È in questo nuovo quadro, caratterizzato da globalizzazione e neoliberismo, che si inserisce l’Accordo di Oslo. Dal dicembre 1992 all’agosto 1993 una delegazione israeliana tenne diversi incontri con una delegazione palestinese a Oslo in Norvegia. Da questi incontri scaturì un accordo di pace, che avrebbe dovuto mettere fine al conflitto israelo-palestinese. L’Accordo di Oslo, firmato dal governo israeliano di Yitzhac Rabin e dall’Olp, si compone di due protocolli. Il primo è uno scambio di lettere tra Arafat e Rabin, in cui le due parti si riconoscono vicendevolmente. Arafat riconobbe lo Stato di Israele e Rabin il diritto dei palestinesi alla creazione di uno Stato sovrano. In effetti, da parte palestinese si accettò che l’80% della Palestina storica fosse definitivamente sottratto a qualsiasi ulteriore negoziato. Ulteriori negoziati avrebbero riguardato solamente Gaza e la Cisgiordania. In questo modo il territorio sotto il dominio israeliano avrebbe soltanto potuto ampliarsi, mentre quello sotto dominio palestinese soltanto ridursi.

Il secondo protocollo, noto come Dichiarazione di principi, stabiliva che l’esercito israeliano si sarebbe ritirato entro tre mesi da Gaza e dall’area di Gerico, cui sarebbe stato attribuito uno status di autonomia, attraverso la costituzione di una autorità di autogoverno provvisoria, cioè l’Autorità palestinese. L’accordo suddivideva la Cisgiordania in tre zone diversamente controllate da Israele. All’interno di queste zone fu consentita la costruzione di tangenziali che collegassero i vari insediamenti israeliani e dalle quali erano esclusi i palestinesi, il cui libero spostamento era così impedito. In sintesi, gli israeliani furono negoziatori più abili dei palestinesi. Ciononostante il primo ministro Rabin fu accusato dall’opposizione interna del Likud di aver svenduto tutto. Nel 1995 Rabin fu ucciso da un estremista religioso ebraico, e pochi mesi dopo fu eletto primo ministro Benjamin Netanyahu, candidato del Likud contrario a Oslo. Il governo di Netanyahu si oppose a qualsiasi ulteriore concessione e soprattutto ridusse al minimo la portata delle concessioni precedenti. Gli accordi di Oslo furono vanificati e Israele, oltre a costruire nuovi insediamenti, iniziò a impedire l’ingresso dei lavoratori palestinesi, rimpiazzandoli con immigrati provenienti da altre aree del mondo. Di conseguenza, la miseria si diffuse nei territori occupati.

In questo periodo emerse la figura di Ariel Sharon, già generale dell’esercito israeliano e importante esponente del Likud. Sharon da ministro della Difesa del governo di Begin nel 1982 aveva organizzato l’invasione del Libano, che per Israele risultò essere qualcosa di simile al Vietnam per gli Usa. Durante l’invasione l’esercito israeliano bombardò indiscriminatamente per ottantotto giorni la capitale del Libano, Beirut, sollevando la condanna di tutto il mondo. Sharon fu anche complice del massacro di 2750 palestinesi (dati della Croce Rossa) ad opera delle milizie cristiane di destra in due campi profughi, Sabra e Shatila. Successivamente da ministro del governo di Netanyahu, presiedette alla più grande espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati. Il 28 settembre 2000 Sharon fece la famosa e provocatoria passeggiata nella spianata delle moschee, luogo sacro per i mussulmani. La manifestazione di protesta dei palestinesi fu repressa nel sangue dalla polizia israeliana e quattro palestinesi rimasero uccisi. Immediatamente dopo scoppiò la seconda intifada, che si caratterizzò anche per gli attentati suicidi portati avanti soprattutto da Hamas e Jihad islamico. La seconda intifada, tra 2000 e 2005, registrò circa quattromila vittime di cui tremila palestinesi, fra le quali cinquecento di età inferiore ai diciotto anni.

Durante la seconda intifada, l’11 settembre 2001 avvenne l’attacco alle torri gemelle di New York, che portò l’amministrazione statunitense di George Bush a proclamare la cosiddetta “guerra al terrorismo”. Quest’ultima divenne il contesto nel quale fu consentito a Israele di imporre una soluzione unilaterale al problema palestinese. Bush diede carta bianca a Sharon, diventato nel frattempo capo del governo, in quanto alleato nella guerra al terrorismo. Nel marzo 2002 Sharon ordinò l’”Operazione scudo protettivo”, la più grande incursione israeliana nei territori occupati del dopo Oslo, che provocò la morte di cinquecento palestinesi. L’accordo di Oslo venne definitivamente accantonato. Nell’aprile 2002 il governo israeliano annunciò la costruzione di un muro divisorio lungo 750 chilometri che penetra profondamente nelle aree occupate e comprende i più grandi insediamenti israeliani della Cisgiordania e di Gerusalemme. La costruzione del muro comporta lo sradicamento dei palestinesi, la confisca della loro terra, la separazione dei villaggi dai terreni coltivati.

