IL ROGO DELLE PAROLE

Dalla neolingua di Orwell all'antilingua di Calvino, dal linguaggio tecnologico di Pasolini agli emoticon dei social media. Analisi di un lessico politicamente corrotto.

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Di Sonia Milone per ComeDonChisciotte.org

Rileggendo le righe della “Biblioteca di Babele” di Jorge Luis Borges, ovvero perdendosi nei suoi infiniti e labirintici corridoi, non si può evitare di incontrare anche i cercatori delle “parole infami”: ”invadevano gli esagoni, esibivano credenziali non sempre false, sfogliavano stizzosamente un volume e condannavano scaffali interi: al loro furore igienico, ascetico, si deve l’insensata distruzione di milioni di libri”.

Qualcuno, ora, vorrebbe restringere di nuovo la biblioteca, sbarrare l’accesso a certi corridoi, impedire di raggiungere certe pagine, certi lemmi, per rinchiudere il linguaggio in una gabbia. Il vocabolario delle “parole infami”, infatti, si allunga ogni giorno di più. Ora tocca alle parole “zingaro”, “ebreo” e “nativo” rimosse dai gialli di Agatha Christie dall’editore Harper Collins. Tre mesi fa è toccato ai termini “grasso”, “brutto”, “nano”, “pazzo”, censurati dai libri di Roal Dahl. Cancellati anche i nomi di Kipling e Conrad, autori innominabili: la protagonista del libro “Matilda” adesso ama leggere Jane Austen al loro posto. Ma prima ancora è toccato a Mark Twain: un’università ha bonificato “Le avventure di Huckleberry Finn” – quello che Ernest Hemingway definiva il capolavoro da cui “tutta la letteratura americana moderna proviene” – dal termine “nigger”. Stessa accusa per “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee: la sentenza, anche in questo caso, è inappellabile nonostante si tratti di uno dei più noti romanzi contro il razzismo… (e lo stesso Marti Luther King usava la parola “nigger” nei suoi comizi).
E prima ancora è toccato alle opere di Shakespeare, imputate di essere piene di classismo, suprematismo bianco e misoginia. E poi alla “Divina Commedia” di Dante epurata in Belgio e in Olanda da presunti contenuti islamofobi ed omofobi. Messa all’indice anche per “Pinocchio” colpevole di discriminazione verso i disabili essendo la volpe zoppa e il gatto cieco i “cattivi” della storia.

Il Nazismo bruciava i libri in piazza facendo una grande fiammata, ben visibile a tutti. I nuovi censori, invece, inceneriscono le parole ma non accendono roghi, non fanno vampate, nascondono il fumo sapendo che, prima o poi, l’odore acre di bruciato non verrà più sentito e il male non sarà più percepito. Il libro resta apparentemente intatto, porta ancora la firma dello scrittore in copertina, però il suo contenuto è stato modificato. È una manovra di falsificazione subdola: la copia manipolata assomiglia all’originale e il principio d’autorità si nasconde sotto il principio d’autorialità. Nell’era dei simulacri non è più possibile distinguere la verità dalla menzogna.

È un’operazione di riscrittura dei libri per ottenere una letteratura raddrizzata, allineata, aizzata a dovere per l’addestramento delle masse contro sessismo, razzismo e tutto il catechismo del progressismo neomoralista 2030. Vi diciamo “Noi” quali parole leggere e quali non leggere, vi diamo “Noi” le definizioni per l’uso esatto dei vocaboli. Ai lettori già letti in anticipo non si può che offrire una letteratura ripulita da ogni stratificazione storica, da ogni proliferazione polisemica, da ogni margine di dubbio. Si cancella il passato per “correggere” la storia al suono dei nuovi termini buoni, giusti, moderni: la pagina bianca viene trasformata in uno spazio immacolato, neutrale, sotto il cui candore si stanno, in realtà, riscrivendo gli odierni rapporti di forza fra il potere e il sapere.

