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La Redazione

 

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Razzismo ordinario: il presente e il futuro della discriminazione politica e digitale

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A cura di CptHook
Il 30 Gennaio 2024
7423 Views

 

Ivan Angulo , Evgeny Tipailov – The Valdai Discussion Club – 19 gennaio 2024

 

La creazione di club tecnologici statali e aziendali chiusi, lo sviluppo e l’attuazione di nuove misure per limitare l’accesso alle tecnologie digitali, nonché la limitazione di comunità culturali e di civiltà e di Stati concorrenti nello sviluppo delle proprie tecnologie digitali sono di fatto già diventati una realtà dell’interazione internazionale.

Il compito di impadronirsi di terre altrui e di ridurre in schiavitù i popoli che vi abitano, che durante la cosiddetta “Età delle grandi scoperte” è stato condotto dalla civiltà occidentale (allora ancora esclusivamente europea), richiedeva una giustificazione legale, etica e morale.

Uno dei primi tentativi di comprendere il diritto degli europei di conquistare e ridurre in schiavitù gli indigeni fu compiuto da Juan Ginés Sepúlveda, lo storiografo di Carlo V e Filippo II. Sepúlveda dipinse gli indigeni come selvaggi e barbari per privarli, citando Aristotele, di tutti i diritti fondamentali. Fin dall’inizio della conquista del Nuovo Mondo, si sostenne che gli indiani facevano sacrifici umani e, di conseguenza, erano idolatri, cannibali e criminali. Un riferimento molto comune era ad Aristotele e alla sua “Politica”, secondo cui i popoli barbari sono “schiavi per natura”. Questa interpretazione dell’argomentazione non umana di Aristotele si basa, tuttavia, su una certa idea di umanità, ossia sull’idea dell’umanità superiore di alcuni e, di conseguenza, dell’umanità inferiore di altri.

Tuttavia, i teologi cristiani svilupparono un altro approccio. Sant’Agostino disse che gli aborigeni sono persone e quindi hanno un’anima immortale. L’affermazione finale di questo principio è associata a Francisco de Vitoria, che nelle sue “Lezioni” respinge la suddetta argomentazione del filosofo greco classico come pagana e conclude che “i popoli, quand’anche barbari, sono tuttavia umani“. De Vitoria, quindi, equipara i non cristiani ai cristiani in termini di diritto internazionale, ma… per qualche motivo, il pensiero occidentale richiede sempre questo “ma”. Contrariamente alla logica apparente, de Vitoria non dichiara ingiusta la grande conquista spagnola. Al contrario, utilizza l’argomento della “guerra giusta” per ottenere esattamente il risultato opposto.

Secondo de Vitoria, se i barbari violano le leggi dell’ospitalità, si oppongono alle libere missioni, al libero commercio e alla libera propaganda, allora violano il corrispondente diritto di jus gentium degli spagnoli. Poi, se le esortazioni pacifiche non portano alcun beneficio, questo è un motivo per una “guerra giusta”, che a sua volta serve a giustificare l’annessione, l’occupazione e la sottomissione dei popoli americani. Per non parlare del diritto degli spagnoli di intervenire per proteggere gli indiani già convertiti al cristianesimo.

Nonostante i noti progressi nella comprensione dell’umanesimo, tali dilemmi morali non hanno abbandonato il mondo occidentale moderno. Allo stesso tempo, in seguito ai processi di immigrazione derivanti dalla decolonizzazione, la questione dell’uguaglianza dei rappresentanti di diversi popoli non è più solo un problema di giustificazione di nuove conquiste e di mantenimento della dipendenza, poiché nell’attuale momento storico questi problemi sono risolti da altri strumenti, principalmente economici.

Ora, tra l’altro, si tratta di una questione pratica relativa alla possibilità di coesistenza di rappresentanti di nazioni diverse nell’ambito di uno Stato o di un’entità sovranazionale. Ci sono stati tentativi di risolvere questo problema attraverso l’attuazione del multiculturalismo come politica; purtuttavia, come dimostra in modo convincente l’articolo di Kenan Malik “The Failure of Multiculturalism” pubblicato su Foreign Affairs e come vediamo nel libro di Thilo Sarrazin “Germany: Self-Destruction“, non ha avuto successo.

In un certo senso, questi risultati non fanno che confermare la correttezza della valutazione di James Blaut, che nel suo articolo “The Theory of Cultural Racism” ha affermato che il razzismo culturale ha sostituito il concetto biologico di “razza bianca” ed è una teoria della superiorità culturale piuttosto che razziale.

