Verso una Unione sempre più stretta? (II parte)

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La Commissione Europea

La seconda parte dello studio di Perry Anderson, pubblicato recentemente sulla London  Review of Books, prende in esame un altro fondamentale organo della UE, la Commissione Europea, sin dai primi anni partner della Corte di Giustizia nel percorso di affermazione della supremazia del Diritto comunitario sulle legislazioni nazionali; un organo funzionale dei principi del libero mercato promossi dai suoi dirigenti e funzionari, anche se in modo discostante durante le tre principali fasi della sua storia. Dopo Maastricht, la Commissione perde un margine del suo potere in favore del Consiglio Europeo, mantenendo tuttavia una notevole forza gravitazionale, sia per le grandi dimensioni del suo apparato burocratico, che per il formidabile monumento legislativo chiamato Acquis comunitario –  un insieme di principi, obiettivi e politiche comuni che vincolano gli Stati membri, spesso attraverso l’erogazione di premi o di punizioni in base ai flessibili fondi di coesione.

 

La Commissione europea, che denota un’evoluzione un po’ più tortuosa, è stata nei suoi primi anni il partner fondamentale della Corte Europea. La sua storia può essere divisa in tre fasi, corrispondenti alle tre figure principali, ciascuna delle quali ha tenuto la sua presidenza per un intero decennio, ossia per due mandati consecutivi: Walter Hallstein (1958-67), Jacques Delors (1985-95) e José Manuel Barroso (2004- 14). Hallstein, un avvocato e diplomatico tedesco – un democristiano noto soprattutto per la dottrina della Guerra Fredda, a cui diede il nome, secondo la quale il riconoscimento della Germania occidentale da parte di uno Stato doveva implicare il non riconoscimento della Germania dell’est – era un federalista dichiarato, che concepiva la Commissione come un proto-governo della Comunità, mentre riteneva la sovranità nazionale una “dottrina del passato”, assegnandosi lo status di “primo ministro d’Europa”. Nel 1965 De Gaulle mise bruscamente fine alle sue pretese e l’immagine di Bruxelles perse ogni autorità e vigore. Tuttavia, nel suo periodo di massimo splendore, tra il 1958 e il 1964, Hallstein presiedette una Commissione che era un vero e proprio vulcano di energia indirizzata a trovare modi e mezzi per aggirare il Trattato di Roma nell’interesse superiore dell’unità europea.

Come ha dimostrato lo studioso francese Antoine Vauchez, Bruxelles divenne rapidamente una calamita per avvocati aziendali e investitori americani alla ricerca di opportunità di mercato, i quali agivano e operavano nella prospettiva di una futura potente federazione. Ben presto essi strinsero rapporti stretti con un numero considerevole di giuristi belgi esperti in Diritto commerciale di alto livello, e questo ambiente comune offrì una facile intermediazione tra le multinazionali dell’oltreoceano e la Commissione, un ambiente propizio per lo scambio di idee con i dipartimenti chiave, come quelli della concorrenza e del servizio giuridico. La Comunità Economica Europea, creata dal Trattato di Roma, non era stata concepita come un mercato da far west, e aveva dato vita a una politica agricola comune fortemente sovvenzionata e regolamentata, un anatema per gli economisti liberali, tanto da spingere l’intellettuale collega di Hayek, Wilhelm Röpke, a denunciarla come un miserabile “Spaakistan”, prendendo di mira il fondatore belga della politica agricola. Tuttavia, fin dall’inizio la Direzione generale per la concorrenza della Commissione era una fortezza popolata da ordo-liberali tedeschi, la cui devozione ai principi di mercato e determinazione dei prezzi, che non dovevano essere ostacolati da ingerenze improprie da parte di alcuno Stato, li rendeva naturali fautori del federalismo, come lo era stato Hayek prima della guerra. In questo campo il servizio giuridico della Commissione ha spianato la strada, fornendo alla Corte di Giustizia la stragrande maggioranza dei casi su cui le sue sentenze avrebbero potuto edificare una sempre più ampia costruzione del Diritto europeo al di sopra dei parlamenti nazionali. Tra il 1954 e il 1978 i dieci più frequenti ricorrenti dinanzi alla Corte hanno proposto un totale di 1381 casi: di questi, 1082 provenivano dalla Commissione o da suoi collaboratori – poco meno dell’80%. Il circuito della collusione era intessuto in modo indistricabile. Nel 1964, Hallstein poté annunciare trionfante che l’Europa aveva raggiunto “l’inizio di una vera e piena’unione politica”.