Chi controlla le parole controlla il mondo perché regola il traffico dei significati. Censurare le parole significa, infatti, proibire le idee, le interpretazioni e le visioni della realtà. Infatti, Percy Shelley affermava che “i poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo”. Ma in un mondo sempre più governato dalle leggi dei padroni della finanza non c’è più posto per gli scrittori, occorre silenziarli, obliterarli, buttarli fuori dal sistema (e dai loro stessi libri), in modo da conquistare il monopolio assoluto dei processi di significazione e dettare a tutti la verità unica e incontrovertibile, la sola stampata e conosciuta.

E così, pagina dopo pagina, leggere un libro non significa più ampliare la mente e nutrire lo spirito, ma cadere nella trappola di una sofisticata ingegneria linguistica che, con le sue formule incantatorie e incatenatorie, divora il pensiero ed espropria gli individui delle più elementari categorie di giudizio per analizzare e mettere in discussione i mutamenti in atto, lasciandoli privi di difese di fronte alla narrativa dominante.

La letteratura è pericolosa perché ha la forza di andare oltre i luoghi comuni, sabotando gli imperativi linguistici del potere, scardinando l’artificialità dei discorsi dogmatici. Beckett, infatti, scriveva di “fare dei buchi” nel linguaggio per vedere “cos’è nascosto dietro”. Gli scrittori di genio azzardano sempre il rischio della creatività lasciando aperta la strada per altre interpretazioni, altre scritture e narrazioni capaci di smascherare i falsari della lingua. Come ha scritto la filosofa Simone Weil, i libri hanno il potere di svegliarci alla verità: “ci danno, sotto forma di finzione, qualcosa di equivalente all’attuale densità del reale, quella densità che la vita ci offre ogni giorno ma che siamo incapaci di afferrare perché ci stiamo divertendo con delle bugie”.

La dittatura del politicamente corretto manipola il linguaggio attraverso due linee complementari: la propaganda e la censura. La prima agisce per addizione, intasando tutto il piano del discorso pubblico con i suoi slogan ridondanti, la seconda per sottrazione, abolendo certi termini, certi testi, in modo da eclissare qualsiasi pensiero capace di immaginare altro. Entrambe hanno lo scopo di trasformare il linguaggio in un ghetto, impoverire il pensiero e chiudere il mondo in una gabbia. “I limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”, ha scritto Ludwig Wittgenstein.

Ogni tentativo di imbrigliare la ricchezza delle parole congelandone la potenza germinativa è un atto di violenza. Ogni tentativo di silenziare il bisbiglio delle parole per far loro dire un’unica voce è un atto di tirannia.

In quel manuale di istruzioni del potere moderno che è “1984”, George Orwell attribuisce un ruolo fondamentale al linguaggio come strumento di assoggettamento. Ipotizza, infatti, l’esistenza di un apposito “ministero del condizionamento” dove si fabbrica la “neolingua” per impedire il dissenso: censurando le parole si eliminano i concetti con cui pensare la libertà. Il ministero lavora attentamente anche sulla torsione dei significati creando slogan come “la guerra è pace”, “la schiavitù è libertà”, “l’ignoranza è forza” in modo da inficiare il “principio di non contraddizione”, instillare nelle menti il “bi-pensiero” e compromettere la capacità di ragionare senza più accorgersi delle menzogne. “Cancel culture”, la cancellazione è cultura, in effetti, sembra uscita dalla penna di Orwell.

La cancel culture nasce in America negli anni ’50 con lo scopo di ritagliare il linguaggio per spostarlo verso punti privi di attrito sociale, in uno spazio idealmente pacificato. È una deificazione del concetto di “neutralità” assai ingenua poiché non può esistere un “grado zero” della lingua dato che ogni parola assume un determinato significato solo in base al suo contesto e al senso che una comunità gli attribuisce. Alla comprensione della storia la cancel culture sostituisce la cancellazione, allo studio la tabula rasa. Il filosofo Zygmunt Bauman è stato fra i primi a comprendere che le lotte sul linguaggio rischiavano, in realtà, di istigare le minoranze a radicalizzare le differenze, finendo per accentuare divisione e rottura di ogni dialogo, il solo in grado di comporre le divergenze.

