DI FREDERIK JOHANNISSON E PETER BENGTSEN
The Ecologist
Dall’India all’Indonesia, un’inchiesta di Frederik Johannisson e Peter Bengtsen di Danwatch rivela che i produttori di pepe sono sempre più vulnerabili ai cattivi raccolti, al crollo dei prezzi e ai cartelli.
“Una mattina ci siamo svegliati
e abbiamo trovato nostro padre impiccato in camera da letto, proprio qui”, dice la ventenne Neethu indicando un angolo buio della stanza
impolverata.I grandi occhi bruni di Neethu esprimono forza ed allo stesso tempo timidezza. È sola a casa con il suo fratellino handicappato di 14 anni mentre la madre lavora in una cava vicina per tre euro al giorno. Dopo la morte del padre, i tre hanno condiviso il lavoro per la produzione del pepe e altre colture del loro piccolo terreno che circonda la casa di mattoni rossi situata tra le montagne dello stato indiano di Kerala.
“Io e mia madre sapevamo di avere
difficoltà economiche. Sapevo che mio padre aveva chiesto un blade
loan, ma non sapevo quanto la situazione fosse grave”, continua
Neethu in tono pragmatico.
Un blade loan è un prestito
“paga o muori” elargito da usurai locali, spesso con tassi di interesse
esorbitanti. Neethu crede che gli strozzini abbiano minacciato il padre
dicendo che gli avrebbero tolto il terreno se non avesse pagato, ma
lui non ha detto nulla e si è portato le sue ragioni nella tomba.
Il padre di Neethu non era il solo.
Durante gli ultimi dieci anni più di 1700 fattori si sono suicidati
nel distretto di Wayanad nello stato meridionale del Kerala. Tra queste
montagne rigogliose e sempreverdi, a tutt’oggi abitate da elefanti e
tigri selvagge, l’agricoltura è l’unica attività economica per la
maggior parte della popolazione.
Le trappole dei debiti
“si nascondono dietro l’angolo”
L’India produce 50.000 tonnellate di
pepe nero ogni anno, metà del quale viene esportato. Gran parte
del pepe nero indiano che si trova nei nostri supermercati locali potrebbe
provenire da Wayanad e dai distretti vicini.
Nel 2000 i prezzi del pepe sono crollati
provocando un’ondata di suicidi tra gli agricoltori del distretto di
Wayanad. Il pepe è prodotto per la maggior parte da piccole fattorie
che occupano più del 90% della popolazione, ciascuna con circa 1-2
ettari di superficie. Il prezzi concessi agli agricoltori sono stati
ridotti a un quinto in pochi anni. Allo stesso tempo, la produzione
della spezia è diminuita a causa di alcune malattie delle piante.
“Gli agricoltori non potevano
saldare i debiti. Alcuni hanno chiesto prestiti di emergenza per coprire
le spese di quelli già esistenti, a volte con un tasso di interesse
superiore al 25%. Nel caso di un mancato pagamento, la banca o il prestasoldi
inviava una lettera intimidatoria. Quel messaggio era il momento cruciale
in cui la maggior parte o si impiccava o si avvelena bevendo i loro
stessi pesticidi”, afferma il direttore Anil Kunar del centro
per l’agro-biodiversità MSSRF di Wayanad.
Oggi il tasso di suicidi è tornato
alla “normalità”. Le ONG locali hanno istituito delle attività
di formazione per aiutare gli agricoltori indebitati o per fornire supporto
finanziario ai restanti membri della famiglia. Il Governo Statale di
Kerala ha elargito cancellazioni di debiti fino a 100.000 rupie (a seconda
della dimensione del prestito) ai piccoli agricoltori. Ma oggi molti
di loro dipendono ancora dai prestiti per sopravvivere.
“I debiti sono ancora molto diffusi.
La trappola si nasconde sempre dietro l’angolo. I problemi che gli agricoltori
affrontano non sono cambiati dal periodo dei suicidi”, afferma
John Joseph della WSSS, una ONG locale. “Il problema
è la combinazione tra la volatilità
dei prezzi de pepe, i crescenti costi di produzione e la riduzione dei
raccolti”, dichiara.
