DI GIULIETTO CHIESA
Megachip
Dopo avere, da tempo in verità, seppellito il comunismo, Walter Veltroni effettua la sua personale, seconda rivoluzione, seppellendo anche il socialismo. In compagnia di Giuliano Amato e di altri. In un suo recente intervento su Repubblica il sindaco di Roma apre la sua riflessione teorica con un riconoscimento della “grandezza della sinistra”. Che consisterebbe, a sua giudizio, nella capacità di adattamento, per “poter stare dentro il proprio tempo”, e per poter “perseguire i suoi obiettivi di fondo”.
Su questo secondo aspetto merita tornare più avanti. Ma è sul primo che nascono perplessità. Stare dentro il proprio tempo è necessità della politica in generale, non della sinistra in particolare. Metternich e napoleone, Riccardo III e Brezhnev, Stalin e Berlusconi sono stati tutti dentro il proprio tempo. Anche il saper cambiare se stessi, quando è riferito a formazioni politiche, non è caratteristica di una sola parte dello spettro. Dunque quale sarebbe stata, secondo Veltroni, la grandezza della sinistra? Dove sarebbe la sua specificità?Veltroni risponde così: “Nell’interpretare il mondo che cambiava”. Scorri le righe del lungo articolo e, fino in fondo, non trovi mai l’idea della “trasformazione dello stato di cose esistente”, che non fu soltanto del comunismo, ma anche del socialismo in molti dei suoi volti storici, e che è perfino incastonata profondamente, fino a permearla in molte sue parti, nella nostra Costituzione Repubblicana. Del tutto – e non credo per caso – dimenticata in quelle righe.
Dominique Strauss-Kahn parla di “nuove sfide di un socialismo da non rinnegare”. Essere di sinistra, dice, “nasce da un rifiuto, da un grido, davanti all’ingiustizia sociale e politica”, mentre Veltroni si ferma all'”interpretazione”. Così il suo discorso diventa una specie di citazione shakespeariana, “Bruto è un uomo d’onore”, ma merita di essere condannato. Dove Bruto sarebbe il socialismo. Al suo posto chi dovrebbe venire? Il Partito Democratico, i cui profeti sono Franklin Delano Roosevelt, John Kennedy, Bill Clinton. Ci sono anche Willy Brandt e Olof Palme, ma come artefici dell'”aggiornamento del welfare state”.
A occhio e croce un pò poco per sostituire la grandezza della sinistra, oppure troppo, se si guarda la faccenda dal lato opposto. E poi un tantino troppo “laico” se si vuole coinvolgere, nel Partito Democratico, tanta parte del mondo cattolico che si dedica alla politica attiva.
Insomma spariscono dietro una cortina fumogena, molto retorica nelle affermazioni generali, tutti i problemi irrisolti del nostro tempo. Dov’è la modernità di questo progetto che sembra prescindere dalle sfide irrisolte della globalizzazione? Non una parola sui limiti dello sviluppo e sulla necessità di ridefinirlo. Non un rigo sulle ragioni della pace e sull’analisi delle cause delle guerre. Non un cenno sulla crisi della democrazia nelle società avanzate. Non una riflessione critica, e autocritica, sul percorso compiuto dalle forze politiche che dovrebbero unirsi per dare vita al Partito Democratico. Tutte cose che parrebbero indispensabili non solo per convincere chi non ci crede, ma anche per motivare in qualche modo i non molti che, allo stato dei fatti, dicono di crederci.
Su due punti si potrebbe convenire, seppure con qualche distinguo: sul fatto che le differenze interne al nuovo partito siano un “falso problema”. Infatti il vero problema è che entrambe le componenti essenziali del nascituro partito stanno annaspando nel tentativo di ridefinire, e di dividersi tra loro, l’insediamento sociale su cui poggiare. In secondo luogo è vero che occorre pensare a una “forza di popolo, non a un’assemblea di stati maggiori”, tenuti insieme da “astrattezze politologiche”. Ma ci si dovrebbe chiedere come mai si è arrivati – lo diceva sull’Unità anche Alfredo Reichlin qualche mese fa – a una sorta di “partitocrazia senza partiti, cioè senza popolo” e alla politica come professionismo, cioè senza ideali.
Una forza di popolo può nascere – vedi Antonio Gramsci – solo se interpreta le esigenze di larghe masse e se è da queste riconosciuta come loro espressione. Può un modesto programma riformista effettuare questo miracolo di fronte al dilagare della questione morale, che coinvolge anche la sinistra, all’insicurezza generale, alla precarietà, alla guerra che incombe, a uno sviluppo che diventa saccheggio e dilapidazione delle risorse e della Natura? Come si può affrontare il cambiamento se ci si propone solo di interpretare la necessità, cioè accettando il teorema neo-liberista della TINA (There Is No Alternative)? Un’analisi critica e autocritica sarebbe indispensabile, che coinvolga l’intero establishment politico del centro-sinistra. Da dove viene, per esempio, il distacco tra la gente e i suoi rappresentanti, che apparve clamoroso nel luglio 2001, e che da allora si è dilatato? Da dove viene la vittoria democratica nel referendum sulla Costituzione se i partiti del centro-sinistra non hanno fatto quasi niente per ottenerla?
Con queste premesse il Partito Democratico, probabilmente, si farà, perchè questa classe politica senza più radici ne ha bisogno per sopravvivere. E sarà “post-socialista”, gestore dell’esistente, cioè senz’anima.
Giulietto Chiesa
Fonte: www.megachip.info
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21.09.06