Ma se, in origine, si trattava di rivendicazioni linguistiche di gruppi che si sentivano discriminati (per cui gli omosessuali sono diventati “gay”, i ciechi “non vedenti”, gli spazzini “operatori ecologici”, ecc.), in seguito, il politicamente corretto è diventato un’ideologia fanatica e intollerante strumentalizzata dalle élites per veicolare l’imposizione di una nuova visione della società.

Sostituire, ad esempio, le parole “padre” e “madre” con “genitore 1” e “genitore 2” non vuole solo dire modificare due vocaboli millenari, ma promuovere l’idea che la genitorialità non sia più prerogativa della complementarietà di maschio e femmina, incentivando la formazione di nuove tipologie di famiglia che, in ultimo, portano a incrementare la riproduzione artificiale dato che, da che mondo è mondo, la procreazione richiede ancora cromosomi xx e xy. La stessa tendenziosità si ritrova in termini come “esuberi” al posto di lavoratori da licenziare o come “delocalizzazione” al posto di chiusura e trasferimento all’estero di un’azienda o come “flessibilità” al posto di sfruttamento: sono termini che depotenziano la brutalità della rivoluzione neoliberale. Le parole aprono o chiudono mondi, li preparano, li anticipano, li suscitano, li rendono famigliari.

L’attenzione odierna per il multiculturalismo affonda nelle stesse radici. Non è certo un caso che il politicamente corretto si sia imposto definitivamente dopo la fine della guerra fredda, con la globalizzazione. Il mercato globale, mosso dalla finanza apolide, ha bisogno, infatti, di un territorio perfettamente liscio, privo di confini, identità, culture, appartenenze, considerati ostacoli solidi ai flussi sempre più accelerati di merci, informazioni e persone. Un mondo omologato, quindi, dove al confronto delle differenze si sostituisce la legge delle equivalenze, cioè la neutralizzazione di ogni singolarità in un sistema generale di indifferenziazione. Alle diverse latitudini del mondo, tutti devono mangiare lo stesso cibo, comprare gli stessi prodotti, leggere gli stessi libri, usare le stesse parole, pensare gli stessi pensieri, credere nelle stesse idee. L’abitante ideale del nuovo mondo è un meticcio senza radici, senza memoria, senza storia, possibilmente anche anglofono e senza lingua-madre.

“Non si abita un paese, ma una lingua; una patria è questo e nient’altro”, ha scritto Emil Cioran. Si chiama, infatti, lingua-madre poiché nutre (ed è a sua volta nutrita) un intero sistema di pensiero, di significati e di valori. Una lingua nasce in un determinato contesto geografico e storico che lascia la sua impronta: la diversità linguistica coincide con la diversità cognitiva e culturale. Un idioma non è totalmente traducibile in un altro, mantiene sempre una soglia di opacità che coincide con l’originalità e l’originarietà del popolo che lo parla. Ma nella cosmopoli universale il pluralismo linguistico va superato: l’operaio calabrese deve intendersi con quello di Detroit nel minor tempo possibile. Le parole sono pietre e vanno, quindi, tagliate, accorciate, smussate, levigate, modellate come mattoni uniformi con cui erigere la nuova torre di Babele, la scalata verso una metalingua universale: “in principio era il Verbo”. L’officina della neolingua lavora a ciclo continuo per ricreare la realtà ponendo le fondamenta direttamente nella coscienza degli individui affinchè nessuno possa sfuggirgli e opporglisi.

La società globalizzata non può che essere “inclusiva”, nel senso che non c’è più un confine esterno da oltrepassare per incontrare lo straniero ma tutto deve essere, appunto, incluso, inglobato e omologato. Svaniscono le terre lontane, il viaggiatore non ha più cambiamenti di lingua da affrontare, bastano pochi vocaboli semplificati da mettere in valigia per andare leggeri verso nessun dove. La metalingua trasporta le parole sulle nuove vie della comunicazione accelerata e digitale spogliando i discorsi, bruciando i contenuti nel lampo di un messaggio sul cellulare.

