Vi proponiamo un articolo che, parlando in tema di livello dei prezzi, mostra come le principali istituzioni preposte a dare risposte sul fenomeno inflattivo in corso, abbiano ormai abbandonato la classica teoria monetarista del printing money, come causa dello stesso, per concentrarsi sui colossali profitti conseguiti dalle aziende in determinati settori.
E’ un passo avanti, ma sempre all’interno di quella che è la naturale esigenza di non far comprendere le cose fino in fondo, attraverso l’uso della frode a livello dottrinale.
Dal momento che il livello dei prezzi (inflazione), in una certa valuta, è direttamente determinato dal monopolista di quella stessa valuta, è chiaro che analizzare il fenomeno inflattivo in corso a livello planetario, è totalmente errato!
E di conseguenza, ogni tipo di analisi che le istituzioni appena menzionate pongono in essere a livello globale, è affetto da questo errore di base. Che le cose stiano così, lo dimostrano i numeri, ovvero le diverse percentuali del grado di inflazione presenti nei vari paesi.
Non solo, anche nelle unioni monetarie, come ad esempio l’Unione Europea, i dati che certificano l’inflazione sono diversi tra paese e paese. Questo perché, l’inflazione non è mai guidata dalla politica monetaria delle banche centrali, ma bensì dalla politica fiscale dei singoli governi.
Quindi, siamo in presenza di un fenomeno certamente non naturale, che ha cause diverse e che si manifesta con effetti differenti, direttamente causato da una azione e/o non azione da parte dei governi. E quindi, anche le soluzioni ed i rimedi non possono essere gli stessi per tutti e devono essere imprescindibilmente demandati ai governi ed alla loro funzione di politica fiscale.
Puntare il dito sui colossali profitti in alcuni settori come driver del fenomeno inflattivo in corso – secondo le parole di Madame Lagarde riportate nell’articolo – è un voler invertire l’onere della prova per non trovare il colpevole.
I profitti delle aziende in questione (per lo più agenti nei settori monopolistici), non sono stati conseguiti per volontà di Dio, ma solo e soltanto perché governi distratti quanto compiacenti, hanno permesso loro di conseguirli. Ed il fatto, come in Italia, che non hanno permesso loro di farlo attraverso deficit governativi imponenti, ma attraverso il sangue finanziario di imprese e famiglie, rende ancora più grave la responsabilità da parte dei nostri governi.
Questo perché il fenomeno inflattivo in corso in Italia, caratterizzato da un aumento dei prezzi in stato recessivo (stagflazione), ha fatto sì che tale azione del governo, abbia aggravato ulteriormente la situazione, portando alla chiusura di molte imprese, che si sono viste – oltre all’aumento dei costi energetici – ridurre drasticamente le loro entrate in conseguenza del dirottamento delle stesse verso i sopracitati settori.
La giustificazione della Lagarde attraverso questa dichiarazione lascia veramente senza parole:
“Non abbiamo tanti e buoni dati sui profitti come quelli sui salari” – ed allora aumentiamo i salari se vogliamo far finta che a Francoforte non sappiano quanto ha incassato ENI dalla speculazione sul prezzo del gas, con i governi immobili a guardare!
La Lagarde, contrariamente a quanto ci dice, mostra piena coscienza dei colossali profitti in certi settori (40% dell’inflazione rileva l’FMI) e della stagnazione dei salari: “I lavoratori hanno finora perso dallo shock inflazionistico, … che sta innescando un processo di ‘recupero’ salariale sostenuto” –
Magari il governatore della Bce, dovrebbe anche spiegarci con qualche dato, dove sta questo supposto recupero salariale sostenuto in Italia!
Nonostante tutta questa comprensione e quanto spiegato, a Francoforte si continua a voler combattere l’inflazione con la classica ricetta neoliberal che, come sappiamo, prevede di aumentare i tassi.
Tale ed unica ricetta a disposizione dei banchieri centrali non va bene ne per l’inverno ne per l’estate! Intendo che non va bene, sia in caso di inflazione da domanda poiché aggiungendo capacità di spesa contribuisce ad acuire quello che si intende combattere (l’inflazione); e non va bene nemmeno in caso di inflazione esogena con economia in stato recessivo (stagflazione), poiché aumentando i costi finanziari per cittadini ed imprese, si va a minare quella che è la loro capacità di spesa, con il conseguente aggravio dello stato recessivo e del dato occupazionale. Soprattutto se la misura è messa in atto all’interno di uno status del risparmio privato concentrato in poche mani, come è il nostro attualmente. Ma non solo: stante la struttura fallace del sistema monetario costruito intorno alla moneta Euro, alzare i tassi, accresce anche il rischio di instabilità finanziaria per i paesi membri, compromettendone la capacità di spesa per l’economia reale.