Nel febbraio 2004 Sharon annunciò i piani per l’abbandono di Gaza, che fu sbandierato dagli Usa come una dimostrazione di buona volontà da parte israeliana. In realtà, Israele ha continuato, anche dopo il suo disimpegno da Gaza a controllare il confine della striscia, il suo spazio aereo, il commercio, le forniture elettriche, il flusso dei lavoratori e delle esportazioni verso Israele e dei trasferimenti tra Gaza e la Cisgiordania. Soprattutto, come ha sostenuto Dov Weisglass, uno stretto collaboratore di Sharon, il disimpegno da Gaza e da alcune zone della Cisgiordania doveva servire a “…congelare il processo di pace. […] Se si congela il processo di pace, si impedisce la creazione di uno Stato palestinese, e si impedisce la discussione sui profughi, sui confini, su Gerusalemme. Il tutto con la benedizione presidenziale statunitense e la ratifica di entrambi i rami del Congresso.” (ii)

Nel frattempo Sharon era uscito dal Likud e aveva fondato un suo partito, Kadima. Quando Sharon fu colpito, subito dopo, da un ictus cerebrale, fu sostituito al vertice del partito da Ehud Olmert, che nel marzo 2006 fu eletto primo ministro. Secondo il piano di Olmert la Cisgiordania sarebbe stata divisa in tre cantoni separati e circondati dalla presenza israeliana. Nella primavera del 2006 il conflitto sembravo chiuso a vantaggio di Israele, ma i palestinesi non intendevano cedere. Nel giugno 2006 militanti di Hamas e di altri due gruppi entrarono in Israele da Gaza uccidendo alcuni soldati israeliani e catturandone altri. Qualche giorno dopo Hezbollah, partendo dal Libano, fece lo stesso. Israele reagì con pesanti bombardamenti, che provocarono ampie distruzioni e 1500 morti fra i civili, e una vasta operazione di terra, durante la quale incontrò una forte e disciplinata resistenza soprattutto in Libano da parte di Hezbollah. La guerra durò 34 giorni e sul piano dell’immagine fu una vittoria per Hezbollah che era riuscito a resistere al forte esercito israeliano.

Tre mesi prima sia l’autorità palestinese sia Israele avevano registrato sommovimenti politici in occasione degli insediamenti dei rispettivi governi di Hamas e Kadima. Allo scopo di piegare Hamas all’accettazione del riconoscimento dello Stato israeliano, Israele cessò di versare tasse e diritti doganali, riscossi per conto dell’Autorità palestinese, e Usa e Ue cessarono di fornire aiuti finanziari. Dal momento che l’Autorità palestinese deve agli aiuti stranieri metà del suo bilancio, si trovò nella impossibilità a far fronte alle spese e persino a pagare i suoi 165mila dipendenti. Il tasso di povertà e di disoccupazione aumentò vertiginosamente e il consenso nei confronti di Hamas cadde al 30-35%. Anche Kadima, in Israele, si trovò in una situazione difficile. La sua vittoria elettorale fu molto meno ampia del previsto e soprattutto il piano di ritiro di Olmert, e prima di lui di Sharon, andò incontro a molte critiche, perché fu accusato di lasciare ai nemici di Israele il controllo di territori, come Gaza, da cui era possibile lanciare attacchi. Per rispondere alla situazione di debolezza in cui si trovava, il governo israeliano decise di ricorrere alla propria forza di dissuasione, basata sulla strapotenza militare, da cui l’uso sproporzionato dei bombardamenti. La deterrenza israeliana era stata pensata per una lotta tra Stati e non risultava efficace se usata contro avversari che non erano Stati e che dimostravano di non voler giocare secondo le vecchie regole. Di fatto, il conflitto israelo-palestinese si ritrovò nuovamente in una situazione di stallo.

Da quanto abbiamo visto, appare chiaramente che Israele non ha intenzione realmente di addivenire alla soluzione di compromesso basata sul principio “due popoli e due stati” e che gli Usa, pur essendo fondamentali per il sostegno allo Stato di Israele, non hanno intenzione di far pesare questo sostegno per costringere Israele ad accettare il compromesso.

Di Domenico Moro per ComeDonChisciotte.org

 

QUI LA PRIMA PARTE

Domenico Moro si occupa di  globalizzazione e di economia politica internazionale. E’ autore di Globalizzazione e decadenza industriale e Nuovo compendio del Capitale.

NOTE

i James L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese, Einaudi, Torino 2007, pag. 289.

ii Ibidem, pag. 326.

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