Pier Paolo Pasolini descrive “Le città invisibili” di Italo Calvino

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Di Patrizia Pisino per ComeDonChisciotte.org

Questo testo è un estratto dal libro “Descrizioni di descrizioni” edito da Garzanti, una ricca raccolta  delle recensioni che Pier Paolo Pasolini ha scritto per il settimanale “Il tempo” dal 1972 al 1975, il titolo rispecchia il pensiero dello stesso autore  che afferma: ” Che cos’è e come è fatta la critica? Naturalmente questo è un problema molto vecchio, benchè neanche lontanamente risolto. Tuttavia pensavo che, facendo personalmente io della critica e per tanto tempo questo, “mistero” mi si sarebbe almeno un po’ e almeno pragmaticamente chiarito. Invece no… Ho fatto delle” descrizioni”. Ecco tutto quello che so della mia critica in quanto critica. E ” descrizioni” di cosa? Di altre ” descrizioni”, che altro i libri non sono. ”

Tra le tante recensioni di autori italiani e stranieri quella su Italo Calvino “Le città invisibili” mi ha particolarmente colpita, forse perché viviamo un momento dove la fantasia e la creatività umana vengono considerate inutili e sostituibili dall’Intelligenza artificiale, ma come possono i sentimenti essere omologati a semplici algoritmi? Pasolini descrive con il sentimento ed il vissuto propri questo stupendo libro di Calvino, questo emerge dalla sua penna e questo non potrà mai essere tecnologicamente e freddamente elaborato.

Buona lettura.

 

Le città invisibili”  di Italo Calvino

Sono cresciuto insieme con Italo Calvino, l’ho visto giovanissimo, quasi un ragazzo (credo che abbia uno o due anni meno di me, ma quando sono entrato nel mondo uscendo dal monastero friulano nel 1950, lui era un po’ più adulto, e più dentro le cose della società e della letteratura, che ancora per un pezzo mi sarebbero state precluse, quasi che io non le meritassi, per qualche indegnità – o per troppa ingenuità). Abbiamo lavorato insieme, lui a Torino, io a Roma, fin verso ai quaranta anni, cioè fino a che abbiamo raggiunto il centro della vita (quarant’anni è l’età in cui l’uomo è più «illuso», crede di più nei cosiddetti valori del mondo, prende più sul serio il fatto di dovervi partecipare, di dover impossessarsene. Il ventenne, nei confronti del quarantenne, è un mostro di realismo). Il nostro lavoro, in qualche modo si integrava, benché fosse così diverso: e ci legava soprattutto l’ottimismo — come un buon sentimento — consistente nella convinzione che il nostro lavoro fosse al «centro» di qualcosa, e che qualcosa ne dovesse risultare. In modo molto ombroso, ci ammiravamo e ci amavamo, senza molti complimenti, troppo presi dall’importanza di ciò che facevamo per consentirci pause disinteressate.

Poi Calvino ha cessato di sentirsi vicino a me. L’ho capito subito. All’inizio degli anni Sessanta, qualcosa si spaccava, e io e lui eravamo sulle parti opposte della spaccatura. Il suo viso militare, fiero e furbetto, sotto le grosse sopracciglia nere, che benché così settentrionale, lo rendono molto mediterraneo, la bocca carnosa che si agita sempre come sul punto di dire qualcosa che passa ilarmente da lontano nel suo cervello attento – questa sua immagine ha cominciato un po’ a ingiallire e a scolorirsi: a sorridere «de lonh», come quella di una cara persona la cui perdita viene conosciuta dopo qualche anno, quando è ormai tardi per soffrirne. Naturalmente ho da ridire sul modo con cui Calvino ha scelto l’«attualità»: la sua apertura verso la neo-avanguardia e la sua adesione aprioristica al Movimento Studentesco (per tenermi molto sulle generali). Non so cosa è passato realmente dentro la sua testa in questi ultimi anni, perché Calvino, forse diplomaticamente, ha taciuto o ha un po’ mentito. Cosa che del resto, nel mondo, bisogna saper anche fare. Non è detto che si debba sempre dire la verità. Qualche volta è forse meglio tacere che dire la verità. È più sano, forse, qualche volta, tenersela dentro, la verità. Fatto sta che Calvino ha mantenuto intatto il suo credito, mentre io screditato due volte, da due mode da cui Calvino invece non si è dissociato — stabilendo con esse una specie di sia pur distratta alleanza — col ristabilirsi della verità, che io, inopportunamente, ho gridato a tutti i venti come una gallina spennacchiata — continuo a godermi non solo il discredito (che si rivela dunque piuttosto immeritato), ma anche la antipatia di chi non mi sa perdonare di aver detto a suo tempo ciò che era giusto dire. Di Calvino, dicevo, per qualche anno non ho saputo realmente niente, quasi che anche fisicamente egli avesse avuto una specie di sospensione. Le Cosmicomiche – lo confesso – mi erano giunte come una cosa irreale e interlocutoria. Adesso egli mi riappare, non solo vero, ma più vero che mai, col suo ultimo libro, che non solo è il suo più bello, ma bello in assoluto.