Un commercio rischioso
I prezzi del pepe sono tra i più fluttuanti,
secondo Aisha Schol, gestore di sostenibilità aziendale presso la
Fairfood International, un’organizzazione che ha sede in Olanda.
Dichiara: “I piccoli produttori di pepe si trovano in una situazione
davvero vulnerabile. Prima di tutto, coltivano solo pepe nei loro terreni,
quindi il crollo dei prezzi è come uno tsunami per loro. Perdono tutto.
Secondo, il suolo negli anni ha subito l’uso massivo di prodotti chimici,
dai fertilizzanti ai pesticidi. Le malattie e le perdite di raccolto
sono attualmente molto comuni. Di nuovo, possono perdere tutto.”
Nella lontana isola di Bangka nell’arcipelago
indonesiano, gli agricoltori di pepe bianco lottano con la fluttuazione
dei prezzi allo stesso modo dei loro colleghi indiani. L’isola di Bangka
è stata per decenni la più grande produttrice di pepe bianco del paese.
Diddihatono vive con suo figlio, sua
moglie e i rispettivi genitori in una casa del paese fatta di legno
e calcestruzzo. I sette membri della famiglia condividono i profitti
della loro piantagione di pepe.
“Non possiamo vivere della sola
produzione di pepe. Per questo io e mio fratello lavoriamo in una piantagione
di alberi della gomma fino a mezzogiorno prima di andare al nostro terreno.
Lo scorso hanno la semina del pepe non ha dato frutto, quindi siamo
andati avanti con i profitti della gomma per molto tempo”, dichiara
Diddihatono.
Diddihatono e Joserin raccolgono in
media dieci chili di gomma al giorno. Prendono 11.000 rupie al chilo,
quindi il loro stipendio quotidiano ammonta a 110.000 rupie, ovvero
quattro euro ciascuno. In un mese ognuno di loro guadagna poco più
del minimo salario stabilito dal Governo dell’isola di Bangka.
“Non si può
vivere in modo decente con un livello di salario minimo, non avendo
una famiglia”, afferma Koko Sadmoko. È un giornalista di Reuters
di Bangka ed ha redatto diversi rapporti sulla campagna. “E bisogna
ricordarsi che i prezzi del pepe e della gomma si sono abbassati negli
ultimi anni”, aggiunge.
La famiglia di Diddihatono può
permettersi un solo pasto al giorno. Si tratta sempre di verdure del
loro orto e di riso, che devono comprare. La carne – pesce locale
o pollo – è una rarità e limitata a una volta ogni due settimane.
Santila, la bellissima sorella ventiduenne di Diddihatono, è l’unica
ad aver avuto dei vestiti nuovi lo scorso anno.
Agricoltori vulnerabili
Gli agricoltori indonesiani non lottano
solo con i crolli dei prezzi e i fallimenti dei raccolti. Si trovano
anche in una situazione vulnerabile al momento di trattare con i raccoglitori
locali di pepe che comprano la spezia dai fattori e la vendono ai grandi
esportatori di Pankal Pinang, la capitale dell’isola di Bangka.
“Non mi posso permettere fertilizzanti
o pesticidi, ho solo 400 piante di pepe. Ma il mio
‘capo’ me li dà quando ne ho bisogno. Ci aiutiamo a vicenda”,
dice Silan, un agricoltore di 45 anni con un grande berretto rosso e
denti malati e gialli.
Il “capo” è un ricco fattore,
spesso un raccoglitore. Il termine è un’espressione letterale della
relazione asimmetrica tra i piccoli agricoltori e i raccoglitori, una
dipendenza in cui i primi non hanno molta voce in capitolo.