“Uguaglianza” è la parola d’ordine imposta per l’insaziabile desiderio di collezionare il mondo da parte di chi ha il potere di farlo. Il galateo globalista prescrive la tirannia dei nuovi vocaboli apparentemente rispettosi verso ogni minoranza come emblema della diversità umana, creando l’illusione della rappresentazione adeguata del mondo. I suoi ordini sono presenti ovunque, tranne che sulla superficie della pagina: il potere invisibile del dogmatismo non è leggibile fra le righe.

La retorica della libertà sfocia, infatti, in un sistema di repressione che scarta il confronto e il ragionamento provvedendo a cancellazione diretta contro chiunque non si conformi in quanto nemico del “bene pubblico”. Non si tratta solo di abolire questa o quella singola parola considerata offensiva, ma di legittimare il fatto che di certi argomenti non si può dibattere: sono al di là del discutibile. Sono dei tabù di fronte ai quali si può solo tacere, interiorizzando l’autoritarismo.

Il politicamente corretto ha ormai assunto il compito di regolare il traffico del dicibile e dell’indicibile, ridefinendo i confini entro cui i concetti possono circolare all’interno della comunità. Si tratta di un sofisticato dispositivo di erosione delle pratiche discorsive che sono a fondamento della convivenza civile: solo il dialogo può garantire la composizione e la negoziazione della pluralità. Alterare la lingua mina segretamente il cuore stesso di una società poiché “la verità accade nel dialogo, nella discussione, nella conversazione, in ogni caso nel linguaggio e nella parola”, come ha scritto il filosofo Joseph Pieper, profetizzando già nel secolo scorso come l’abuso di parola sia il mezzo privilegiato dell’abuso di potere.

Corrompere le parole significa corrompere la democrazia. Il linguaggio non è più un’area protetta a garanzia della libertà, ma diviene il prodotto più avanzato dell’ingegneria sociale in atto per il controllo dei popoli, la manipolazione delle idee, la distorsione della realtà. I totalitarismi hanno sempre manipolato la lingua, la novità attuale è che non è più lo Stato a farlo ma, in primis, le università, le accademie, le case editrici, i giornali, ovvero gli organi che, una volta, fungevano da critica e argine alla censura, mentre ora ne sono i principali centri di propagazione.
Il furore della tabula rasa è partito, infatti, dalle università americane per poi estendersi a tutto l’Occidente. Nelle scuole anglosassoni è in via di normalizzazione la rimozione dei classici dai programmi di studio, mentre in Italia “Gherush92”, comitato per i diritti umani e consulente speciale del Consiglio delle Nazioni Unite, ha chiesto l’eliminazione di Dante dalle scuole di ogni ordine e grado. Molti editori hanno nominato dei consulenti dedicati al tema dell’inclusività, come la Harper Collins UK. La decapitazione delle statue di Cristoforo Colombo o di Winston Churcill è solo la frangia più estrema di un’operazione molto sofisticata di condizionamento che parte dall’alto.

Il fanatismo linguisticamente corretto avanza dettando la nuova dittatura del Bene a masse sempre più infantilizzate dall’uso dei social media e dei messaggi whatsapp, questo gergo semplificato da tastiera che corrode il linguaggio, disabitua alla complessità, istupidisce la mente. È una parola veloce, breve, banale, alleggerita del suo millenario spessore semantico per volare di supporto in supporto, fra Facebook e Whatsapp. In un mondo dove alle relazioni vengono sostituite le connessioni, la parola non passa più di bocca in bocca e così si ammutolisce.

Mai il numero dei vocaboli è stato così ridotto. E all’impoverimento del proprio vocabolario corrisponde il restringimento della propria sfera di pensiero perché non esiste palestra migliore per l’intelligenza umana di quello strumento flessibile e potente che è il linguaggio. Solo la ricchezza semantica ci permette di esprimere con precisione la complessità del mondo e le infinite sfumature dell’anima.

Strafalcionare l’ortografia, abolire le coniugazioni verbali, usare la “x” al posto del “per”, i disegnini degli emoticon al posto delle emozioni, il “copia e incolla” al posto della creazione di una frase originale…Nessuno dilata il pensiero per un tempo più lungo di una chat: si comunica in flash con un formulario sempre più binario, simile a quello del computer.