Un anno dopo egli venne neutralizzato e la Commissione ha impiegato altri vent’anni per ritrovare il suo dinamismo. Solo che il suo ritorno accadde sotto altri colori. Delors, dal passato giovanile nella confederazione sindacale cattolica francese, a tempo debito si unì al Partito socialista, e lì sostenne una “Europa sociale”. Ma se c’era un conflitto tra l’aggettivo e il nome, il nome veniva prima. Come ministro delle finanze sotto Mitterrand, Delors si assicurò che il programma socialista, su cui Mitterrand era stato eletto e a cui aveva inizialmente dato attuazione, fosse abbandonato con la famosa inversione a U del 1983 verso l’austerità, al fine di mantenere il franco nel Sistema monetario europeo (SME). A capo della Commissione, Delors si prodigava in dichiarazioni sulla necessità di solidarietà sociale, quindi verso la fine del suo mandato assicurò i fondi di coesione per aiutare le regioni più svantagiate della Comunità. I suoi principali risultati, tuttavia, furono l’approvazione dell’Atto unico europeo – elaborato durante il suo incarico da un emissario di M. Thatcher – che unificava e deregolamentava i mercati in tutta la Comunità e preparava l’Unione monetaria che sarebbe divenuta il fulcro del Trattato di Maastricht. Nella sua mente, un mercato deregolamentato era la necessaria premessa per una solidarietà sociale a livello europeo. Non solo era economicamente efficiente di per sé, ma capace di promuovere una crescita che alla fine sarebbe stata di vantaggio per tutti; senza di esso, i governi non si sarebbero persuasi della necessità di redistribuire la ricchezza tra classi e regioni, aspetto essenziale per un’Europa che voleva ottenere la piena adesione dei suoi cittadini. Figura molto più carismatica e autorevole di Hallstein, uomo politico che trattava alla pari con tutti i leader nazionali dell’epoca, Delors li condusse alla moneta unica, ma non riuscì a raggiungere quegli obiettivi sociali che con essa pensava di poter conquistare. Tutti i governi, tranne Gran Bretagna e Danimarca, aderirono al primo Atto unico. Pochi erano convinti del secondo. Delors fece inserire nel Trattato di Maastricht i fondi di coesione – aiuti per le regioni svantaggiate, non per classi – ma queste erano solo le briciole della solidarietà, non il piatto forte, e rispetto all’impatto successivo della moneta unica, erano poco più che l’elemosina di un ente di beneficenza.

Barroso, insediatosi quattro anni prima della crisi finanziaria globale del 2008 ed uscito alla fine del 2014, poco prima che Syriza andasse al governo, è stato il secondo primo ministro in carica di uno Stato membro a diventare presidente della Commissione. Un politico della destra portoghese, noto in precedenza soprattutto per aver ospitato il vertice delle Azzorre, cui parteciparono Bush, Blair e Aznar, durante il quale fu lanciata la guerra in Iraq. La sua nomina a Bruxelles l’anno successivo dimostrò quanto fosse vuota l’opposizione nominale di Francia e Germania all’Operazione Iraqi Freedom. Messaggero dell’austerità nel suo stesso paese, il suo mandato ha segnato l’apogeo della spinta neoliberista che seguì l’introduzione della moneta unica, con la promulgazione della direttiva Bolkestein sui servizi del 2004 e la firma del trattato di Lisbona nel 2010. Benché personalmente fosse ambizioso e tenesse al suo ruolo, come Hallstein o Delors, le idee che egli rappresentava erano la saggezza convenzionale del nuovo secolo, dato che sin da Maastricht il potere del Consiglio Europeo era cresciuto in modo significativo a spese della Commissione, e durante il secondo mandato di Barroso il Consiglio Europeo ebbe come suo presidente Van Rompuy, il suo rivale alla luce della ribalta, con cui i suoi rapporti non furono mai buoni. Il suo mandato è stato meno significativo di quello dei suoi predecessori.

