Pensare il nemico con Julien Freund

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Alain de Benoist non ha bisogno di presentazioni. Mi sembrano molto attuali le considerazioni finali sulla guerra “umanitaria”, che da tre decenni imperversa in Occidente… E non solo in senso militare: siamo costantemente mobilitati in guerre totali, che giustificano stati di emergenza permanenti, contro Nemici sempre nuovi (il terrorismo, il debito pubblico, il virus, la Russia, il cambiamento climatico ecc.). L’Autore non precisa se i fautori delle guerre giuste siano in buona fede, se credano veramente nei valori che proclamano di difendere (i Diritti umani, la Salute, la Libertà occidentale…). Salvo voler essere molto ingenui, è improbabile (se non altro perché costoro sono i primi a non praticarli…). È più realistico considerare queste proclamazioni come ideologie, narrazioni di comodo che mascherano progetti per arricchimenti personali, concentrazioni di capitali ecc. (immancabile effetto, guarda caso, delle politiche che si promuovono).

(Alceste de Ambris)

 

Alain de Benoist – Front Populaire – 07/06/2023

 

Definito oggi da Pierre-André Taguieff come “uno dei pochi pensatori politici che la Francia ha visto nascere nel XX secolo”, Julien Freund nacque il 9 gennaio 1921 nel villaggio di Henridorff nella regione della Mosella, da madre contadina e padre operaio socialista. Suo padre morì molto presto, e all’età di diciassette anni Julien divenne insegnante. Due anni dopo, nel luglio 1940, fu preso in ostaggio dai tedeschi, ma riuscì a passare in zona libera e a rifugiarsi a Clermont-Ferrand, dove si era ritirata l’Università di Strasburgo. Combattente nella resistenza dalla prima ora, dal gennaio 1941 militò prima nel movimento Liberation, fondato dal suo professore di filosofia, Jean Cavaillès e successivamente, mentre completava la laurea in filosofia, nei Groupes Francs de Combat, guidati da Jacques Renouvin e Henri Frenay. Arrestato e successivamente imprigionato a Clermont-Ferrand, Lione e Sisteron, nel 1944 riuiscì a fuggire e si unì nella Drôme ai partigiani FTP. Dopo la guerra, avendo fatto domanda per un posto di professore di filosofia, Freund insegna successivamente a Sarrebourg, Metz e Strasburgo. Nel 1960 diviene ricercatore senior al CNRS. Cinque anni dopo viene nominato professore di sociologia all’Università di Strasburgo, dove creerà diverse istituzioni, tra cui un Laboratorio di sociologia regionale e un Istituto di polemologia.

Ottenuto nel 1949 il ruolo di ‘professore aggregato’ in filosofia, Freund iniziò a lavorare alla sua tesi di dottorato, intitolata “L’essenza della politica“. Il suo relatore sarà Raymond Aron, mentre il filosofo Jean Hyppolite aveva preferito dissociarsi perché, da illuminista impegnato nell’idea di progresso, non poteva patrocinare un lavoro il cui autore affermava che “c’è politica solo dove c’è un nemico“. Il 26 giugno 1965, all’età di quarantaquattro anni, Freund discusse la sua tesi alla Sorbona, davanti a una giuria che comprendeva, oltre a Raymond Aron, i filosofi Paul Ricœur, Jean Hyppolite e Raymond Polin, nonché il germanista Pierre Grappin. Ricoœur dichiara di trovarla “geniale”, mentre Hyppolite non può che ribadire il suo sconcerto: “Se avete davvero ragione, non mi resta che coltivare il mio giardino!“. A cui Julien Freund risponde: “Come tutti i pacifisti, pensate di essere voi a designare il nemico. Ma è il nemico che designa voi. E se vuole che voi siate suo nemico, potete fargli le più belle proteste di amicizia: finché vuole che voi siate il nemico, lo siete. E vi impedirà persino di coltivare il vostro giardino”. Pubblicato lo stesso anno, L’essenza della politica rimane ancora oggi la sua opera principale.