È l’avvento di quello che Pierpaolo Pasolini chiamava “linguaggio tecnologico”: “segnaletico, inespressivo, ciecamente pragmatico”.  Con profetica, sofferta, lucidità, lo scrittore è stato il primo, in Italia, a osservare l’inesorabile crisi della lingua vedendo emergere un “principio unico, regolamentatore e omologante di tutti i linguaggi nazionali” che avrebbe portato ad una “sola terminologia possibile”.

Fin dagli anni Cinquanta, Pasolini aveva denunciato come i mutamenti della modernità stavano determinando un nuovo panorama socio-linguistico caratterizzato da un’accentuata strumentalizzazione del lessico funzionale all’”orrendo futuro tecnologico”, al servizio dell’avvento di una nuova egemonia. Contrappone il linguaggio come “comunicazione” al linguaggio come “espressione”, cioè il linguaggio “tecnologico” al “linguaggio umanistico”, che viene a coincidere con la libertà stessa dell’uomo rispetto alla sua meccanizzazione.

La lotta dentro la lingua lo porta a progettare, nel 1963, il rifacimento della “Divina Commedia” in cui Pasolini-Dante immagina di trovarsi nella “selva oscura” del degrado tecnicista, mentre il Paradiso del neocapitalismo viene ironicamente esposto “in una lingua italiana futura: puramente comunicativa, col suo principio unificatore”.

Lo scrittore riconosceva nella lingua e nei dialetti d’Italia, così come nei paesaggi naturali e urbani, la ricchezza della nostra identità nazionale e il baluardo da opporre ai modelli imposti dall’ideologia del consumismo che “disumanizza le persone”, azzera le capacità critiche e impone “faziosa passività e atroce afasia”. L’ultimo Pasolini degli “Scritti corsari” concepisce ormai l’omologazione lessicale come sinonimo di scomparsa della lingua tradizionale in un capitolo opportunamente intitolato “genocidio”. “Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione”, scrive.

Negli anni Ottanta anche Italo Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, denuncia l’abbruttimento in atto: “mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”.

Per lo scrittore l’immiserimento della lingua è una malattia che appesta il mondo facendoci perdere la capacità di descriverlo e quindi di governarlo. Già in un articolo del 1965 aveva rilevato i primi germi della patologia coniando il termine “antilingua”, una nuova lingua in cui “i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per sé stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente”. La causa principale dell’antilingua per Calvino è “la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione”.

Nelle “Lezioni americane” rileva: “Non mi interessa qui chiedermi le origini di quest’epidemia…Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare gli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio”.

Alla guida del lessico, oggi, non solo non c’è più la letteratura, ma la si cancella per impedire la cura. Il linguaggio è, ormai, modellato dalla comunicazione pubblicitaria, un dispositivo che consuma ogni forma di linguaggio decontestualizzandolo, svuotandolo, uniformandolo. Assorbe ogni varietà per depotenziarla, punta alla retorica, alla seduzione, all’inganno, alla soggezione piuttosto che alla verità. Fra le parole e le cose si è insinuata una frattura e la realtà pare inabissarsi sotto vocaboli svuotati di ogni profondità, messi li a sventolare come bandierine di plastica su cui il potere può scrivere qualsiasi slogan di cartapesta.

Si avvera la profezia di Jean Baudrillard: il reale non esiste più, è scomparso, sgretolato dai mass media e dalle moderne tecnologie. Una volta era possibile distinguere il vero dal falso, oggi non più in quanto i mezzi di comunicazione hanno assorbito tutta la realtà sostituendosi ad essa. Il virtuale non rimanda ad alcuna verità sottostante e pretende di valere per quella stessa verità. È un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà.

Ecco perché il vero terreno strategico del potere, oggi, è quello della manipolazione dei codici e delle significazioni. Il dominio non viene più esercitato attraverso i vecchi apparati di coercizione ma con un esercizio costante della comunicazione teso a promuoverne il consenso e l’interiorizzazione. La comunicazione ha assunto il ruolo del discorso ufficiale diffondendo la sua “verità” autoreferenziale, univoca, omnicomprensiva che copre qualsiasi altra voce tramite il velo di un linguaggio totalitario, irrimediabilmente anticritico, antidialettico e antistorico.