Nell’ultima decade, le banche centrali mai sono riuscite a centrare il loro target di inflazione del 2%. Lo hanno sempre fallito al ribasso. E quindi cosa può farci pensare che oggi possano fare qualcosa contro l’inflazione?!
La realtà dei fatti e della dottrina economica, ci dice che le banche centrali niente possono fare nei confronti dell’inflazione proprio perché, come spiegato all’inizio, solo i governi attraverso la politica fiscale hanno gli strumenti per intervenire.
Nei paesi come il nostro, dove il fenomeno ha il carattere della stagflazione, esso può essere ricondotto alla normalità solo attraverso una politica fiscale che mira ad incentivare gli investimenti, aumentare la produttività ed incoraggiare le imprese a fare soldi alla vecchia maniera: vendendo più prodotti a prezzi equi; ma soprattutto adeguando i salari in modo che i profitti per le aziende arrivino dall’aumento dei volumi e non dei prezzi.
di Megas Alexandros – CDC Economia e Lavoro
Prendere di mira l’inflazione causata dai venditori
Di Isabella M. Weber – Project Syindicate – 13 luglio 2023
I principali funzionari hanno riconosciuto che i profitti sono stati una delle principali fonti di inflazione in Europa – una posizione realistica basata sui fatti, piuttosto che sull’economia degli anni Settanta. Ora che hanno definito una nuova analisi di ciò che sta guidando l’inflazione, anche la risposta politica dovrebbe cambiare.
Negli ultimi mesi, la Banca Centrale Europea, l’OCSE, la Banca per i Regolamenti Internazionali (BRI) e la Commissione Europea hanno tutte pubblicato studi che dimostrano come i profitti hanno contribuito in larga misura all’inflazione. Ma il colpo di grazia per i dubbiosi è arrivato il 26 giugno, quando il Fondo Monetario Internazionale ha twittato:
“L’aumento dei profitti societari è stato il maggior responsabile dell’inflazione in Europa negli ultimi due anni, in quanto le aziende hanno aumentato i prezzi più dei costi dell’energia importata“.
Perché ci è voluto così tanto? Come ha detto la Presidente della BCE Christine Lagarde al Parlamento europeo il 5 giugno, “il contributo dei profitti all’inflazione… è andato un po’ perso“, perché “non abbiamo tanti e buoni dati sui profitti come quelli sui salari“. I responsabili politici non sono riusciti a comprendere appieno la “trasmissione della spinta dei costi subita da molti settori aziendali ai prezzi finali“. Ma ora il problema è emerso chiaramente. Mentre alcuni settori “hanno approfittato per spingere i costi interamente senza comprimere i margini“, ha spiegato Lagarde, altri si sono spinti oltre per “spingere i prezzi più in alto della semplice spinta dei costi“.
Secondo Lagarde, le aziende hanno potuto aumentare i prezzi per due motivi: lo squilibrio tra domanda e offerta, dove hanno prevalso le strozzature, e l’effetto di coordinamento prodotto dai recenti mega-shock. Come ha detto Lagarde: “tutti sono nella stessa posizione, tutti aumenteranno i prezzi“.
Questa “inflazione dei venditori” si verifica quando il settore delle imprese riesce a trasferire un forte shock dei costi ai consumatori aumentando i prezzi al fine di proteggere o migliorare i propri margini di profitto. Naturalmente, non tutte le imprese hanno guadagnato allo stesso modo. Il punto è che l’inflazione dei venditori si traduce in un aumento dei profitti totali. La stessa semplice verità ha portato Adam Smith ad avvertire, 250 anni fa, che i profitti possono portare ad una pressione sui prezzi.
Qualcuno potrebbe obiettare che proteggere i margini dagli shock dei costi è un normale comportamento aziendale, che non lascia alcuna ragione per ripensare l’inflazione odierna. Ma nessuno nega che le imprese mirino a proteggere o addirittura a espandere i propri margini (quindi, “avidità di inflazione” è un’espressione fuorviante). Il punto è piuttosto che, per gli standard storici, le aziende di oggi hanno avuto un successo spettacolare nel farlo. Isabel Schnabel è stata la pioniera di questo tipo di analisi dell’inflazione presso la BCE e, quando di recente le è stato chiesto se l’inflazione odierna fosse davvero guidata dai profitti, non ha usato mezzi termini: “Se si fa la macro-scomposizione, una parte [dell’inflazione] è causata dai profitti, punto e basta. È un dato di fatto“.