La prima osservazione che mi viene da fare è che questo suo libro, Le città invisibili, è il libro di un ragazzo. Solo un ragazzo può avere da una parte un umore così radioso, così cristallino, così disposto a far cose belle, resistenti, rallegranti; e solo un ragazzo, d’altra parte, può avere tanta pazienza – da artigiano che vuol a tutti i costi finire e rifinire il suo lavoro. Non i vecchi, i ragazzi, sono pazienti.

D’altra parte nella città di Isidora, «c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro». E indubbiamente, cioè secondo logica, Le città invisibili sono l’opera di un vecchio, o almeno di un uomo anziano, che ha visto passare la vita. Questa esperienza – che è la più importante che un uomo possa fare – fa sì che egli non riesca a vedere più il futuro come il futuro della propria vita, e nemmeno, ormai, come il futuro dei figli o dei nipoti (che è l’orizzonte umano entro cui, per esempio, opera la Ragione, e l’etica, soprattutto normativa, trova i suoi fondamenti): no, l’esperienza dell’aver visto passare la vita equivale all’esperienza dell’aver visto passare tutta la possibile vita, la vita del cosmo. Il futuro si allarga quindi smisuratamente, e tutte le proporzioni del reale, con la sua razionalità e la sua morale, saltano. Resta soltanto il dato di tale esperienza – che dunque senza razionalità e senza morale, deve giustificarsi da sola, non potendo confrontarsi con niente altro che con le illusioni, e, d’altra parte, non avendo altro possibile sbocco che quello di esprimersi.

Il libro di Calvino è così il libro di un vecchio, per cui «i desideri sono ricordi». Non solo, però, i desideri sono ricordi: lo sono anche le nozioni, le informazioni, le notizie, le esperienze, le ideologie, le logiche: tutto è ricordo. Ogni strumento intellettuale per vivere, è un ricordo.

Di conseguenza anche la assoluta novità del conoscere la vita «come passata», non ha altri strumenti per esprimersi che questi vecchi ricordi. È vero dunque che ogni illusione culturale in Calvino è decaduta, ma la sua cultura è però rimasta: almeno come fornitrice di quei ricordi culturali, attraverso cui Calvino può esprimere il nuovo mondo, come esso si presenta ai suoi occhi abbacinati di vecchio-ragazzo, seduto sul muretto.

In questa cultura, che possiamo chiamare «sopravvissuta», di Calvino c’è tutto: anche naturalmente il marxismo con le sue esigenze praticistiche di intervento, la sua retorica ecc., perché è questo soprattutto che il libro, pur inglobando, nega (ma non abiura). L’idea di una Città Migliore, raggiunta attraverso la vittoria, mettiamo, della lotta di classe, viene semplicemente immersa in una diversa idea del tempo: non dico della storia, ma proprio del tempo. Infatti molte delle città sognate da Calvino in un certo momento raggiungono la perfezione. Che poi la riperdano è un discorso che riguarda generazioni incredibilmente future. Questo lo dico per cercare di tranquillizzare le coscienze dei miei colleghi critici marxisti osservanti.

Dunque, malgrado la caduta di ogni illusione culturale, la cultura di Calvino, ripeto, è rimasta intatta, sia pure come Illusione: e, in quanto tale, ha raggiunto la perfezione formale di un oggetto, di un meraviglioso fossile. La cultura specifica di Calvino, poi, che è quella letteraria, liberatasi dalla sua funzione, dai suoi doveri, è divenuta come una miniera abbandonata, in cui Calvino va a prelevare i tesori che vuole.

Che cosa vi preleva? Prima di tutto una scrittura metallica, quasi cristallina, ma leggera, incredibilmente leggera: la scrittura del gioco. A questa leggerezza Calvino non trasgredisce mai: non c’è mai un solo istante in cui egli scrivendo non cavalchi a briglie sciolte, come se andasse senza avere meta: eppure, in questo andare per andare, l’eleganza, la cura disinteressata dell’eleganza, non è tradita mai un momento.

La seconda cosa che Calvino preleva nella sua cava in disuso, sono le tecniche dell’ambiguità. In ogni pagina delle Città invisibili ogni canone è sospeso: anzi, è motteggiato. Il senso è come un’eco in una valle piena di grotte che suona ora qua ora là, pur essendo sempre lo stesso.

