Cara mamma che bello stare in Iraq

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Un’altra bufala: negli Usa i giornali locali pubblicano lettere in cui i
soldati narrano meraviglie della loro esperienza irachena: «I bambini ci
dicono grazie». Solo che le lettere sono tutte uguali. E false.
di Franco Pantarelli«Sono fiero del lavoro che stiamo facendo qui in Iraq e spero che anche voi
lettori lo siate»: la frase fa parte di una lettera firmata dal soldato Adam
Connell, impegnato nella zona di Kirkuk, uscita sul Boston Globe. I suoi
responsabili, credendo di avere nelle mani una testimonianza di prima mano
di chi sta rischiando la vita al fronte, l’hanno pubblicata con molta
evidenza senza curarsi troppo del fatto che le cose che il soldato scrive
appaiono del tutto in linea con ciò che da qualche giorno il presidente
George Bush va ripetendo a ogni occasione.
«Stiamo costruendo una nuova forza di polizia», racconta infatti il giovane
Adam, «abbiamo rimesso in piedi il corpo dei vigili del fuoco di Kirkuk»,
aggiunge con un certo orgoglio e ripete perfino quel «i bambini sono
ritornati a scuola», che è il tema preferito delle esternazioni di Bush.
Uno che legge – trepidando per la sorte dei «nostri ragazzi» laggiù – è
portato a pensare che allora deve essere proprio vero anche tutto il resto
che il presidente va dicendo, e cioè che «non bisogna credere ai giornali» e
che le cose in Iraq «vanno molto meglio di ciò che loro scrivono», e ritrova
allo stesso tempo un po’ di consolazione e un po’ di consenso nei confronti
del condottiero della Casa bianca.
C’è però un problema: quella lettera, si è scoperto, il soldato Adam Connell
non l’ha mai scritta.
E’ stata sua madre Amy, che vive a Sharon nel Massachusetts (l’area di
diffusione del Boston Globe) a consegnarla al giornale, ben sapendo che il
figlio ventenne «con la sua conoscenza della lingua non sarebbe stato capace
di scriverla», come poi ha confessato.
Timoty Deaconson, invece, che non vive nell’area di Boston ma a Buckley, una
cittadina del West Virginia, quella stessa lettera la vede direttamente sul
giornale locale con la firma del figlio Nick – anche lui in Iraq, nella zona
di Kirkuk – e rimane sorpreso di come sia scritta bene. Riesce a mettersi in
contatto con Nick, si congratula per la «bella lettera» da lui scritta e il
ragazzo cade dalle nuvole: «Quale lettera?».
Una rapida indagine e si scopre che sono almeno una dozzina i giornali
locali che hanno pubblicato la stessa lettera con firme diverse, tutte di
giovani soldati le cui famiglie vivono nelle aree di diffusione dei giornali
in questione.
Un’altra indagine un po’ più approfondita e si scopre che laggiù a Kirkuk
c’è stato un sergente che ha mostrato la lettera ai suoi soldati chiedendo
loro, a) di firmarla e b) di dirgli qual è il giornale del posto in cui
vivono. Alcuni, si scopre ancora, hanno accettato di firmarla, ad altri
invece è stata firmata per così dire «d’ufficio».
La situazione che la lettera standard descrive è tale da farti provare
un’invidia furibonda per quei fortunati soldati: «Kirkuk è una calda,
polverosa città di poco più di un milione di abitanti. La maggioranza ha
accolto la nostra presenza a braccia aperte. Dopo circa cinque mesi che
siamo qui, la gente continua a lasciare le case, con il caldo che fa, per
venirci a salutare quando passiamo di pattuglia. I bambini ci sorridono e
corrono verso di noi per stringerci la mano e dirci in un inglese stentato
`Grazie, signore’».
Interpellato in proposito, il portavoce del Pentagono Bryan Whitman dice di
non essere al corrente di «un’azione coordinata» per inondare i giornali
americani di lettere di sostegno della guerra, ma aggiunge che in fondo non
è soprendente che i soldati abbiano preso un’iniziativa del genere, visto
che si sentono «scoraggiati» dal modo negativo in cui i giornali di casa
loro parlano dell’avventura irachena.
Però il Pentagono è sembrato rendersi conto che tutti cominciano a
sospettare che la cosa possa essere partita dall’alto e così a un certo
punto arriva puntuale la «confessione», attraverso una e-mail mandata al
network televisivo Abc, del comandante della zona di Kirkuk, colonnello
Dominic Caraccilo. «Sono stato io», dice. «Ho voluto dare ai ragazzi
l’opportunità di far sapere a casa quanto di buono stiamo facendo qui».
Resta una domanda: se le cose sono così idilliache, se in Iraq si sta così
bene perché i soldati continuano a morire?
Perché aumentano i casi di
suicidi e di rientri anticipati negli Stati Uniti per seri disturbi mentali?

da “Il Manifesto”
15/10/03

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