Facciamo il confronto con il primo shock petrolifero del 1973. All’epoca, come mostra il FMI, fu il lavoro a proteggersi e a respingere lo shock; al di là del petrolio stesso, l’aumento dei prezzi fu quasi esclusivamente determinato dall’aumento del costo unitario del lavoro, e i profitti diminuirono. Oggi, invece, il FMI rileva che i profitti rappresentano il 40% dell’inflazione e, insieme ai prezzi delle importazioni, hanno sostituito il costo del lavoro come motore principale. Inoltre, come conferma la BRI, i salari reali sono diminuiti più di quanto non abbiano fatto nei passati episodi di inflazione. “I lavoratori hanno finora perso dallo shock inflazionistico, … che sta innescando un processo di ‘recupero’ salariale sostenuto“, spiega Lagarde.
Da dove traggono queste idee la BCE, il FMI, la BRI e altre importanti istituzioni? Di certo non provengono da vecchie ipotesi basate sulla curva di Phillips, sull’output gap e sull’allentamento quantitativo. Forse il mio lavoro, ampiamente divulgato, ha avuto un qualche ruolo, oppure le persone stanno semplicemente guardando ai fatti in modo nuovo.
Quale che sia il caso, è poco utile avere una diagnosi corretta se la terapia rimane inefficace o addirittura dannosa. Allo stato attuale, la ricetta standard per affrontare l’inflazione è ancora quella di aumentare i tassi di interesse, . Il FMI suggerisce che “le prospettive di inflazione dell’Europa dipendono da come i profitti delle imprese assorbiranno gli aumenti salariali“. Ma non esiste un canale diretto tra l’aumento dei tassi di interesse e la compressione dei margini. Un aumento dei costi di finanziamento ha già aumentato i rischi finanziari e, semmai, riduce la capacità delle imprese di assorbire gli aumenti salariali.
Come hanno osservato alcuni analisti di Wall Street, il “price over volume” è ormai una strategia aziendale diffusa. Invece di abbassare i prezzi e aumentare i volumi, molte aziende stanno compensando la riduzione dei volumi con un aumento dei prezzi; in questo contesto, è improbabile che puntare su una domanda più bassa possa arrestare l’inflazione.
Le grandi aziende hanno imparato che non sono costrette a pagare il conto di grandi shock di costo come la pandemia o la guerra della Russia in Ucraina. E non devono nemmeno adattarsi. Come le grandi banche durante la crisi finanziaria del 2008, sono state inglobate nella cultura dei salvataggi e dello “scaricabarile”. Ma questo comportamento non renderà l’economia più resistente. Dovremmo riconoscere il ricorso a tassi di interesse più elevati per quello che è: una strategia per scaricare i costi dell’inflazione sul lavoro (sopprimendo i salari), sui programmi sociali (attraverso l’austerità) e sulle generazioni future (scoraggiando gli investimenti).
Gita Gopinath, vice direttore generale del FMI, aveva certamente ragione il mese scorso quando sostenne che “se l’inflazione deve scendere rapidamente, le imprese devono permettere ai loro margini di profitto… di diminuire“. Ma per raggiungere questo risultato è necessaria una nuova strategia volta a disciplinare i profitti fuori controllo, incentivare gli investimenti, aumentare la produttività e incoraggiare le imprese a fare soldi alla vecchia maniera: vendendo più prodotti a prezzi equi.
Il primo ministro britannico Margaret Thatcher dichiarò, come è noto, che “non c’è alternativa” all’economia di mercato senza vincoli. In realtà, lo scorso anno ha insegnato ai politici che esistono molte alternative. In Spagna, ad esempio, un approccio creativo “tutto quanto sopra” ha prodotto un tasso d’inflazione inferiore all’obiettivo della BCE, mentre la crescita dei profitti unitari è stata più in linea con il costo unitario del lavoro rispetto ad altri Paesi OCSE; e negli Stati Uniti, il petrolio immesso in circolo dalla Strategic Petroleum Reserve ha contribuito a contrastare le pressioni inflazionistiche.
Un’analisi corretta è il primo passo fondamentale. Gli economisti tecnici e i leader politici delle istituzioni internazionali ed europee devono ora fare il passo successivo. Abbiamo bisogno di politiche che seguano le loro nuove conoscenze. In mancanza di ciò, sarebbe più sicuro sospendere i rialzi dei tassi e non fare nulla, piuttosto che lanciare un’altra serie di inasprimenti monetari. A volte fare un passo indietro è il modo migliore per andare avanti.
Di Isabella M. Weber, Project Syindicate
Isabella M. Weber, professore assistente di economia presso l’Università del Massachusetts ad Amherst, è autrice di “How China Escaped Shock Therapy: The Market Reform Debate”
Tradotto (IMC) da CptHook per ComeDonChisciotte – CDC Esteri
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