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La Redazione

 

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IL CROLLO DEL RUBLO CHE FA TREMARE LA RUSSIA

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A cura di Davide
Il 4 Dicembre 2014
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El-rublo-ruso

DI MAURO BOTTARELLI

ilsussidiario.net

Non c’è pace per il rublo e nemmeno per Putin. Dopo il crollo del 9% di lunedì rispetto al dollaro che aveva portato il cross in area 54, a Mosca si sperava che l’aumento del prezzo del petrolio di circa 2 dollari al barile potesse allentare un po’ la morsa, ma quando martedì mattina il greggio è tornato attorno ai 67 dollari la valuta russa ha conosciuto un’altra caduta ai minimi del giorno prima, quando aveva conosciuto il tonfo intraday peggiore dal default del 1998.

Ovvie le ragioni, aumento della fuga di capitali, sanzioni che mordono l’economia e ora la decisione dell’Opec di non tagliare la produzione, scelta capace di far schiantare il prezzo dell’oro nero per un Paese che vede un terzo delle sue entrate legate proprio all’export energetico: ora la questione si fa seria, visto che si comincia a parlare di misure di emergenza per il timore che i 680 miliardi di debito estero su cui siedono le principali aziende e banche russe possano innescare default a catena in caso di crollo ulteriore nel cambio.

Come ci mostra il grafico qui sotto, lunedì la Banca centrale russa è intervenuta per stabilizzare il rublo attorno a 52,07 sul dollaro, operazione che per Tim Ash di Standard Bank «deve essere costata miliardi». Un collasso di questo tipo, in effetti, è estremamente raro per una nazione come la Russia e all’orizzonte qualcuno vede profilarsi conseguenze politiche: «La situazione sta diventando disordinata. Non ci sono compratori reali per il rublo e sappiamo da voci vicine al presidente Putin che quest’ultimo vorrebbe imporre controlli sui capitali. Non mi sento di escluderlo, anche perché i problemi di finanziamento stanno peggiorando drammaticamente e il Paese sta flirtando con criticità sistemiche», ha dichiarato Lars Christensen di Danske Bank.

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Al riguardo, alcune banche russe hanno già messo un tetto massimo di 10mila dollari ai prelievi in biglietti verdi ed euro, una sorta di blocco implicito verso i grandi correntisti, ma in molti ancora ricordano le parole pronunciate appena dieci giorni fa dal premier Dmitry Medvedev, a detta del quale «il governo, io stesso e la Banca centrale abbiamo più volte ripetuto che non abbiamo intenzione di imporre speciali restrizioni sui flussi di capitale». Sarà vero, dopo il tonfo degli ultimi due giorni? Tanto più che alla Banca centrale si stanno preparando a uno scenario con il petrolio a 60 dollari al barile, tanto che il vice-governatore, Ksenia Yudaeva, ha chiaramente detto che «un lungo declino del prezzo è altamente probabile».

Anche perché l’economia russa sta pagando un prezzo molto alto, essendo passata in soli nove mesi da ottava potenza mondiale con un fatturato da gigante petrolifero di 2,1 triliardi di dollari a economia di medio livello, paragonabile alla Corea del Sud e ora comincia anche a riposizionarsi geostrategicamente, visto il ritiro del progetto South Stream annunciato da Vladimir Putin in persona durante il suo viaggio in Turchia, incolpando della scelta la non volontà europea di proseguire.

Classica battaglia diplomatica, che però assume toni drammatici quando si pensa che gas e petrolio garantiscono alla Russia due terzi dell’export e metà delle entrate fiscali, tipico caso di “Dutch disease”, ovvero quando un Paese è troppo legato ai su e giù del ciclo delle materie prime.

E non ci sono precedenti tranquillizzanti al riguardo, visto che proprio il crollo del prezzo del petrolio fece collassare l’Unione Sovietica e fine anni Ottanta e spinse il Paese al default sul finire dei Novanta: per Kingsmill Bond di Sberbanks, «il rublo non si stabilizzerà fino a quando non lo farà il petrolio». Per gli analisti della banca, il Paese sta affrontando un montante deficit nel suo conto capitale, visto che non genera più sufficiente surplus commerciale per coprire le fughe di capitali: quindi, o vengono alleggerite almeno le sanzioni occidentali o c’è il rischio che le riserve scendano a un livello tale da richiedere per forza controlli di capitale.

E non facciamoci ingannare dal valore di quelle riserve, attualmente a 420 miliardi di dollari, visto che stiamo parlando di un Paese che oggi è in preda a croniche fughe di capitali e dipende pesantemente dal finanziamento estero: per Lubomir Mitov dell’Institute of International Finance, gli investitori dovrebbero cominciare ad avere seri dubbi sulla capacità di copertura delle riserve se queste dovessero scendere fino a 330 miliardi. E se addirittura il procuratore generale russo ha annunciato un’inchiesta sull’operato della Banca centrale, dopo la denuncia del deputato Evgeny Fedorov che ha definito l’istituzione «uno strumento del Fmi in mano a femministe liberali», le criticità attorno all’istituto centrale crescono rispetto alla volontà di non intervenire in difesa del rublo nelle ultime settimane, lasciandolo fluttuare sul cambio invece di utilizzare riserve per cercare di bloccare la caduta: la cocente lezione del 2008, quando si bruciarono 200 miliardi in sei settimane, salvo innescare una crisi bancaria, pare ancora viva nella memoria.

