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La Redazione

 

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Uno impara a parlare per farsi capire: dinamiche dell’oppressione linguistica

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A cura di Redazione CDC
Il 13 Febbraio 2024
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Uno impara a parlare per farsi capire: dinamiche dell'oppressione linguistica

Symonds William Robert: La Principessa e il ranocchio

Di Luca V. per ComeDonChisciotte.org

Per capire che una risposta è sbagliata non occorre un’intelligenza eccezionale, ma per capire che è sbagliata una domanda ci vuole una mente creativa.

Così si apre l’Arte del dubbio, un coinvolgente manualetto di Gianrico Carofiglio sulle tecniche di controesame del teste nel procedimento penale.

Nella cross-examination, sia l’accusa che la difesa possono porre a turno delle domande a cui il testimone deve rispondere, e in questo modo possono servirsi della sua conoscenza per tentare di costruire la propria linea argomentativa. Così nel processo penale, il materiale probatorio su cui si basa la sentenza non coincide mai direttamente con il puro racconto del testimone: egli non è chiamato in aula a fare delle dichiarazioni, bensì a rispondere a delle domande. Il risultato della deposizione, su cui si fonda la cosiddetta verità processuale, è il risultato della commistione tra la conoscenza del testimone e le domande che l’hanno indirizzata, filtrata, scomposta e ricomposta in un racconto a più voci.

L’arte del dubbio a cui Carofiglio ci ammaestra è il sottile gioco retorico, fatto di sfumature e di implicazioni nascoste, di trappole dialettiche e involontarie compromissioni, a cui avvocati e pubblici ministeri si sfidano ogni giorno nelle aule dei tribunali. Si tratta di un gioco altamente strategico, in cui le nude questioni di fatto escono gradatamente di scena e lasciano il posto, senza avvertire, a subdole e meschine questioni linguistiche.

Nella storia del diritto occidentale, l’esame incrociato è ritenuto una conquista dell’imputato a fronte dell’alternativo metodo inquisitorio, in cui le domande erano fatte direttamente dal potere giudiziario. Chi decide le domande, generalmente possiede il controllo sul tenore delle risposte, ne stabilisce impercettibilmente i limiti linguistici. Scartarsi mentalmente da una domanda ben posta richiede non soltanto una grande concentrazione e padronanza di sé, ma anche l’approfondita conoscenza del linguaggio utilizzato, in modo da poterlo padroneggiare a propria volta. Chi controlla il linguaggio, tiene facilmente in scacco tutti coloro che lo utilizzano.

Le nazioni più vecchie avranno il privilegio di aiutare quelle più giovani a incamminarsi sulla via dell’industrializzazione. … Man mano che le loro masse impareranno a leggere e a scrivere, man mano che diventeranno meccanismi produttivi, il loro livello di vita salirà di due o tre volte.”

È sempre importante tenere a mente lo stretto collegamento esistente tra cultura e linguaggio, e al tempo stesso bisogna considerare sempre con una certa scrupolosa diffidenza il rapporto intercorrente tra linguaggio e realtà. In questa citazione del 1943, il vicepresidente americano Henry A. Wallace descrive la globalizzazione come una colonizzazione innanzitutto culturale. Ciò che deve essere esportato è sì l’industrializzazione, affinché le masse divengano meccanismi produttivi, ma perché ciò sia possibile è innanzitutto necessario che esse imparino a leggere e a scrivere.

È interessante notare in che modo il discorso del politico interpreti la realtà e la traduca per il pubblico secondo l’interesse di chi lo pronuncia: le nazioni più vecchie non sono le civiltà millenarie recentemente soggiogate e spartite, bensì le potenze occidentali colonizzatrici, macchine puramente speculative spogliate di ogni riferimento alla tradizione del passato. Il selvaggio deve essere alfabetizzato, e in questo modo il suo livello di vita salirà di due o tre volte.

L’alfabetizzazione è un requisito essenziale per inserirsi nella società industriale: e l’inserimento sarà totale e irreversibile, soprattutto se nel linguaggio insegnato il concetto di livello di vita sottintende gli standard della società dei consumi. Imparando un nuovo linguaggio, è come se queste persone si fossero abbeverate al Lete.