Nel suo lavoro, Blaut ha tracciato l’evoluzione delle idee di razzismo, notando, tra l’altro, il razzismo religioso. Allo stesso tempo, da parte nostra, notiamo che, come in precedenza, c’è una certa “umanizzazione” nello sviluppo di questo fenomeno. È difficile dire quanto sia significativo questo processo, ma nel corso della storia la civiltà occidentale, nel definire il suo approccio al concetto di “essere umano”, sembra seguire contemporaneamente due direzioni diverse.

Da un lato, c’è una dichiarazione coerente dell’uguaglianza e della dignità di ogni individuo umano, indipendentemente dall’origine e da altre caratteristiche. Dall’altro lato, si assiste alla necessità esistenziale di affermare la superiorità e i diritti delle prime nazioni, anche se tra “uguali”.

Blaut spiega la teoria della “modernizzazione”, volta a sostituire le teorie ormai irrilevanti del razzismo religioso o biologico con il razzismo culturale, che si basa sull’idea che i “non europei” siano inferiori agli europei non dal punto di vista razziale, ma culturale. Questo sarebbe predeterminato dal corso stesso della storia e dell’evoluzione culturale, e questa è la ragione della povertà dei “non europei” che sono “obbligati a seguire, sotto il patrocinio e la ‘tutela’ europea”, il percorso europeo come unica via per superare l’arretratezza.

È anche interessante che in tutte queste discussioni, pochi pensatori europei prestino attenzione alla vera fonte della prosperità europea: lo sfruttamento secolare dei popoli oppressi dagli europei. Ad esempio, il sociologo e politologo americano Samuel Huntinton ne ha parlato senza esitazione e con inequivocabile franchezza nel suo libro “The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order“:

L’Occidente ha conquistato il mondo non per la superiorità delle sue idee o dei suoi valori o della sua religione, ma piuttosto per la sua superiorità nell’applicare la violenza organizzata. Gli occidentali spesso dimenticano questo fatto; i non occidentali non lo dimenticano mai“.

Tutte le teorie della superiorità, in un modo o nell’altro, sono state concepite per garantire il primato etico e ideologico del mondo occidentale nel quadro delle politiche coloniali e neocoloniali. Una sorta di “accordo di adesione” all’infrastruttura finanziaria e politica dell’egemone del mondo occidentale, basato su una rigida gerarchia, che si esprime nella subordinazione degli interessi nazionali agli interessi dell’approccio occidentale alla globalizzazione, viene utilizzato nella fase attuale come strumento pratico per garantire questo “accordo”.

Oggi il mondo occidentale non ha abbastanza razzismo culturale per giustificare la sua esclusività. I successi economici dei Paesi del Sud globale, ottenuti in modo del tutto indipendente negli ultimi 20-30 anni, mettono in discussione la pretesa degli europei di avere un vantaggio storico e culturale che ne predetermini la ricchezza economica, il che impone all’Occidente di formulare nuove strutture teoriche per giustificare la propria superiorità.

Razzismo politico

Al vertice APEC del novembre 2023 a San Francisco, al presidente degli Stati Uniti Joe Biden è stato chiesto di nuovo se avesse cambiato idea sul fatto che il presidente cinese Xi Jinping fosse un dittatore. Biden ha risposto:

È un dittatore nel senso che è un uomo che gestisce un Paese comunista basato su una forma di governo totalmente diversa dalla nostra“.

Questa affermazione, ovviamente, ha provocato un tumulto diplomatico. Tuttavia, a nostro avviso, non ha ricevuto sufficiente attenzione, poiché tale riconoscimento è esclusivamente sintomatico nel contesto della genesi di una nuova forma di razzismo, utilizzata per giustificare la superiorità del mondo occidentale. La famosa affermazione di Winston Churchill, secondo cui “la democrazia è la peggiore forma di governo – ad eccezione di tutte le altre che sono state provate“, è stata a lungo fatta propria dal cosiddetto Occidente collettivo come un postulato assoluto e ideologico.

In primo luogo, presuppone che esista una sola forma di governo accettabile: una repubblica democratica. Inoltre, è accettabile solo nella forma del regime politico riconosciuto dall’Occidente, la democrazia liberale. Entrambe sono il frutto del pensiero politico occidentale, le cui istituzioni si sono formate nel corso di un lungo processo storico europeo che ha assorbito principalmente il patrimonio religioso cattolico e protestante e la filosofia occidentale.

In secondo luogo, solo l’Occidente collettivo stesso, espresso sia da specifici rappresentanti di un determinato grande spazio sia da varie associazioni collettive, come il G7, l’Unione Europea, la NATO, ecc. considera se stesso un arbitro autorevole che può giudicare la conformità di certi Stati o processi specifici ad essere definiti “ideali”.