La coltivazione di pepe bianco di Bangka
ha bisogno di soldi. Fertilizzanti, sementi e paletti per permettere
alle piante di pepe di crescere sono necessari e costosi. Anche i pesticidi
sono cari. Nessun piccolo agricoltore se li può permettere, soprattutto
se le colture falliscono o i profitti del raccolto sono inferiori alle
previsioni.
I raccoglitori locali sono spesso anche
coloro che riforniscono gli agricoltori di prodotti chimici. Secondo
l’esperienza di Silan, può trattarsi di un favore. La dipendenza include
anche informazioni sui prezzi del pepe. I raccoglitori sono la unica
fonte di informazione sui livelli dei prezzi per la maggior parte dei
piccoli agricoltori.
“In queste zone isolate dell’Indonesia
non si trovano piccoli agricoltori ben informati”, afferma Caecilia
Widyastuti, un’esperta in agricoltura con base a Giacarta. “La
dipendenza dai raccoglitori di estende anche al commercio effettivo.
I coltivatori di pepe non hanno molta influenza a livello commerciale;
il loro potere contrattuale è molto povero e non sono affatto organizzati”,
aggiunge.
I raccoglitori a loro volta dipendono
dai prezzi che viene loro proposto dagli esportatori e non hanno molta
forza contrattuale. Toni Bakar, che lavora per uno dei più grandi esportatori
di pepe dell’isola di Bangka, C.V. Panen Baru, afferma: “Per molto
tempo, la nostra più grande sfida
è stata la pressione del mercato internazionale nella riduzione dei
prezzi del pepe. Noi la trasmettiamo ai nostri fornitori di pepe (i
raccoglitori) che ottengono un prezzo minore. La pressione continua
fino agli agricoltori”, spiega. La compagnia Panen Baru vende
pepe in tutto il mondo.
Il pepe dalle
“montagne del suicidio”
Molti dei famosi marchi di pepe con
base dei paesi occidentali ottengono pepe nero da Kerala e pepe bianco
da Bangka. Alcuni non sembrano impiegare alcuna politica di responsabilità
sociale d’impresa in relazione all’acquisto di pepe. Altri dichiarano
di essere impegnati in relazioni contrattuali di lungo periodo con gli
agricoltori che garantiscono un prezzo decente ai produttori. Una delle
compagnie più grandi dichiara che ha lavorato per anni in base a un
codice etico e che fa visita regolarmente ai fornitori. Aggiunge che
non ha notato difficoltà per i coltivatori di pepe.
Tuttavia, in Indonesia gli esportatori
locali ci dicono che i compratori internazionali difficilmente fanno
domande sulle condizioni sociali ed economiche degli agricoltori. Nella
regione montagnosa dell’India ci dicono lo stesso.
Raju è uno dei tanti intermediari
locali che possiede un negozio costipato di mucchi di pepe nero che
aspettano l’arrivo dei grandi camion per essere caricati nei sacchi
destinati agli esportatori di spezie.
“Non faccio affari con gli agricoltori.
Offro il prezzo di mercato. Dopo vendo agli esportatori in base a questo
prezzo. Sono un price taker come lo sono i coltivatori”, afferma
Raju. Non ha mai sentito parlare di grandi esportatori internazionali
che chiedono delle condizioni sociali o economiche degli agricoltori:
“Fanno solo domande sul prezzo e sulla qualità”, dichiara
Raju.
Il direttore della ONG WSSS, John Joseph,
conferma quest’immagine: “Durante gli anni dei suicidi i grandi
esportatori hanno visitato il distretto di Wayanad come sempre, ma non
hanno mai mostrato alcun interesse nell’appoggio dei nostri programmi
per aiutare le vittime o prevenire ulteriori morti. Ci hanno semplicemente
ignorato”, afferma.
In India, abbiamo parlato con Sibi
Thomas, vicepresidente della AVT McCormick, una joint venture
tra McCormick Inc., la più grande compagnia di spezie del mondo, e
la compagnia indiana AVT Group. AVT McCormick vende pepe nero a Santa
Maria ed è collegata al marchio inglese Schwartz.