Lasciando crollare il rublo, poi, la Banca centrale ha difeso in parte il budget russo dalla caduta del prezzo del petrolio, tanto che Deutsche Bank ha reso noto come il bilancio fiscale virerà in negativo con il prezzo del greggio a 70 dollari: quota a cui già siamo, muovendosi in territorio 67,80 dollari. Con un’inflazione attesa al 10% nel primo trimestre del 2015 e prezzi già in impennata, oltre al deprezzamento del rublo l’economia russa deve far fronte anche ad altri rischi. Come anticipato, l’indice dei prezzi al consumo in Russia probabilmente registrerà una crescita a doppia cifra all’inizio del 2015 per la prima volta dopo diversi anni, secondo quanto ha previsto il vice-presidente della Banca centrale russa, Ksenia Yudaeva.

L’Istituto centrale inizialmente aveva stimato che l’inflazione non superasse il 6,5%, ma l’indebolimento del rublo, insieme alla mossa del Cremlino di vietare alcune importazioni di alimenti, hanno stimolato l’indice dei prezzi al consumo. Secondo la Yudaeva, l’inflazione accelererà sopra il 9% quest’anno e l’indice dei prezzi al consumo annuale supererà il +10% nel primo trimestre del prossimo anno, argomento di cui certamente si parlerà al meeting della Banca centrale russa in programma l’11 dicembre e durante il quale l’Istituto potrebbe considerare di alzare i tassi di interesse per la quinta volta quest’anno, attualmente al 9,5%.

Cresce nel frattempo il numero dei russi che, stando ai sondaggi, si interessa all’andamento del rublo. Secondo una ricerca del fondo “Opinione pubblica”, si tratta del 45% dei russi, di cui più della metà dice di essere in apprensione per l’eccessiva fluttuazione della moneta: a luglio, la percentuale di chi dichiarava di interessarsi all’argomento era del 32%. Stando sempre allo stesso sondaggio, il 52% degli intervistati, invece, ha dichiarato di non prestare attenzione al tasso di cambio. Tuttavia, secondo i sociologi, la situazione è ancora lontana dal creare un vero malcontento tra la popolazione: «L’alfabetizzazione finanziaria è molto bassa – ha spiegato Lyudmila Presnyakov, specialista del fondo – le persone non sanno come legare l’andamento del rublo e i prezzi del petrolio: la maggior parte di loro vive da tempo nella zone del rublo, è pagata e spende in rubli e ancora non è stata toccata dalla caduta della moneta». A suo dire, «se un’ulteriore svalutazione portasse a un eccessivo aumento dei prezzi, è possibile che si crei malcontento, ma perché si verifichino proteste servono anche altri fattori come la riduzione dei posti di lavoro».

E questa ipotesi potrebbe non apparire troppo peregrina visto che il crollo del rublo sta ponendo forti pressioni su molte aziende russe, le quali hanno redenzioni sul debito estero per 35 miliardi di dollari, la gran parte denominate proprio in biglietti verdi, soltanto questo mese, tanto che il bond decennale della Lukoil è salito di 250 punti base da giugno, raggiungendo un rendimento del 7,5%. Essendo escluse dai mercati di capitale a causa delle sanzioni, molte aziende sono costrette a chiedere aiuto allo Stato per evitare il default che seguirebbe a un mancato pagamento sul debito, tanto che la sola Rosneft ha già richiesto 49 miliardi di dollari di finanziamento governativo: Sberbank ha reso noto che nel 2015 le aziende russe avranno scadenze sul debito per 75 miliardi di dollari e non possono sperare di poter fare roll-over se non su una parte minima di questo, il tutto a fronte da capitale fresco dalla Cina che non supererà i 10 miliardi di dollari.

C’è però anche chi sta beneficiando della svalutazione del rublo, visto che sta vendendo all’estero ma con costi locali: ad esempio, i gruppi metallurgici Norilsk e Rusal, i produttori di acciaio e aziende nel campo dei fertilizzanti come Uralkali e PhosAgro: «Alcuni di loro stanno facendo montagne di soldi in questo periodo e i loro titoli volano in Borsa», ha reso noto un trader al Telegraph, peccato che però l’indice equity russo stia trattando allo 0,5% del suo book value, quasi un unicum con questo prezzo da saldo del mercato. Inoltre, l’economia russa rischia fortemente di entrare in recessione il prossimo anno, visto che il
ministro dell’Economia in persona ha predetto un Pil in contrazione dello 0,8%, rivedendo pesantemente al ribasso la stima precedente di +1,2%, mentre la Banca centrale si attendeva crescita zero già per quest’anno.