Questo è esattamente ciò che intendeva il Presidente Biden, forse un po’ troppo schietto su ciò che aveva in mente. Qualsiasi regime politico diverso dal “nostro”, per definizione, non soddisfa i criteri di uguaglianza ed è quindi arretrato.

Tale atteggiamento può essere caratterizzato come “razzismo politico”, ossia una convinzione o ideologia basata sull’idea che un sistema politico, caratteristico di determinate comunità civili e culturali, sia superiore ad altri sistemi sia in termini di efficienza sia in senso valoriale, essendo più equo, progressista, ecc.

Questa costruzione ci permette di spostare l’attenzione dall’Occidente come “razza bianca” o “cultura dominante”, facendo appello, sembrerebbe, ai valori della democrazia dichiarati come universali. Questi valori, tuttavia, sono strettamente subordinati agli interessi della stessa comunità culturale e di civiltà. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti appaiono come una sorta di reincarnazione della Santa Sede del Medioevo, che agisce come arbitro e principale forza trainante del nuovo imperium, ideologicamente basato non sulla religione, ma sui valori presumibilmente universali della democrazia liberale. Questi valori, come ha notato di recente il primo ministro ungherese Viktor Orban, potrebbero in realtà rivelarsi interessi nazionali statunitensi.

Da un punto di vista pratico, il razzismo politico non è una convinzione sulla superiorità di alcuni individui rispetto ad altri, dovuta a fattori biologici o storico-culturali, come in passato, ma sulla superiorità di alcune comunità rispetto ad altre per motivi politici.

Non solo persone specifiche sono definite diseguali, ma, ad esempio, tutti i cittadini di un certo Stato. Non c’è bisogno di cercare lontano per trovare degli esempi. Tutte le sanzioni e le restrizioni imposte dalle potenze occidentali che colpiscono direttamente i cittadini della Federazione Russa sono chiari esempi di discriminazione basata sul razzismo politico.

Ad esempio, ai sensi dell’articolo 3i del Regolamento del Consiglio dell’Unione Europea n. 833/2014, sono vietati l’acquisto, l’importazione, il trasferimento (diretto o indiretto) all’interno dell’Unione Europea di beni che apportano un reddito significativo alla Federazione Russa e che sono elencati nell’allegato XXI del Regolamento del Consiglio dell’Unione Europea n. 833/2014, se tali beni sono prodotti in Russia o esportati dalla Russia. Allo stesso tempo, l’allegato XXI del Regolamento del Consiglio dell’Unione Europea n. 833/2014 contiene un ampio elenco di beni per uso personale, tra cui computer portatili (codice 8471) e telefoni cellulari (codice 8517). Di fatto, queste misure rappresentano un divieto di possesso di determinati beni da parte dei cittadini russi. Una misura del genere potrebbe essere immaginata nel quadro del regime di apartheid che ha regnato recentemente in Sudafrica o negli Stati Uniti. Una misura del genere potrebbe essere immaginata nel quadro del regime di apartheid che ha regnato recentemente in Sudafrica o negli Stati Uniti. Forse i burocrati europei hanno avuto paura di se stessi, visto che la decisione del Consiglio dell’Unione Europea n. 2023/2874, adottata nell’ambito del 12° pacchetto di sanzioni, ha introdotto alcune esenzioni per gli oggetti personali. Non è del tutto chiaro, però, cosa fare se lo stesso telefono o portatile è, ad esempio, aziendale. Allo stesso tempo, il vettore di pensiero del legislatore europeo rimane invariato.

Prendiamo ad esempio l’attuale conflitto palestinese-israeliano e l’opinione espressa dal colorito pubblicista e commentatore politico americano Ben Shapiro su X. Shapiro ha detto, rivolgendosi presumibilmente a un pubblico occidentale: “Non tutti la pensano come voi. Hamas non condivide i vostri valori e nemmeno la vostra visione generale di una vita degna“.

È vero anche il contrario? Solo chi la pensa come voi (cioè il pubblico occidentale) capisce il valore della vita? Questa logica è alla base delle giustificazioni delle azioni di Israele oggi. Nel quadro del razzismo politico, il portatore dei valori “corretti” sembra essere un po’ più umano di chi non li condivide. È qui che nasce un mostruoso doppio senso nella valutazione dei crimini di guerra da parte di una e dell’altra parte del conflitto.