Ma l’ambiguità, nel suo aspetto più tipico e classico di sfumatura infinita, si trova specialmente nelle pagine connettive del libro, quelle in corsivo, che affabulano dei referti di uno pseudo Marco o di uno pseudo Polo all’imperatore. Ambedue gli interlocutori sono eternamente cangianti, e si presentano, ogni volta, come i simboli di tutti i libri possibili che questo libro potrebbe essere; o come i simboli dei punti di vista attraverso cui questo libro, sia ideologicamente che linguisticamente, potrebbe essere angolato. Non si può quindi affatto parlare di «relativismo» a proposito di Calvino, perché il suo relativismo è completamente visionario, confrontato con infinite possibilità diverse.

La terza cosa che Calvino ricava dalla sua miniera letteraria è il surrealismo: un surrealismo che è la delizia delle delizie, perché la galleria dei quadri surrealistici che ne risultano, non si spiegano affatto attraverso se stessi, cioè attraverso il surrealismo, ma sono funzionali a quella folle ideologia multipla, che contesta ogni possibile logica della ragione, e soprattutto quella dialettica.

Il fondo di tale ideologia, infinitamente possibilistica o multipla, è però sempre lo stesso, ossessivamente lo stesso: ed è costituito dallo scontro inconciliabile di due opposti: la realtà e il mondo delle idee. Sì, nella letteratura archeologica di Calvino, è saltato fuori il platonismo, sotto il cui segno quella letteratura è nata. Tutte le città che Calvino sogna, in infinite forme, nascono invariabilmente dallo scontro tra una città ideale e una città reale: questo scontro ha il solo effetto di rendere surrealistica la città reale, ma non si risolve storicamente in nulla. I due opposti non si superano in un rapporto dialettico! La lotta tra essi è ostinata e disperata quanto inutile: il tempo fa da paciere trascinando tutto con sé in una dimensione completamente illogica, che risolve i problemi diluendoli all’infinito, distruggendoli fino a farne dei rottami a loro volta surreali.

Per me, che sto lavorando a Le mille e una notte, leggere questo libro è stato quasi inebriante: e non è un caso o un fatto personale. Proprio Le mille e una notte sono il modello figurativo che il surrealismo di Calvino parsimoniosamente saccheggia: e come ogni racconto de Le mille e una notte è il racconto di una anomalia del destino, così ogni descrizione di Calvino è la descrizione di una anomalia del rapporto tra mondo delle Idee e Realtà (che è poi il Destino nella civiltà occidentale). L’invenzione poetica consiste nell’individuazione di tale momento anomalo.

Nelle descrizioni delle città di Maurilia, di Zobeide, di Ipazia, di Eutropia, di Ottavia, di Ersilia, di Bauci, di Pirra, di Moriana, di Bersabea, di Raissa, di Marozia, tale individuazione dell’anomalia è talmente perfetta che pare essere avvenuta da sé: abbiamo davanti a noi dei fenomeni di una realtà «surreale» di cui Calvino pare essere veramente il semplice descrittore. Come può essere accaduto questo, quando è ben chiaro che, secondo la logica, e anche la pratica (per chi ce n’abbia un poco) tale operazione appare, a tavolino, estremamente difficile, se non impossibile? Come si fa a ripetere il miracolo del narratore de Le mille e una notte, la sua esaltante attendibilità nel raccontare le anomalie del codice del destino? In fondo – invece – la cosa si spiega abbastanza semplicemente: anzi, è la prima cosa che avrei dovuto dire parlando di questo libro: Calvino non inventa nulla, tanto per inventare: semplicemente si concentra su un’impressione reale – uno dei tanti choc intollerabili, che meriggi o crepuscoli, mezze stagioni o canicole, ci causano negli angoli più impensati o più famigliari delle città note o ignote in cui viviamo – e, pur sentendolo in tutta la sua qualità struggente di sogno, lo analizza: i pezzi separati, smontati, di tale analisi, vengono riproiettati nel vuoto e nel silenzio cosmico in cui la fantasia ricostruisce, appunto, i sogni. È sempre dunque una «base» di sensibilità reale che fornisce materia per i «vertici» poetici e ideologici di Calvino.

28 gennaio 1973

Note: Italo Calvino con il suo testo senza tempo e spazio continua ad influenzare la creatività di molti artisti che si sono cimentati nel graficizzare le sue 55 città rendendo visibile l’invisibile.

https://lucarota.com/2017/09/08/vedere-le-citta-invisibili-di-calvino/

http://www.chora.me/illustrazioni/le-illustrazioni-ispirate-a-le-citta-invisibili-di-calvino/

https://www.culturecomparate.it/2017/11/28/le-traduzioni-in-arte-de-le-citta-invisibili-di-calvino/

 

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