Oggi i 27 commissari- uno per Stato membro, con un portafoglio per ciascuno, ovviamnete di importanza molto diversa, dove la direzione della Concorrenza da tempo rappresenta il primo premio – godono formalmente dello stesso status del presidente, attualmente Ursula von der Leyen (membro della CDU). In realtà, come ha sottolineato nel 2012 l’ex direttore generale del Servizio giuridico, il tuttofare di Bruxelles Jean-Claude Piris (22 anni in sella), poiché ciò significherebbe che i 14 commissari dei paesi più piccoli dell’Unione, che rappresentano solo il 12,65% della popolazione complessiva, potrebbero facilmente battere coi voti i 6 commissari dei paesi più grandi, che rappresentano il 70% della sua popolazione, le decisioni sono sempre prese per  “consenso”, ovvero dietro una facciata di unanimità, sotto l’impulso o il veto dei sei Stati principali. Allo stesso modo, il presidente della Commissione, responsabile dei rapporti con i capi di governo degli Stati membri, normalmente interagisce soltanto con quelli di quel gruppo selezionato, o forse solo con i vertici di Berlino e di Parigi: fare altrimenti ‘richiederebbe troppo tempo’. Così composta, la Commissione è formalmente investita del monopolio dell’iniziativa legislativa dell’Unione, ma la realtà è diversa: più di due terzi delle sue proposte vengono elaborate, insieme ai rappresentanti degli Stati membri, nel fitto sottobosco di Bruxelles – in cui il COREPER (Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati nell’UE) occupa un posto d’onore – e poi vengono trasmesse e automaticamente approvate dal competente Consiglio dei ministri.

Sotto i commissari, nominati per cinque anni, si trova la burocrazia permanente dell’UE, composta da circa 33.000 persone: gli “eurocrati”, come definiti dall’Economist nel 1961, espressione poi divulgata senza intenti peggiorativi da un libro di Altiero Spinelli nel 1966. Nelle sue alte sfere, dove si trovano i capi e gli assistenti delle 32 direzioni generali della Commissione, fino alla metà degli anni ’80 le assunzioni sono state fortemente orientate verso funzionari con un background giuridico; sotto di loro, nel corpo dell’amministrazione, era incoraggiato un orientamento umanistico generale, con un Master in studi europei, preferibilmente del Collegio d’Europa a Bruges. Successivamente, e con il successivo allargamento dell’Unione a est, il modello è cambiato. Sotto Romano Prodi (presidenza 1999-2004), il compito di modernizzare il sistema di retribuzione e reclutamento è stato affidato a Neil Kinnock, portando a Bruxelles la lieta novella del New Labour, con esiti prevedibili. Nel 2014, i due terzi dei direttori generali erano formati in economia, con stipendi proporzionalmente più alti per competere con il settore privato; più in basso, in nome della democratizzazione delle future assunzioni, la conoscenza delle lingue straniere o di qualsiasi cultura generale come requisito si è persa, lasciando il posto ai Master in Business Administration.

Per gli osservatori del percorso dell’UE a partire da Maastricht, tali cambiamenti potrebbero essere abbastanza logici – i neoliberisti venivano neoliberalizzati – ma non furono apprezzati da molti di coloro che li subirono; la loro origine anglosassone gettava sale sulle ferite post-Brexit. “Dopo aver spezzato l’Europa dall’interno per anni, la stanno spezzando dall’esterno distruggendone la legittimità politica”, dice uno di loro, citando Didier Georgakakis. Un altro, con meno rabbia: ‘È folle se ci pensi. Se ne escono dopo averci imposto il loro modello amministrativo?” Ancora un altro: “Il nuovo modello è quello di Procter & Gamble“. L’ascesa di Barroso, dalla presidenza della Commissione a presidente della divisione internazionale di Goldman Sachs, è stata una naturale conseguenza di queste riforme. Ma il cambiamento delle prospettive e dei costumi nella Commissione deve essere compresa anche nel suo contesto. Ci sono ora circa 30.000 lobbisti registrati a Bruxelles. Più del doppio del numero di lobbisti che infesta Washington, stimato a soli 12.000. A Bruxelles, il 63% sono lobbisti aziendali e consulenti, il 26% provengono da ONG, il 7% da think tank e il 5% da municipalità. Che l’esecutivo europeo possa resistere al contagio dei vapori di questa palude non è plausibile.