Razzismo digitale

Il senso geopolitico della propria esclusività e l’ego esorbitante del sistema culturale e di civilizzazione occidentale, che nel XIX secolo, per bocca di Friedrich Nietzsche, proclamò la massima filosofica sulla morte di Dio, poco dopo, all’inizio del XX secolo, presero finalmente la forma del “fardello dell’uomo bianco” di Kipling. A quanto pare, ora assumeranno forme e caratteristiche del tutto inaspettate.

Il concetto di razzismo politico ha certamente un notevole potenziale di sviluppo. Tuttavia, essendo stato utilizzato più attivamente dall’Occidente negli ultimi trent’anni, il razzismo politico ha incontrato limiti oggettivi di crescita. Di fronte all’opposizione, le attuali forme di razzismo occidentale continueranno ovviamente a mutare. Come ha osservato il Presidente russo Vladimir Putin durante una riunione del Consiglio del Popolo russo, “la russofobia e altre forme di razzismo e neonazismo sono quasi diventate l’ideologia ufficiale delle élite dominanti occidentali“. In realtà, oltre al razzismo politico, che è relativamente giovane e pieno di forze distruttive, in futuro il razzismo digitale potrebbe diventare una nuova forma.

Il razzismo digitale può essere inteso come una forma di discriminazione nei confronti delle comunità sociali e dei loro rappresentanti (individui e persone giuridiche), in cui il vantaggio hardware, tecnico o algoritmico nel campo delle più recenti tecnologie digitali di un particolare spazio di civiltà, stato o comunità servirà come giustificazione per idee di leadership, esclusività e superiorità rispetto a qualsiasi altra comunità sociale. In questo senso, il razzismo digitale può svilupparsi in due dimensioni chiave: tecnologica e algoritmica.

La discriminazione tecnologica, come aspetto del razzismo digitale, si baserà sull’ideologia della superiorità fondata sul principio del possesso delle più recenti soluzioni tecnologiche in campo digitale, che vanno dai prodotti [come] semiconduttori e microcircuiti alle tecnologie quantistiche e alle tecnologie avanzate di trasmissione dei dati.

La creazione di club tecnologici statali e aziendali chiusi, lo sviluppo e l’implementazione di nuove misure per limitare l’accesso alle tecnologie digitali, così come la limitazione di comunità culturali e civili e di Stati concorrenti nello sviluppo delle proprie tecnologie digitali, è di fatto già diventata una realtà dell’interazione internazionale.

Basti pensare ai tentativi degli Stati Uniti di limitare lo sviluppo tecnologico della RPC e all’attuazione di una serie di misure per la delocalizzazione delle industrie ad alta tecnologia negli Stati Uniti. La competizione con la Cina per la leadership tecnologica nel campo delle tecnologie digitali è una delle forze trainanti dell’attuale fase di crisi geopolitica intorno a Taiwan.

Tuttavia, se la discriminazione tecnologica, come tipo di razzismo digitale, è già diventata un fenomeno radicato e, soprattutto, controllato, la nuova e potenzialmente incontrollabile caratteristica algoritmica del razzismo digitale, di natura antropica, può portare l’umanità a una tragedia di proporzioni epiche. Stiamo parlando dell’intelligenza artificiale (IA) che, come l’antico principio del Deus ex Machina, è in grado di balzare sulla scena mondiale e di influenzare in modo drammatico lo sviluppo della civiltà umana e il progresso scientifico e tecnologico.

L’IA, o una rete neurale generativa (cioè un modello algoritmico di apprendimento automatico senza insegnante), può svilupparsi secondo traiettorie e scenari imprevedibili, il che pone le basi per una forma fondamentalmente nuova di razzismo digitale – la discriminazione algoritmica (che probabilmente sarebbe scarsamente controllabile persino dai suoi creatori). La base di tale razzismo può essere costituita dalle attuali specificità dello sviluppo della tecnologia IA.

In primo luogo, gli algoritmi di IA moderni e avanzati sono sviluppati da rappresentanti della civiltà occidentale. Chi può quindi garantire che il modello algoritmico nella fase iniziale del codice non derivi da linee guida e divieti che riflettono le norme culturali dell’Occidente?

In secondo luogo, anche se ipotizziamo che tali linee guida e divieti non siano intenzionalmente incorporati nell’algoritmo durante la creazione e lo sviluppo dell’IA, il modello algoritmico è anglo-centrico (poiché i creatori di sistemi come il modello ChatGPT sono prevalentemente specialisti di lingua inglese con una visione del mondo e uno stile di vita corrispondenti). Non si può escludere che per ragioni oggettive, ai fini dell’autosviluppo, si rivolgano a banche dati prevalentemente occidentali e ai corrispondenti strati informativi e culturali che, per ovvie ragioni, sono significativamente saturi di varie forme e manifestazioni di una percezione razzista del mondo. Questa visione del mondo è fissata a livello di immagini e simboli linguistici, storici e artistici.