 

Politica e impolitica

Prima di Julien Freund l’idea che “c’è politica solo dove c’è un nemico” era già stata sostenuta dal giurista tedesco Carl Schmitt, con il quale Freund mantenne un rapporto di grande amicizia dal 1959 fino alla sua morte. Il sociologo Georg Simmel aveva già osservato che i conflitti nascono dalla diversità delle aspirazioni e dei progetti umani, e dalle loro potenziali contraddizioni. La stessa idea si ritrova in Max Weber, secondo il quale la razionalizzazione non riuscirà mai a ridurre la proliferazione di punti di vista e opinioni (il “politeismo dei valori”). Clausewitz sosteneva che la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, suggerendo che la politica è intrinsecamente conflittuale.

Questo è anche il punto di vista di Carl Schmitt, cui si associa Julien Freund, per il quale l’essenza della politica sta non tanto nell’inimicizia quanto nella possibilità di una distinzione o discriminazione tra l’amico (pubblico) e il nemico (pubblico); non nella lotta, dunque, ma nella possibilità di una lotta. Teorico della decisione sovrana (“sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, NdT) e dell’ordine concreto, Carl Schmitt vede nella relazione amico-nemico un criterio che permette di identificare ciò che è politico e ciò che non lo è: per lui il politico è definito dalla possibilità di un conflitto, e ogni conflitto diventa esso stesso politico una volta raggiunto un certo grado di intensità. Rinunciare alla distinzione tra amico e nemico, dice Carl Schmitt in Il concetto di politica (1932), significherebbe cedere al miraggio di un “mondo senza politica”. Poiché la politica implica la conflittualità, una visione assolutamente pacificata della vita sociale è una visione impolitica.

Anche Julien Freund pensa che l’ordine sociale si basi su un equilibrio più o meno precario tra forze antagoniste, che spetta ai poteri pubblici cercare di regolare facendo uso della propria autorità. Il compromesso, che egli elogia in politica, non realizza la conciliazione degli opposti, perché mai uno dei due termini si lascia definitivamente assorbire o trascendere dall’altro, ma instaura tra forze antagoniste un equilibrio sempre provvisorio. È il carattere temporaneo di questo equilibrio che dà alla politica il suo aspetto tragico. Freund inoltre distingue la politica, attività variabile e circostanziale, e il politico, categoria concettualmente immutabile. La politica è sempre mutevole, ma il politico è sempre uguale a se stesso. Secondo la formula di Freund: “Se ci sono rivoluzioni politiche, non c’è rivoluzione nel politico”.

Dire che c’è un’essenza del politico equivale a dire che la politica è un’attività consustanziale all’esistenza umana, e che pertanto non è qualcosa da inventare. Ma significa anche che la politica non può essere eliminata, come forse speravano il marxismo e il liberalismo, uno vedendo in essa una mera alienazione (lo strumento di dominio di una classe sociale), l’altro concependola come un’attività irrazionale destinata ad essere soppiantata dalle leggi del mercato. Come Aristotele, Freund sostiene che l’uomo è per natura un essere politico e sociale. Lo stato politico non deriva quindi da uno stato precedente: contrariamente a quanto sostengono i teorici del contratto sociale, non è mai esistito uno “stato di natura” pre-politico o pre-sociale. Essendo intrinseca alla società, la politica non è il risultato di una convenzione.

Come ogni attività, la politica ha dei presupposti, cioè delle condizioni costitutive che rendono questa attività quella che è, e non qualcos’altro. Freund individua tre presupposti: il rapporto tra comando e obbedienza, il rapporto tra pubblico e privato, il rapporto tra amico e nemico. Ognuno di questi presupposti costituisce una coppia antagonista, il che fa immediatamente sorgere una dialettica. Formulando la sua teoria degli opposti a partire da Aristotele, Freund distingue la dialettica antitetica, che oppone due concetti contrari all’interno di uno stesso presupposto, e la dialettica antinomica, che oppone le essenze tra loro (la politica contrapposta all’economia, alla religione, alla morale, ecc.).

Per Freund, la storia è il risultato dei rapporti conflittuali tra le essenze e delle dialettiche che esse generano. Freund può quindi dare questa definizione canonica di politica:

È l’attività sociale che si propone di assicurare con la forza, generalmente fondata sul diritto, la sicurezza esterna e la concordia interna di una particolare unità politica, garantendo l’ordine in mezzo alle lotte che nascono dalla diversità e dalla divergenza di opinioni e interessi”. In quest’ottica, il bene comune è ciò che assicura e giustifica la coesione dei cittadini. Nel 1967, in Cos’è la politica? aggiunge: “Una collettività politica, che non è più una patria per i suoi membri, cessa di essere difesa, per cadere più o meno rapidamente sotto la dipendenza di un’altra unità politica. Dove non c’è patria, i mercenari o lo straniero diventano i padroni”.

