Di Adam Sedia, risingtidefoundation.net
L’“Ozymandias” di Percy Bysshe Shelley è una delle sue opere più brevi, ma anche una delle più conosciute, antologizzata fino all’ubiquità. Ma merita tutta la fama che si è guadagnata. Breve, ma potente e descrittivo, illustra il sonetto al suo meglio. Ed è una delle poche opere, classiche o moderniste, che affronta un argomento di quella pietra miliare dell’immaginario occidentale che è l’Antico Egitto.
Il sonetto, come qualsiasi altro, deve essere letto solo nella sua interezza prima di essere analizzato:
Ho incontrato un viaggiatore giunto da una terra antica,
che mi disse: “Due enormi gambe di pietra prive di tronco
si ergono nel deserto… Vicino ad esse sulla sabbia,
mezzo sepolto, un volto infranto giace, il cui cipiglio
e il corrugato labbro, e il ghigno di freddo comando
dicono che il suo scultore lesse bene quelle passioni
che ancora sopravvivono – impresse su questi oggetti senza vita –
alla mano che le raffigurò e all’anima che le nutrì.
E sopra il piedistallo compaiono queste parole:
Sono Ozymandias, il Re dei Re:
guardate alle mie opere, o potenti, e disperate!”
Null’altro rimane. Attorno al decadimento
di quel colossale relitto, sconfinato e nudo,
le sabbie solitarie e pianeggianti si estendono lontano.
Il contesto storico del poema è indispensabile per una corretta analisi. “Ozymandias” figura come re egiziano nelle cronache dello storico greco Diodoro di Sicilia del I secolo avanti Cristo. Si tratta di una corruzione grecizzata dell’egiziano Usermaatre-setepenre, il nome regale di Ramesse II, che regnò come faraone per 67 anni (1279-1213 a.C.) e fu di gran lunga il più grande costruttore di monumenti in pietra dell’Antico Egitto. I quattro colossi costruiti sulle pareti di roccia nubiane del tempio di Abu Simbel sono forse le sue rappresentazioni più famose e trasmettono la grandiosità di un monumento come quello descritto da Shelley nel suo poema.
Shelley pubblicò il poema nel 1818, tre anni dopo la caduta di Napoleone. L’Europa si stava ancora riprendendo dai vent’anni di guerra che egli aveva inflitto al continente e dalla sua opera di rimodellamento di nazioni che non erano cambiate dal Rinascimento. Ma Napoleone portò anche l’Antico Egitto ad una nuova ribalta nell’immaginario europeo. L’invasione dell’Egitto nel 1798 portò un esercito di studiosi francesi a studiare le sue antichità. Dal 1809 al 1818, essi pubblicarono la “Description de l’Égypte”, un catalogo in ventitré volumi del territorio e delle sue antiche rovine. Un altro studioso al seguito di Napoleone, Jean-François Champollion, decifrò con successo i geroglifici egiziani nel 1815. Quando Shelley scrisse il suo poema, Ramesse II e le sue opere stavano per essere scoperti come qualcosa di più dell’Ozymandias del resoconto confuso di Diodoro.
L’interpretazione convenzionale del poema è probabilmente nota quanto il poema stesso: Shelley critica il governo autoritario; nonostante tutte le sue grandiose affermazioni, il tiranno Ozymandias, proprio come Napoleone, è scomparso e dimenticato, i suoi colossi di pietra distrutti e abbandonati nel deserto solitario. Questa lettura è certamente valida. Shelley era un famoso critico dell’autoritarismo e la sua presa in giro dei grandiosi progetti dei monarchi assoluti non può sfuggire al lettore. Per quanto valida, tuttavia, questa interpretazione rimane solo una sfaccettatura di un’analisi molto più sottile e interessante del poema.
La rappresentazione di Shelley della desolazione è magistrale. Rende l’intera scena come un resoconto di seconda mano di un viaggiatore – né il lettore né lui hanno effettivamente visto la scena descritta – evidenziando la lontananza della rovina. Gli ultimi tre versi della poesia raggiungono un effetto di panoramica descrittiva, passando dall’iscrizione, al monumento in rovina, al deserto vuoto che si estende oltre la visione, riducendo implicitamente il grande monumento all’insignificanza.