Nell’Illusione dell’alfabetismo, Coomaraswamy ci racconta degli antichi contadini di Ceylon che “parlavano con eleganza ed erano pieni di belle maniere”, delle ricchezze perdute degli “incompresi e cosiddetti analfabeti montanari della Scozia”, della prodigiosa memoria degli indiani, le cui “pagine di carne del cuore sono spesso più degne di fiducia che quelle di corteccia di betulla”, e mette in dubbio che la cultura dell’occidentale scolarizzato e lettore sia superiore a quella di questi popoli. Eppure, Simone Weil segnala che nella storia dell’uomo tutto ciò che è bello e delicato è destinato a essere distrutto da ciò che è più rozzo e più forte, in un processo di progressiva degradazione e oblio. È sempre del 1943 il discorso di Winston Churchill ad Harvard: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente.”

Certamente, la colonizzazione culturale delle nostre terre è innanzitutto una colonizzazione linguistica. Il potere anglofono impone un sistema diglossico, nel quale la lingua istituzionale tende a essere l’inglese, che si insinua nelle scuole e nelle università come lingua di insegnamento, non più solo come lingua insegnata, entra nei testi di legge, si impone come lingua ufficiale della ricerca accademica. Ma non solo: parallelamente allo spodestamento istituzionale, la lingua locale è corrosa dalla crescente dilalia, ossia dal naturale passaggio del parlato dalla lingua inferiore a quella superiore. Il colonizzato si sente al passo coi tempi quando utilizza una parola inglese, quando addirittura adatta la propria lingua alle più semplici strutture sintattiche inglesi, con effetti suggestivi ed emulativi: ma la struttura sintattica è struttura mentale, la parola è concetto. Il processo di trasformazione è in atto. Molte delle parole inglesi che quotidianamente vengono utilizzate non hanno più un corrispettivo locale.

Nelle Alte Valli del Torre che scorrono tra i boschi friulani, questo processo è familiare: prima che la disincantata e concreta praticità dell’inglese insegnato nelle scuole cominciasse a degradare le musicali raffinatezze dell’italiano, e prima ancora che le musicali raffinatezze dell’italiano cominciassero a svelare e quindi dissolvere uno per uno tutti i segreti non detti conservati intatti per secoli come tesori nelle ruvide e terrose parole friulane, il friulano era in molte case la lingua istituzionale, quella per parlare con gli esterni, ed era l’oggi ormai quasi estinto po nasen la vera lingua del cuore. Di esso rimane qualche sparuto e caparbio parlante nei villaggi semideserti tra le ombre dei monti e un vocabolario disponibile on-line. Nelle vicende di questa matrioska linguistica, che riflette del resto il carattere dei suoi protagonisti, ogni movimento verso l’esterno ha previsto la perdita di qualcosa di interno. Perdere un linguaggio significa perdere un modo di essere umani.

Un giorno, andando per boschi in queste zone, ho trovato appesa a un albero una tipica ceramica fiorita che recava scritto: “Fevelait furlan, che al è onôr e no vergogne.” Se si è sentito il bisogno di scrivere che parlare la vera lingua del luogo è un onore, e non una vergogna, ciò è molto significativo: nelle scuole, il potere colonizzatore insegna sempre ai figli a vergognarsi dei propri genitori.

In ogni caso, l’oppressione esercitata attraverso il linguaggio non riguarda soltanto l’imposizione della lingua: essa viene esercitata anzi soprattutto all’interno di uno stesso contesto linguistico. La lingua infatti è ancora qualcosa di comunitario, mentre l’oppressione, solitamente studiata come oppressione ai danni di un gruppo, è però nella sua vera essenza qualcosa di individuale e isolante. Infatti chi opprime è il più forte, e chi è oppresso è il più debole, ma il più debole e indifeso di tutti è il singolo essere umano di fronte a tutti gli altri.

La lingua tramite cui si esprime il potere è sempre una lingua tecnica ed esoterica, nel senso che è conosciuta da pochi privilegiati. Se non la si conosce, se non si è esperti, come oggi si dice, non soltanto non è possibile esporre le proprie ragioni agli altri, ma nemmeno a se stessi: “come in tribunale un vagabondo accusato di aver preso una carota in un campo sta in piedi al cospetto del giudice che, comodamente seduto, sciorina con eleganza domande, commenti e battute, mentre l’altro non riesce neppure a balbettare”, scrive Simone Weil. Uno impara a parlare per farsi capire. Il linguaggio andrebbe appreso cioè non per conoscere la verità, ma per riuscire a esprimerla: come fece Menocchio, il mugnaio friulano di Montereale che aveva letto dieci libri e andò davanti alla cattedra dell’Inquisizione a dire che Dio era padrone di qualcosa che non aveva prodotto con le proprie mani, perché il Mondo era stato creato da angeli nati dalla terra come vermi dal formaggio.