 

Dalla ‘guerra regolata’ alla guerra discriminatoria

Polemologo, Julien Freund mostra inoltre che il pacifismo, lungi dall’essere realmente orientato alla pace, è al contrario profondamente ‘polemogeno’. Il pacifismo che, nello spirito del patto Briand-Kellog dell’agosto 1928, si pone l’obiettivo di eliminare la guerra, è inesorabilmente destinato a portarla contro coloro che non condividono il suo punto di vista. Max Scheler aveva previsto che una guerra condotta in nome della pace e dell’umanità sarebbe stata più disumana di tutte le altre. Quando il conflitto è visto come un male assoluto, la guerra contro la guerra in effetti non conosce più limiti.

Quest’idea si ritrova anche in Schmitt. Agli occhi di quest’ultimo, l’immenso merito dell’antico diritto delle genti (jus publicum europaeum) è stato quello di aver sostituito alla dottrina medievale della ‘guerra giusta’, di ispirazione morale, una dottrina politica della ‘guerra nelle forme’ o ‘guerra in forma’ (Vattel). Questa nuova dottrina è nata con l’emergere degli Stati nazionali. Tale evoluzione ha portato, in primo luogo, a riconoscere la personalità sovrana e l’uguale sovranità degli Stati e a porre poi l’accento non più sullo jus ad bellum (le condizioni che autorizzano la guerra), ma sullo jus in bello (le condizioni in cui la guerra deve svolgersi). Da allora, non è più la guerra ad essere accettata quando viene dichiarata giusta, ma è il nemico che diventa “giusto” nella misura in cui viene riconosciuto. La guerra tra gli Stati è quindi una guerra fondamentalmente simmetrica..

Della ‘guerra regolata’, caratteristica dell’ordine westfaliano fondato sullo jus publicum europaeum (che ha sostituito l’antica respublica christiana), Carl Schmitt dice che è una guerra in cui i belligeranti “si rispettano anche in guerra come nemici, senza discriminarsi a vicenda come criminali, in modo che la conclusione di una pace sia possibile e rimanga anzi l’esito normale e naturale della guerra”. Si stabilisce così una concezione politica dell’inimicizia. Il nemico, sottolinea Schmitt, deve essere guardato politicamente: deve rimanere un nemico politico, cioè un avversario che si combatte, certo, ma con il quale si potrà un giorno fare pace.

Nell’ottica dello jus publicum europaeum, la pace rimane chiaramente lo scopo della guerra: ogni guerra si conclude naturalmente con un trattato di pace. E poiché si può fare pace solo con il proprio nemico, ciò implica che i belligeranti si riconoscano a vicenda. Tale riconoscimento è la condizione stessa di possibilità di una pace, perché solo un belligerante che è stato precedentemente riconosciuto può essere invitato a concludere un trattato di pace. Ciò permette a Schmitt di affermare che una guerra assoluta, una guerra totale, sarebbe un disastro da un punto di vista strettamente politico, in quanto, mirando ad annientare il nemico, porterebbe allo stesso tempo alla scomparsa dell’elemento costitutivo della politica.

In epoca contemporanea, la “guerra regolata” ha lasciato il posto alla “guerra discriminatoria”, dove si assiste a una regressione dal concetto giuridico di justus hostis ad una interpretazione quasi teologica del nemico quasi. L’appropriazione ideologica del concetto di guerra e del principio di riconoscimento (o non riconoscimento) porta inevitabilmente a fare del nemico un criminale o un fuorilegge.

L’attuale teoria della guerra giusta, scrive Schmitt, mira […] a discriminare l’avversario in quanto [si sostiene che] conduce una guerra ingiusta. La guerra diventa essa stessa un crimine nell’accezione penale della parola. L’aggressore è dichiarato un criminale nel senso estremo che ha la parola nel diritto penale; è dichiarato ‘fuorilegge’, come il pirata”.

In una guerra del genere, il nemico diventa una figura del Male, un criminale che non deve solo essere sconfitto, ma giudicato, condannato e sradicato. La nozione di nemico giusto (justus hostis), di cui in linea di principio si ammetteva che potesse anche avere le sue ragioni, è sostituita da quella di giusta causa (justa causa), nozione eminentemente morale che fa della guerra uno scontro tra il Bene e il Male.