In terzo luogo, a causa di queste due circostanze dello sviluppo delle reti neurali generative, ci si chiede in che misura il patrimonio della parte non occidentale della civiltà umana (comprese le culture russa e cinese) sarà utilizzato dal punto di vista della costruzione di un modello di IA equilibrato, ad esempio in materia di etica e morale. In altre parole, quanto sarà umano e centrato sull’uomo il modello di IA che ne risulterà e quanto sarà sviluppato in termini di meccanismi per proteggere l’umanità dal comportamento incontrollato dell’IA?

Ricordiamo un episodio. Nel 2018, Firaxis Games ha pubblicato un gioco per computer, Civilisation VI, in cui al giocatore viene assegnata una civiltà e l’obiettivo di conquistare il mondo. Per la sesta edizione, ha aggiunto i Cree – una vera tribù indigena del Nord America, che attualmente vive in Canada. Tuttavia, il capo del popolo Cree, Milton Tootoosis, si è opposto all’inclusione della sua tribù in questo gioco, ed ecco perché: “Si perpetua il mito che le Prime Nazioni abbiano valori simili a quelli della cultura coloniale, ovvero la conquista di altri popoli e l’accesso alla loro terra. Questo non è assolutamente in accordo con i nostri modi tradizionali e la nostra visione del mondo“.

Un modello algoritmico di IA sviluppato senza tenere conto di queste caratteristiche diventerà una copia digitale dell'”uomo nero” o del Faust della civiltà occidentale, incorporando numerosi pregiudizi delle ideologie occidentalocentriche, comprese le idee di razzismo in tutte le sue forme? Questo scenario non sembra fantastico, soprattutto perché negli ultimi anni, sullo sfondo dello sviluppo esplosivo dell’IA, scienziati, pensatori, politici e persino uomini d’affari hanno avviato un acceso dibattito sulle minacce all’umanità poste dall’IA.

Questa visione delle questioni dello sviluppo digitale dell’umanità media un’intera gamma di problemi fondamentali: dal monitoraggio dei progressi dello sviluppo delle reti neurali alle questioni dell’umanizzazione dell’IA. Di fatto, oggi l’interazione internazionale in questo settore è ridotta al minimo, il che pone le basi per l’emergere del razzismo digitale come nuova forma di discriminazione internazionale.

Non è meno interessante che, ad esempio, nella logica della competizione tecnologica e della coerente attuazione della tesi di Nietzsche sulla morte di Dio, nonché della definitiva eliminazione della morale e dell’etica basate sull’eredità cattolica e protestante dell’Occidente, uno dei principali araldi occidentali del futuro ordine mondiale, Yuval Noah Harari, preveda che tutte le religioni moderne possano essere sostituite da religioni create dall’IA.

Le domande sull’eccezionalità (cioè “giusto”, “buono”) e secondarietà (cioè “sbagliato”, “malvagio”) della pratica del razzismo digitale sorgeranno sia all’interno di questa nuova religione digitale sia, ad esempio, nel contesto della teoria del “dataismo“, sviluppata, tra gli altri, dallo stesso Harari. In generale, oggi l’idea di una religione digitale dell’IA è solo una previsione (anche se di un pensatore e creatore di narrazioni ideologiche tra gli intellettuali occidentali), ma una tale visione degli scenari di sviluppo dell’IA, unita alle potenziali minacce da essa poste all’umanità nel futuro, può dare ai problemi delle reti neurali generative un sapore escatologico, portando, tra l’altro, i problemi della discriminazione algoritmica oltre le parentesi di una dimensione puramente filosofica e di scienza politica.

In ogni caso, il razzismo è solo una forma di realizzazione della pretesa di esclusività, che fornisce un obiettivo pratico – la giustificazione del dominio di una certa comunità di civiltà. Il mondo sta diventando più complesso e con esso anche la forma. La violenza vera e propria è sostituita da una manipolazione più sofisticata. Tuttavia, finché l’idea stessa di superiorità su qualsiasi base sarà viva, anche le ideologie che la garantiscono saranno ineliminabili.

 

Il Club Valdai è un think-tank e un forum di discussione russo. Fondato nel 2004, nel contesto del ritorno della Russia nella politica internazionale inaugurato dalla prima presidenza Putin, il Valdai è specializzato nella produzione di analisi geopolitiche, nell’organizzazione di eventi per decisori politici e nella formulazione di indirizzi di politica estera (da Wikipedia).

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