C’è da temere, quindi? Sì, ma non nell’immediato, almeno stando alle parole di Marcus Svedberg, capo economista all’East Capital, a detta del quale «la combinazione di basso prezzo del petrolio e rublo debole ovviamente pone pressione sulla leadership russa, ma le conseguenze potrebbero essere meno drammatiche e dirette di quanto si attende. L’economia del Paese, ancorché ferma e con pochissime prospettive di crescita per il prossimo anno, non è necessariamente così fragile, le riserve sono ampie, il debito limitato e la disoccupazione ai minimi storici, tanto che a oggi tra i cittadini non c’è sentore di stress o panico». Tanto più che stando alle rilevazioni di novembre dell’istituto demoscopico indipendente Levada Center, il tasso di consensi per Vladimr Putin è al’85%, solo 3 punti percentuali in meno di ottobre. Ma con una fuga di capitale stimata per quest’anno in 125 miliardi di dollari, il tempo non pare dalla parte di Mosca, se la crisi petrolifera dei prezzi dovesse prolungarsi o peggio aggravarsi: per Petra Kuraliova, trader a TradeNext, «ci sono parecchie notizie che pongono allarme rispetto all’economia russa e molte di queste previsioni potrebbero avverarsi se Putin non implementerà cambiamenti radicali. La situazione è seria».

Ma al di là delle preoccupazioni legate all’ambito energetico, visto anche il “niet” a South Stream e la scelta della Turchia come partner per la pipeline alternativa e le prospettive di un inverno gelido a partire da fine anno, chi ha davvero interesse a sobillare instabilità politica in Russia? Per Tim Ash, capo del dipartimento mercati emergenti alla Standard Bank, in pochi, visto che «non vedo minacce imminenti al potere assoluto di Putin nel medio termine, neppure da parte dell’Occidente che è molto cauto rispetto all’ipotesi di un cambio di regime, anche soltanto perché dopo Putin potrebbe arrivare qualcuno molto peggio di lui, un presidente risoluto sì ma anche molto cauto per istinto e calcolatore. Penso però che Putin stesso sia a un bivio tra isolamento e ritrovato feeling con l’Occidente, un qualcosa quest’ultimo che sarebbe un bene per tutti. Sfortunatamente devo propendere per la prima ipotesi, una scelta che potrebbe essere negativa per la Russia sul lungo termine». Ma anche per l’Europa, mi permetto di aggiungere io. Anche perché, nonostante lo spread a 126 punti base, livello che di fatto riflette un Paese in forma smagliante, l’Italia non è affatto fuori dai guai come si pensa.

Guardate il grafico a fondo pagina, ci dimostra – come vi ho già detto ieri – che il Paese che sta soffrendo di più per la crisi petrolifera è il Venezuela, il cui cds a 5 anni parla la lingua di una possibilità di default dell’83% entro quell’arco temporale, mentre a un anno siamo al 24%, dieci volte la probabilità della Russia tanto giubilata. Ma in quel grafico, come vedete, ci siamo anche noi, insieme a Spagna, Brasile, Portogallo, Russia e Ucraina. Bene, Mosca sul cds a 5 anni prezza 354, noi 102, la Spagna 98 e il Portogallo 202. Con lo spread a 126, però, non dovremmo affatto essere a quel livello. Attenzione, quindi, perché chi tiene le redini del gioco sa che bisogna guardare i dati macro e soprattutto il sistema bancario, non lo spread tenuto basso dagli acquisti sottobanco di Mario Draghi. Il quale, oggi, si gioca la larga parte della sua credibilità residua nella riunione del board. E anche parte del nostro futuro.

P.S.: E tanto per farvi capire come gira il fumo là fuori, nelle sale trading e nei lindi uffici al trentesimo piano di qualche grattacielo, ecco l’esempio. Goldman Sachs – e chi se no – ha battuto tutti sul tempo e ha indossato i panni del cavaliere bianco, comprando dal Venezuela debito per un controvalore di 4 miliardi di dollari in obbligazioni petrolifere nei confronti della Repubblica domenicana attraverso Petrocaribe per la fornitura di greggio al 41% del suo valore. Insomma, sfruttando la disperazione delle casse di Caracas, aggravata ora dal crollo del prezzo del petrolio, Goldman si è garantita un guadagno del 59%, pari a 2,360 miliardi a fronte del pagamento al Venezuela di soli 1,750 miliardi di dollari: di più, fonti vicine all’accordo hanno confermato che il governo venezuelano e la banca d’affari stanno discutendo per un possibile nuovo accordo anche riguardo il debito petrolifero verso le Giamaica.

Certo, il debito è a 20 anni, ma lo sconto ricevuto è pazzesco, completamente fuori mercato: ma si sa, quando un Paese le cui vendite di petrolio generano il 95% dei dollari che entrano nel sistema, va in crisi deve liquidare gli asset che ha per ottenere flussi di denaro, in fretta e quasi a qualsiasi condizione. E si sa, quando serve Goldman Sachs è un bancomat fantastico e sempre operativo: con interessi un po’ alti, ma questo è il mercato.

Mauro Bottarellli
Fonte: www.ilsussidiario.net
Link: http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2014/12/4/SPY-FINANZA-Il-crollo-del-rublo-che-fa-tremare-la-Russia/4/561300/

4.12.2014

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