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Come catturare un topo (ovvero: la ricerca del Piano B)

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A cura di Moravagine
Il 11 Agosto 2021
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Dopo un lungo periodo di assenza, torna su queste pagine il “Piano B” (qui, qui qui le “puntate” precedenti). Non siamo stati con le mani in mano, ma abbiamo messo su una rete di relazioni che tornerà sicuramente utile per attraversare l’abisso che ci si prospetta davanti. Il tempo del “ma non possono farlo!” e del “vedrai che non arriveranno a quel punto” va esaurendosi e si gioca a carte scoperte. Pur impegnandoci indefessamente nella lotta, va riconosciuto che i rapporti di forza son quel che sono: davanti ad uno scenario simile, una temporanea ritirata non è un atto di viltà, ma di saggezza. Oltre, ci sono solo la resa incondizionata o il martirio.

Scritto da Papaconscio per Comedonchisciotte.org

Non erano ancora le 10 di mattina e l’aria era già così carica di umidità che – come avrebbe potuto dire un famoso scrittore sudamericano – ci avrebbe potuto galleggiare un granchio. La casa della zia Armelida era abbagliata dal sole e tutte le porte e le finestre erano aperte e si sentiva l’odore del mare. Peschici nel 1970 era la mia Macondo, ogni giorno d’estate era un’avventura indimenticabile, ed ero sicuro che lo sarebbe stato anche quel giorno. Ci si preparava per un pic-nic in una spiaggia a pochi chilometri dal centro abitato, dove avremmo piantato le tende e passato la giornata al sole fino al tramonto con zii e zie, cuginetti e cuginette, sorelle, mamma e papà. Gironzolavo per la grande casa della zia, in special modo nel patio sul retro, dove sapevo che avrei trovato il mulo per guardarlo mentre mangiava, sperando che emettesse un sonoro raglio. Era un posto fresco, là dietro, e io sapevo che prima o poi mi avrebbero chiamato per partire, quand’ecco che comincio a sentire un trambusto insolito, delle urla concitate e dei colpi, come se fosse scoppiata una zuffa tra parenti. Arrivato in cucina vedo la zia che si lamenta con un espressione di profondo disgusto e lo zio Peppe e mio padre, entrambi con una scopa in mano, che cercano di scovare e cacciare un topo che si era intrufolato in casa. La zia esclamò: “Mimì! Mimì! Là! Là! Acchiappalo!”, e aggiunse: “Ahhh che schifo, Madonna mia!”. Lo zio Peppe, rischiando di travolgere la nuovissima Telefunken in bianco e nero, riuscì a immobilizzare il roditore e, con l’aiuto del papà, lo avvolse in uno straccio tenendolo fermo. “Buttatelo fuori! Buttatelo fuori!”, implorava la zia, mentre i due uomini, scambiatisi una rapida occhiata, si diressero verso le scale con l’intruso roditore. Sentivo mio padre che diceva: “Peppì, prendi un po’ di benzina!”, mentre uscivano dal portone. Quando arrivai fuori, mio padre aveva cosparso di benzina il topo e lo teneva a terra per la coda, improvvisamente cacciò di tasca un accendino e gli diede fuoco. Restai per molti secondi affascinato a guardare il povero topo in fiamme che squittiva in preda all’agonia tenuto per la coda da mio padre che, senza la minima repulsione, sembrava si godesse lo spettacolo da protagonista. In quel momento, giù in basso nella scarpata di fronte alla casa, vidi passare un grosso gatto selvatico con una enorme coda. Il gatto si voltò per un attimo verso di me, e io fui certo che stesse guardando proprio me. Un attimo dopo scattò nella macchia che digradava verso il mare, sparendo quasi subito. Non ricordo se mi sentissi in colpa per aver assistito con soddisfazione alla morte della povera bestia, ma quel gattone mi aveva dato un senso di giustizia ineluttabile che ora sapevo si sarebbe potuto abbattere allo stesso modo su di me. Ero un organismo separato su un pianeta pieno di vita! Era una sensazione esaltante. Molti anni dopo, nelle mie peregrinazioni yogico-sciamaniche, avrei riconosciuto quella condizione come “savikalpa samadhi” o “La Montagna Che Parla”. Nel lontano 1988 tornavo da Londra, dove avevo passato 6 mesi a lavorare nelle serre di Hyde Park. Ero stato assegnato ad un anziano signore friulano, dal nome slavo, che da oltre vent’anni si occupava di 160 diverse varietà di Fuchsia per Kew Garden e Buckingham Palace, e che mi insegnò i fondamenti del vivaismo floricolo. In quel periodo andavo spesso a trovare Horace, un Rasta originario della Guyana, che oltre a vendermi il fumo mi raccontava le sue avventure come inserviente sulle navi da crociera nel Golfo del Messico. Scaduto il permesso di lavoro, tornai in Italia con la ferma intenzione di imbarcarmi. Pochi mesi dopo facevo il mozzo su una petroliera che faceva rotta nel Mediterraneo e nel Mar Nero, con qualche puntata oltre le Colonne d’Ercole alle Canarie. Pulivo i cessi, lavavo i piatti, tenevo in ordine la lavanderia, aiutavo in cucina, ma soprattutto partecipavo alle manovre