Dopo Delors la Commissione ha dovuto fare il secondo violino rispetto al Consiglio Europeo, per cui difficilmente nominerà di nuovo alla sua guida una figura di tale statura politica. Il sospetto popolare nei tempi di oggi, che considera la Commissione il demiurgo burocratico dell’Unione, in questo senso è fuori luogo. Ma rimane un potere considerevole all’interno del complesso meccanismo dell’UE, in ragione di tre attributi ad esso peculiari. Il primo è semplicemente la sua dimensione, come corpo di funzionari permanenti, molto grande in confronto a qualsiasi altra istituzione dell’Unione: la roccaforte inespugnabile del suo funzionamento, con 34 diverse “procedure” che nessun laico è in grado di comprendere. Il secondo sta nella incredibile vastità del regolamento, brandito come uno strumento di potere all’interno dell’Unione – l’Acquis comunitario, impenetrabile per i suoi cittadini, ma inevitabile per i suoi Stati, che costituisce il mezzo principale della Gleichschaltung dell’Europa orientale alle norme dell’UE, su cui presiedevano i commissari come proconsoli di Bruxelles. Originariamente messo insieme come una codificazione dei regolamenti CEE, a cui il Regno Unito, la Danimarca e l’Irlanda avrebbero dovuto adeguarsi all’ingresso nella Comunità nel 1973, quando era già arrivato a 2800 pagine, oggi l’Acquis arriva a 90.000 pagine – il più lungo e il più formidabile monumento di natura burocratica mai scritto nella storia umana e in continua espansione (il famigerato Codice fiscale degli Stati Uniti è un ‘modesto’ documento di 6500 pagine). La tesi di Foucault dell’identificazione eccessiva della conoscenza con il potere qui trova la sua realizzazione letterale.

“Questa attrezzatura tecnica e cognitiva”, scrive Vauchez, citando Joseph Weiler, non è solo lo strumento che ufficialmente definisce e caratterizza quell ‘”Europa” a cui i candidati chiedono di aderire nelle fasi di allargamento; essa si inserisce anche nelle operazioni più ordinarie dell’UE, trasformandosi nel “sistema operativo costituzionale dell’Europa … assiomatico, fuori discussione, aldilà di ogni dibattito, come le regole del discorso democratico, o anche le stesse regole della razionalità, che sembrano condizionare il dibattito ma non farne parte”.

Né, ovviamente, è istituzionalmente neutro.

Poiché formalizza una figura stabile dell’Europa (le sue fondamenta, le sue missioni) e dei suoi oggetti di valore (il suo corpo legislativo), l’Acquis individua implicitamente la capacità e la responsabilità di una “guida razionale” degli affari europei in particolari istituzioni (qui: la Commissione e la Corte) e gruppi professionali (legali e funzionari dell’UE), espropriandone altri (qui: Stati membri, Corti costituzionali, diplomatici nazionali, burocrati, ecc.).

Allo stesso tempo, insieme all’Acquis come strumento disciplinare, la Commissione possiede uno strumento di potere capace di ammorbidire le posizioni, attraverso la ripartizione e l’erogazione dei suoi fondi di coesione – l’annona della strategia romana di van Middelaar per assicurarsi i clienti. Questi costituiscono una fonte significativa di clientela, un mezzo per indurre all’obbedienza o premiare la lealtà, la cui promessa potrebbe essere fondamentale per conquistare le élite locali alla volontà dell’Unione, dato che le condizioni possono anche essere mitigate, laddove la politica richiedesse di trascurare la corruzione nell’interesse dell’inclusione ideologica, come in Romania, Bulgaria e altri paesi candidati all’adesione. Poco notato all’epoca, l’allargamento geografico dell’Unione ad est ha prodotto anche il più grande allargamento operativo della Commissione dai tempi di Hallstein, che si è fatto carico del compito. Che alcuni dei suoi frutti siano diventati da allora delle spine nel fianco – poiché gli Stati più avanzati dell’Europa orientale, una volta che le loro élite si sono sentite al sicuro all’interno dell’Unione, sono diventati meno sottomessi – è un’altra delle conseguenze non volute, contrarie alle sue finalità, che non sono mancate nella storia dell’integrazione.

fonte originale: http://Perry Anderson-Ever Closer Union?- LRB 1-7 January 2021

07 gennaio 2021

scelto e tradotto da Zory Petzova

 

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