 

In nome dell’umanità, tutto è permesso

Poiché la guerra è stata condannata come qualcosa di eliminabile, le guerre sono state sempre più spesso travestite da operazioni di polizia internazionali, interventi “umanitari”, persino “guerre per porre fine alla guerra”. Allo stesso tempo, si sono ulteriormente cancellate le tradizionali distinzioni tra fronte e retrovie, combattenti e non combattenti, militari e civili. Questo processo culmina nella scomparsa del confine che separa la guerra e la pace. Le guerre non vengono più dichiarate e non terminano più con un trattato di pace. La guerra si prolunga nella rieducazione dei popoli e nei processi contro i capi nemici. Nel vecchio diritto delle genti, la sconfitta era considerata una “punizione” sufficiente. Ora bisogna processare nei tribunali coloro che vengono stigmatizzati come “responsabili” della guerra..

La continuazione indefinita della guerra, anche in tempo di pace, diventa un imperativo morale. La guerra totale, al contrario della guerra regolata, non conosce alcun tipo di limitazione. Il nemico non è più un avversario con cui ci si può riconciliare, ma una figura del Male che deve essere fatta sparire. Dire che il nemico è un criminale, come è stato detto di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi, o come si dice oggi di Vladimir Putin, è un modo per negargli ogni pretesa politica, per squalificarlo politicamente. Il criminale non può rivendicare un’opinione o un’idea, di cui sia necessario valutare il valore di verità o falsità; è un essere intrinsecamente dannoso. Quando si combatte in nome di ciò che vale assolutamente, colui che si combatte è svalutato assolutamente: è dichiarato un non-valore assoluto. Ecco perché le guerre in nome dell’umanità portano inevitabilmente a negare al nemico la sua qualità di essere umano: combattere in nome dell’umanità conduce necessariamente a porre i propri nemici al di fuori dall’umanità. E contro colui che è stato posto fuori dall’umanità, tutto è permesso.

La criminalizzazione del nemico cancella quindi le limitazioni (Hegungen) poste alla guerra dall’antico diritto pubblico europeo. È quanto osserva Carl Schmitt quando scrive:

Guerre di questo tipo si distinguono fatalmente per la loro violenza e disumanità per il motivo che, trascendendo il politico, è necessario che screditino anche il nemico secondo categorie morali e di altro tipo, per trasformarlo in un mostro disumano, che non basta respingere, ma che deve essere definitivamente annientato”.

Julien Freund, in tutta la sua opera, ricorda che la guerra, come la politica, fa parte della condizione umana. È legittimo voler impedire che scoppi, ma è irrealistico sperare di eliminarla. Guerra e pace sono in realtà concetti correlati, inseparabili. Pensare l’una implica saper pensare l’altra, perché “la politica porta con sé il conflitto, che può in casi estremi degenerare in guerra”. Ma la pace è anche lo scopo della guerra, cosa che dimenticano coloro che sognano, in nome di un ideale guerriero, una vita di ‘lotta perenne’. Tuttavia, non c’è guerra o pace che non sia provvisoria. La pace non è assenza di guerra, ma “equilibrio tra inimicizie”. La condizione per la pace è il riconoscimento del nemico: solo in due si può fare la pace. Rifiutare di negoziare con il vinto imponendogli puramente e semplicemente le condizioni del vincitore, equivale a non riconoscerlo come un interlocutore politico, ma a ritenerlo un colpevole. “La pace non è quindi l’abolizione del nemico, ma un accomodamento con lui.”

La pace che esclude il nemico si chiama ‘guerra’.

 

alain_de_benoistAlain de Benoist, ex militante nazionalista impegnato nella lotta per l’Algeria francese, è rimasto, dalla fine degli anni ’60, la figura di spicco della Nuova Destra, in particolare attraverso la rivista Elements. Fondatore inoltre, nel 1988, della rivista antiliberale Krisis, direttore dal 2003 della collana “Classici del pensiero politico” presso le edizioni L’Âge d’homme (Losanna), ha pubblicato quasi ottanta libri, l’ultimo dei quali per le Edizioni Krisis, The Man Who Had No Father: The Jesus File.

 

Link: https://frontpopulaire.fr/articles/penser-lennemi-avec-julien-freund_ma_22258043

Scelto e tradotto da Alceste de Ambris per ComeDonChisciotte

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