insieme agli altri marinai e, ciliegina sulla torta, avevo il compito di portare il caffè ai macchinisti e agli ufficiali sul ponte di comando, dove in alcune occasioni mi facevano tenere il timone, di solito non prima di avermi fatto un gavettone di acqua di mare. In cabina leggevo il Mahanirvana Tantra di Avalon, ma un pomeriggio, il secondo di coperta mi regalò Foundation and Earth, il quinto della serie di Asimov sulla Fondazione Galattica, in inglese. Fu in quel libro che mi imbattei per la prima volta nel concetto di Gaia, inteso come pianeta autocosciente. La lettura di Asimov e della fantascienza in generale non era nuova per me, appassionato della serie Urania dall’adolescenza, e nemmeno l’inglese era un ostacolo, anzi, risultò un piacevole esercizio mentale. Il concetto di un pianeta in grado di mantenere l’omeostasi ed il benessere dei suoi abitanti, vegetali, animali e umani, ben si legava alla spiritualità tantrica e alla mitologia tolteca che già conoscevo. Pian piano prendeva forma in me l’immane edificio di bugie miste a propaganda che costituiva la narrazione prevalente sulla storia, sulla scienza, sul funzionamento del mondo e della realtà: a questo dovevo oppormi, decostruendo pezzo dopo pezzo tutta l’impalcatura dell’avere, sostituendolo con la struttura dell’essere. L’idea di produrre da sé e con mezzi naturali e sostenibili le cose di cui si ha bisogno, dal cibo ai vestiti a un rifugio era in perfetta armonia con l’esuberanza e l’intransigenza di un adolescente ormai già in conflitto col mondo (conflitto tra la visione del mondo imposta dagli adulti e l’effettiva realtà multidimensionale del mondo stesso). Fu così che si sviluppò in me il Piano B: avrei acquistato un’estensione di terreno coltivabile, e dopo averlo affidato a un amico, sarei partito per l’India, alla ricerca di un ashram ayurvedico in cui prestare servizio e imparare il sistema medico indiano noto come Ayurveda, così da poter tornare al mio paese in qualità di Vaidiya e fondare a mia volta un ashram nel mio fondo rustico, dove avrei esercitato la professione di medico ayurvedico a beneficio di tutte le creature, senza alcun compenso che non fosse un’offerta volontaria. Dalla prima formulazione del mio intento alla realizzazione della prima parte del progetto (trovare un terreno e comprarlo) sono passati 11 anni e, quando ci sono arrivato, non ero più così sicuro di fare il medico ayurvedico, dato che una ragazza brindisina mi ha fatto innamorare e oggi sono suo marito e padre di una ragazza quattordicenne serenamente incazzata col mondo. La mia India è qui, sulle sponde dell’Adriatico, nella terra dei Trulli. Non sono diventato un Vaidiya, né un imprenditore del comparto officinale, sono diventato semplicemente un marito, un padre, un figlio impeccabile e devoto che fa anche l’agricoltore; perfezionare la mia impeccabilità assorbe quasi tutta la mia energia. Ho fatto molte rinunce ma ho ancora molti progetti. Mi ritengo fortunato per aver avuto l’opportunità di capire direttamente come la devozione nel fare le cose permetta di raggiungere uno stato di consapevolezza superiore rispetto a quello di veglia della vita di tutti i giorni, e in quello stato è possibile percepire connessioni, relazioni, significati veramente fondamentali. Devozione, per me, significa compiere i propri doveri con cura, senza aspettarsi nulla in cambio. Una diretta conseguenza della rinuncia al frutto delle proprie azioni compiute con la mente, la parola e il corpo, è la scoperta che l’intero destino dell’universo dipende dalle proprie azioni, la scoperta di essere al centro del disegno divino. Ogni gesto diviene sacro, ogni azione cambia la struttura dell’universo. Si innesca un circolo virtuoso, nel corso del quale molti legami che legano cose e persone tra loro diventano molto chiari, ed è possibile intuire eventi catartici o comunque significativi che possono accelerare il processo evolutivo. Non ho ceduto né alla narrazione primordiale né a quella più recente ma ci convivo serenamente, ed è per questo che vivo spesso ai margini di quel mondo che aderisce alla narrazione per trarne qualche vantaggio, ma appena posso mi tuffo e nuoto libero nella mia narrazione, infinitamente più vasta e stimolante, da cui ritorno sempre arricchito. Non nutro rancore nei confronti di chi non ha potuto sviluppare una propria narrazione da contrapporre a quella del Sistema, ma se qualcuno cercherà di impormi con la forza la sua visione del mondo sono disposto a diventare molto cattivo: purtroppo qualcuno si farà male. Il mio Piano B si sta realizzando silenziosamente, un passo alla volta, e un bel giorno potrò dare un calcio anche alla mia identità. Sarò il gatto scattante, non il topo arrostito.

di Papaconscio per Comedonchisciotte.org

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Papaconscio

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