Verità in greco si traduce con “aletheia” che, letteralmente, significa dis-velamento, ossia togliere il velo,  evidenziando come essa comporti sempre l’atto faticoso e coraggioso di una ricerca che va oltre l’apparenza. La manomissione del linguaggio, invece, stende veli fasulli sulle parole che, anziché custodire una relazione veritativa con la realtà, la tradiscono veicolando inganni e occultamenti. Se l’operazione di nominazione delle cose è intessuta nella frode, l’uomo si smarrisce perché perde l’alfabeto con cui decifrare il mondo e la spada con cui spezzare l’involucro di bugie che avvolge le parole e nasconde la verità.

La funzione principale del linguaggio è, infatti, dare forma al mondo. Dare un nome alle cose significa creare un nesso, conferire un senso, stabilire un ordine, ritagliare una costellazione di significati con cui l’uomo può orientarsi nell’universo. La stessa esistenza delle cose è affidata alla nominazione. Gli eschimesi Yupik, per esempio, hanno 99 vocaboli per nominare ciò che noi chiamiamo con la sola parola bianco. Sbagliare parola equivale a vivere o morire perchè i 99 colori identificano anche il livello di solidità del ghiaccio e, quindi, la pericolosità di camminarci sopra. In quasi tutta l’Africa, fino al secolo scorso, il termine “arte” non esisteva perchè la creatività aveva funzione esclusivamente sacrale e non estetica.

L’habitat dell’umano è il linguaggio, se le parole perdono le loro radici, cioè il loro legame fecondo con le cose, è tutto il terreno che marcisce portando alla putrefazione dell’umano poiché la lingua è l’orizzonte che ci definisce. La cancel culture punta a farci dimenticare il nostro alfabeto originario per rimontare le lettere arbitrariamente, ma se perdiamo l’alfabeto il reale diventa illeggibile, silenzioso e inaccessibile.  Cultura deriva dal verbo latino “colere” che significa coltivare: la cancel culture è il fungo velenoso che mira a inquinare la nostra cultura per disseminare ovunque i suoi frutti mortiferi e le sue allucinazioni cognitive.

“Quando io uso una parola – disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante – quella significa ciò che io voglio che significhi, né più né meno.”
“Bisogna vedere – disse Alice – se voi potete fare sì che le parole significhino cose differenti”.
“Bisogna vedere – disse Humpty Dumpty – chi è che comanda… ecco tutto”.

Per Gille Deleuze – e “il prossimo sarà il secolo di Deleuze” ha detto Foucault – Alice è la figura-lanterna in grado di guidare nelle derive della contemporaneità. La protagonista del racconto di Lewis Carroll, infatti, trasforma i significati univoci dati una volta per tutte con la pressione delle sue domande. Il mondo di Alice è il mondo del paradosso, degli indovinelli, degli slittamenti di significato, delle metamorfosi: ogni personaggio che incontra le offre una visione anomala delle cose a cui la bambina risponde rilanciando, ricca di inventiva, il gioco delle complicazioni del molteplice. Per il filosofo francese la bambina è portatrice di un linguaggio che non si lascia imbrigliare dai meccanismi di cattura del sistema. È la stessa qualità che Pasolini attribuiva ai dialetti: sono lingue territorializzate, corpose, non possono essere astrattizzate, formattate, dominate.

Per spezzare la sottomissione al conformismo autoritario e omologante bisogna fare come Alice: cercare buchi, soglie, passaggi, vie di fuga dai percorsi convenzionali rimettendo sempre tutto in gioco e in discussione.

La letteratura è uno di questi buchi. È lo scrigno che custodisce il valore prezioso delle parole, la loro autenticità irriducibile ai circuiti del potere. È un tesoro da difendere contro la manomissione del linguaggio, il furto dei significati, lo scasso della bellezza. Non per caso, Dante mette i falsari dei vocaboli nello stesso cerchio dell’Inferno insieme ai falsari della moneta.

Di Sonia Milone per ComeDonChisciotte.org

02.08.2023

 

 

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