Angelo De Boni: Profondo inconscio

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Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org

Ritroviamo Angelo De Boni in occasione della sua personale “Profondo inconscio” alla galleria Scoglio di Quarto a Milano, un anno e mezzo dopo l’intervista da noi effettuata e pubblicata su ComeDonChisciotte.

Diciamo subito, dal momento che ci lega a lui una forma di amicizia e stima, che faremo esercizio di sincerità, ammettendo che la sua produzione precedente, combaciava meglio con la nostra sensibilità.

Il cambio di rotta infatti, formale e contenutistico, appare qui in tutta la sua evidenza.

Abbiamo lasciato Angelo che dipingeva “irraggiungibili orizzonti” e lo abbiamo ritrovato che si cimenta con un’arte che egli definisce “Essenzialismo integrato”.

Sotto l’aspetto puramente formale, ci sembra un passo verso una fase caratterizzata da un linguaggio criptico, in cui egli ci chiede di seguirlo senza troppo indugiare. Un percorso che si snoda nella direzione opposta di quello da lui precedentemente praticato.

Della proiezione verso l’infinito dei suoi paesaggi interiori a campiture larghe che sfumano l’una nell’altra, non resta traccia. Abbiamo ora al posto di queste tele “romantiche”, dei monocromi pervasi da un rigore di marca concettuale che ci rimbalza a prima del post -moderno.

L’opera si ripulisce di ogni indecisione, casualità o errore che pur è insito nell’atto del dipingere. La quasi assoluta monocromia viene portata a termine con la stratificazione di più mani coloristiche diverse, che vengono poi riportate alla luce con una “operazione chirurgica”.

La superficie resta cangiante e tremolante.

La ferita che si ripete in ogni opera, restituisce alla vista

il primo colore apposto sulla tela, fornendoci la notizia del suo ritrovamento.

Sulla superficie monocroma quindi, ecco che ci ritroviamo una striscia di una tonalità cromatica che per contrasto vibra in tutto il suo splendore e la sua vitalità.

Colore che in realtà, attraverso la volontà di Angelo perde qualsiasi caratteristica descrittiva e ausiliaria, per assurgere a valore conchiuso in sé. Cromatismo che rappresenta al contempo, mezzo per edificare il suo lavoro e opera finita essa stessa.

Lo sguardo che De Boni prima dirigeva lontano, ora si è rivolto dentro di sé, o meglio, dentro di noi.

Quel che era la proiezione del mondo interiore verso l’infinito, si tramuta in uno sguardo che indugia nei meandri delle sue istanze più recondite…e quindi anche delle nostre.

Il titolo comunque è piuttosto esplicativo di ciò che le opere di Angelo vogliono dirci.

“Profondo inconscio”…siamo quindi oltre il percepibile nell’immediatezza e oltre la nostra esperienza sensibile quotidiana.

Per De Boni, scendere nel profondo, equivale a trovare l’essere unico e irripetibile che c’è in ognuno di noi.

Per fare tale esperienza, bisogna volgere lo sguardo nella profondità della nostra persona e dare luogo all’immersione nel mare magnum atavico in cui finiamo per confluire.

Ma è esattamente in questo frangente che iniziamo a dissentire da Angelo su alcune considerazioni. In effetti, se by-passiamo l’io conscio e ci avventuriamo nelle profondità della nostra vita interiore, non possiamo che trovare un inconscio infinito, e cioè quello collettivo, che è esattamente il contrario della unicità del carattere individuale.

Se vogliamo scavalcare il mondo che affiora sulla superficie della nostra coscienza ( e quindi ogni forma di esperienza sensibile condizionante ), per andare oltre, non possiamo che viaggiare in un universo pre- coscienza popolato di archetipi. Questo naturalmente se facciano riferimento alle teorie Junghiane, le quali riteniamo, nei limiti strettissimi della nostra conoscenza della materia, le più aderenti alla nostra formazione intellettuale.

Ma torniamo all’argomento centrale di questo breve scritto e cioè le opere di Angelo.

Il rigore formale che lui persegue, è sotto l’aspetto della coerenza assolutamente encomiabile. Ma il motivo che ci ha indotto a dire all’inizio dell’articolo che la sua produzione precedente era più vicina al nostro sentire, va a questo punto approfondita.

E’ una questione di storia, anzi, di storie, sia private che pubbliche, che hanno contraddistinto l’arte contemporanea.

Trent’anni di concettualismo artistico, in cui, per una sorta di metonimia, l’origine dell’opera e cioè il pensiero, con il passare del tempo si è sostituita al manufatto, non sono passati invano. Naturalmente, teniamo in considerazione il fatto che ciò sia la naturale evoluzione dell’arte dovuta all’onda lunga originata dalle prime avanguardie del novecento. Obiettivamente però, crediamo che dall’arte povera in poi, fino alla transavanguardia, si possa parlare per alcuni gruppi o movimenti, di una fossilizzazione generalizzata di gran parte della loro pratica artistica su tematiche ed estetiche un po’ ripetitive, ostinatamente ripiegate su se stesse. Oltretutto, se il peso specifico del progetto che dà vita all’opera, acquista predominanza sul lavoro realizzato, facendo riferimento anche ad altre discipline come ad esempio la filosofia, finisce per concretizzarsi in un risultato faticosamente metabolizzabile e spesso, anche ininterpretabile. Entriamo in questo caso, in un impasse, dove stabilire il senso del fare artistico diventa estremamente problematico.

L’arte così prodotta, tra le altre cose, stimola nell’osservatore un’allerta sensoriale piuttosto blanda e quindi di conseguenza, anche un trascurabile slancio emotivo, cosa a cui un’opera, secondo noi, dovrebbe sempre dare il via. Abbiamo inoltre, l’urgenza di istituire nuovi confini entro i quali l’arte stessa possa prodursi e riprodursi nuovamente in una forma improntata alla dialettica, che tenga in alta considerazione il referente finale, e cioè il pubblico. Abbiamo bisogno inoltre di opere che tornino a saziare la nostra mai assopita fame di bellezza. I lavori esposti in questa mostra, sono opere assolutamente significative, ma che rispetto a quelle precedenti assecondano meno il nostro desiderio di pathos e meraviglia. Sono un potente veicolo di ragionamento ma un po’ meno di empatia, e per tale motivo potremmo definirle etiche ma non estetiche.

In questione non è solo questa personale di Angelo, che a nostro modo di vedere non si discute come artista, ma una concezione intera dell’arte, alla quale egli ha dato credito nel realizzare questa sua ultima produzione.

Diciamo infine, che la nostra idea dell’arte, dopo aver valutato la storia della stessa degli ultimi decenni, è quella di un’esperienza che si possa tornare a godere di più con gli occhi che con la mente.

In ogni modo, resta un punto fermo per noi, al fine di valutare un artista, il fatto che il percorso del medesimo, sia sempre guidato dall’onestà intellettuale, cosa che nel caso di Angelo è un dato inconfutabile.

Sappiamo che questa per lui è solo una tappa, poiché il suo spirito d’avventura e l’amore per la ricerca che lo contraddistinguono, lo porteranno ad approdare più volte ancora a nuove e importanti esperienze.

Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org

12.03.2024

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