“Abbiamo un codice di condotta
per i nostri fornitori e anche un sistema di verifica. In quanto alle
questioni sociali ed economiche, ci concentriamo soprattutto sul lavoro
minorile, le condizioni di lavoro, l’assicurazione mediche per i lavorati,
le disposizioni di legge da seguire”, afferma Sibi Thomas.
Ma le condizioni economiche e sociali
dei coltivatori di pepe non sono incluse. L’attenzione è incentrata
solo sui fornitori che trattano il prodotto. Se i fornitori sono solo
intermediari, il Codice di Condotta e il sistema di verifica non sembra
essere usato.
“Il pepe nero occupa solo pochi
gradini nella catena di distribuzione e i fornitori non trattano il
prodotto, quindi il nostro sistema di verifica non viene veramente applicato”,
dichiara Sibi Thomas. Tuttavia, AVT McCormick sostiene i programmi di
formazione.
Non c’è nulla che indichi che
AVT McCormick o le sue aziende siano coinvolte in azioni illecite o
negligenza.
Come
possono agire i consumatori?
“La grande domanda
è: se i prezzi continuano a fluttuare in linea con la domanda del mercato
internazionale, come garantire ai coltivatori un introito costante?
Come possono ottenere un prezzo del pepe decente?”, la domanda
viene posta da un esperto di agricoltura e di commercio equo-solidale,
Suraj Padmanabhan, che si risponde: “Una delle risposte potrebbe
essere: pepe equo-solidale”.
Esistono già alcune iniziative
di commercio equo-solidale. La Fairtrade Alliance Kerala è presieduta
dal direttore Tomy Matthews della compagnia Elements. “Abbiamo
creato la FTA Kerala nel 2005 a causa del crollo dei prezzi delle sementi,
dei debiti dei coltivatori e delle malattie delle piante. 3600 agricoltori
hanno ricevuto la certificazione di
commercio equo-solidale l’anno dopo”, dichiara Matthews.
“Nel 2010 il prezzo del pepe per
gli agricoltori si aggirava sulle 110-140 rupie (circa 2 euro) al chilo.
Abbiamo fissato il nostro prezzo minimo di Fairtrade a 175 rupie (circa
2,5 euro) al chilo. Ora i prezzi del pepe sono schizzati ben oltre del
prezzo di Fairtrade. Ma potrebbero crollare in ogni momento”,
aggiunge.
Ma nonostante la presenza di alcune
iniziative di commercio equo-solidale, queste non costituiscono la maggior
parte della produzione del distretto di Wayanad, secondo il dottor.
Anil Kunar della MSSRF: “Si potrebbe notare una richiesta di commercio
equo-solidale, ma gli esportatori vogliono comprare grandi quantità.
Non si disturbano a distinguere tra pepe normale e pepe equo-solidale.”
Nell’isola indonesiana di Bangka, abbiamo
chiesto a tutti coloro che abbiamo incontrato nel campo del pepe se
sapessero qualcosa di commercio equo-solidale. Nessuno ha mai sentito
parlare del concetto.
Tra le montagne del Wayanad, la esile
Neethu dai grandi occhi bruni non vuole lavorare in una cava come sua
madre. Vuole studiare e trovare un lavoro migliore. Lo stesso vale per
moltissimi figli di piccoli agricoltori.
Hanno bisogno di soldi per realizzare
i loro sogni, sia che provengano dai prestiti bancari dei loro genitori
o dalle entrate stabili delle loro piantagioni di pepe. Se cercano consiglio
nelle statistiche del mercato, una cosa è sicura: non possono sapere
con certezza se i prezzi saliranno o crolleranno, nemmeno di quanto.
Ma possono sapere per certo che saranno i primi e i più colpiti dalle
fluttuazioni.
DanWatch è un centro di ricerca danese che si occupa
di giornalismo investigativo sull’impatto delle grandi imprese sugli
umani e sull’ambiente in tutto il mondo
Fonte: Pepper: how our favourite spice is tainted by a deadly legacy
25.01.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ROBERTA PAPALEO