Sarebbe facile fermarsi qui, ma il quadro ne risulterebbe gravemente distorto: rischierebbe di restare una fiaba. Una lingua infatti non è usata soltanto dal potere statale, ma da tutti, e a ogni livello. Ogni discussione animata ricalca almeno in parte l’arringa degli avvocati, e vince sempre chi sa parlare.

Ogni discorso ha un certo potere persuasivo su chi ascolta, il quale non dipende dalla verità insita nelle parole utilizzate ma dalla loro incontrovertibilità. Chi non ha parole altrettanto belle da utilizzare può facilmente, molto facilmente convincersi che la verità stia altrove da lui. Per sopravvivere, ciascuno viene chiamato ad affiliarsi a vari raggruppamenti ad ampiezza concentrica, ad adottare la loro lingua per non soccombere, ma nessuno utilizza la propria. In realtà l’essere umano, che teme la solitudine, è sottoposto dal giorno in cui viene in questo mondo a una pressione così violenta e spaventosa da convincersi a unirsi ed esercitare egli stesso quella violenza su se stesso. Questa è in tutta franchezza l’essenza terrificante dell’oppressione umana, l’ingiustizia massima, costantemente perpetrata dall’intera umanità su ciascun singolo: un’alienazione disperata da se stessi, a cui nessuno potrà mai venire in aiuto. Nessun esterno.

È vero che, come dice ancora Simone Weil, il Cristo è morto ammazzato come un criminale comune, perché quando parla la pura verità, essa è assolutamente irriconoscibile. Così come è vero che quando i prigionieri fuggiti dalla caverna rientrarono per portare agli altri la notizia, vennero considerati gente folle e molto pericolosa. In un mondo fatto di bugie, la lingua della verità è incomprensibile. Simone Weil ha anche riconosciuto che la verità, cioè la giustizia, è “un’eterna fuggiasca dal campo dei vincitori”, perché decide di posarsi immancabilmente sull’oppresso, sul più indifeso, sul criminale comune, e parla sempre per mezzo della sua voce muta. Quello che però la filosofa non ha avuto il tempo di scrivere da nessuna parte nella sua breve vita, prima di lasciarsi morire di stenti autoindotti, è dove si trovi l’oppresso.

Jung avverte che l’incontro con se stessi è un’esperienza estremamente sgradevole. Ci si vergogna di quello che si trova, e per questo di solito ci si nasconde a se stessi, ma la vergogna è sempre insegnata dal potere, e parla sempre la sua lingua. Ora, l’unico vero atto di giustizia, l’unico vero atto di ribellione, il più difficile e coraggioso di tutti, consiste nello schierarsi contro tutti proprio a difesa di questa creatura penosa, rivendicarne la dignità, e restituirle la voce. La giustizia di questo comportamento risiede nel fatto che colui al quale si rivolge l’orecchio è il più ingiusto, il più spiacevole, il più solo. Il notevole coraggio richiesto risiede nel fatto che si tratta di una ribellione radicale, totalmente illogica, che contraddice tutti i linguaggi esistenti e non può essere imparata su nessun libro. Nessuno scritto può essere davvero indicativo in proposito. Bisogna fare ciò che nessun altro farebbe mai, contro l’avviso di chiunque. È facile difendere ciò che può essere difeso: bisogna invece difendere l’indifendibile, ciò che non è amato da nessuno.

La mente che riesce a concepire questo progetto inaudito è l’unica a essere, come la chiama Carofiglio, propriamente una mente creativa. Se Hannah Arendt, nelle conclusioni di un libro come le Origini del totalitarismo, ha ritenuto di dover invocare la virtù germinativa della solitudine, il vero motivo deve essere questo.

Nel Labirinto del Fauno, durante la dittatura franchista, Ofelia si cala in profondità all’interno dell’albero malato perché un grosso rospo velenoso ha fatto il nido sotto alle sue radici. Infatti è proprio all’interno del ventre del rospo che è custodita la chiave preziosa, quella che serve per aprire la porta.

In Cent’anni di solitudine, Remedios la Bella, bellissima e immune a ogni forma di convenzione, viene assunta al cielo anima e corpo e si porta dietro anche le lenzuola di Fernanda.

Non è possibile pensare di poter agire bene in questo mondo, né sperare di poter essere felici, se non si comincia dal principio.

Di Luca V. per ComeDonChisciotte.org

08.02.2024

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