Eppure, nonostante la rovina e la desolazione del monumento, il fatto rimane: il nome e l’immagine di Ozymandias sono noti e sulle labbra del narratore, e il viaggiatore è in grado di leggere e trasmettere il suo grandioso proclama tremila anni dopo in un altro continente. La tirannia di Ozymandias, quindi, non era stata del tutto futile se il suo comando aveva potuto raggiungere questa sorta di immortalità. Se il poema si limita a illustrare la futilità dei grandiosi progetti di un tiranno, fallisce, perché l’esistenza stessa del monumento smentisce questo punto. Shelley era troppo abile per produrre un poema con una simile lacuna. L’inadeguatezza deve risiedere nell’analisi.
La chiave di questo enigma si trova nella seconda quartina, ai versi da 5 a 8. Il ritratto di Ozymandias, il suo “cipiglio”, il “labbro rugoso” e il “ghigno di freddo comando … sopravvivono ancora, impressi” sulla pietra. Essi sono vivi grazie allo scultore, che “ha letto bene quelle passioni” e le ha “derise”. Il grande sovrano, Ozymandias, è noto al narratore solo grazie all’opera dello scultore, e solo la rappresentazione dello scultore trasmette qualcosa sull’uomo che si cela dietro il nome.
In effetti, il narratore presume che lo scultore si sia “preso gioco” del suo padrone, piuttosto che eseguire fedelmente un ritratto, perché la “fredda padronanza” nella rappresentazione sembra troppo perfettamente coerente con la grandiosità del monumento. I tratti sono quasi una caricatura. E il narratore può “dire che il suo scultore sapeva leggere bene quelle passioni”, perché anche lui conosce il tipo di “cuore” che comanda per l’autocelebrazione. Lo scultore vedeva in Ozymandias ciò che il narratore (e i lettori contemporanei) vedevano in Napoleone.
“Ozymandias”, quindi, è molto più che la futilità della tirannia. Si tratta, innanzitutto, del potere dell’arte. L’immortalità di Ozymandias dipende unicamente dall’artista che scolpisce il suo ritratto, e le decisioni che l’artista prende nell’esecuzione determinano il modo in cui il mondo vede il soggetto, e quindi controlla il suo destino. L’artista senza nome, quindi, è davvero più potente del monarca il cui nome è scolpito nella pietra.
Ma “Ozymandias” riguarda anche l’umanità condivisa che l’arte trasmette tra gli individui attraverso il tempo e lo spazio. Il narratore ha la presunzione di dichiarare di comprendere i pensieri di un artista senza nome e morto da tempo perché ha visto la stessa tirannia raffigurata nel suo tempo. Presume che l’artista abbia disdegnato e deriso quella tirannia perché vede nell’opera una fedeltà alla vita che può venire solo da un occhio critico. La verità si oppone alla propaganda e si trova più spesso nella derisione e nella caricatura che nei ritratti ufficiali.
Quanto significato è racchiuso in queste quattordici righe! Un maestro come Shelley sblocca il pieno potenziale del sonetto, mostrando la potenza e la versatilità della forma nel suo pieno splendore. “Ozymandias” rimane uno dei sonetti meglio realizzati, tanto per la sua vivida descrizione quanto per l’ampiezza e la profondità del suo significato.
Di Adam Sedia, risingtidefoundation.net
Adam Sedia (classe 1984) vive nel suo paese natale, l’Indiana, dove esercita la professione di avvocato specializzato in controversie civili e d’appello. Le sue poesie sono apparse in pubblicazioni cartacee e online e ha pubblicato due volumi di poesia: L’autunno della primavera (2013) e Inquietudine (2016). Compone anche musica, che può essere ascoltata sul suo canale YouTube. Vive con sua moglie, Ivana, e il loro figlio.
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Fonte:
Traduzione di Costantino Ceoldo