In difesa di Re Artù

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Di Gerald Therrien (alias: Uno yankee canadese alla corte di Re Artù)

risingtidefoundation.net

Osservando il declino e la caduta dell’attuale impero nordatlantico, sembrano esserci molti esiti possibili. Un risultato possibile è la completa distruzione della cultura nordatlantica, mentre un’altra possibilità è la correzione di questa cultura nordatlantica che le permetterà di cooperare con il resto dei popoli di questo pianeta per il loro bene comune. Anche se a scuola ci hanno insegnato che tra i britannici c’erano (e ci sono) molti bravi inglesi, scozzesi, gallesi e irlandesi, la parola “britannico” ha sempre avuto un cattivo sapore, perché ci ricordava l’“Impero britannico”. Mi sono spesso chiesto quale parte della nostra eredità culturale dovesse essere soppressa per far sì che noi, nordatlantici, accettassimo questa forma moderna di impero “britannico”, e anche se ci fosse una buona storia della Gran Bretagna, prima degli invasori barbari anglosassoni e degli usurpatori feudali normanni. E ho pensato che per rispondere a questa domanda, forse dobbiamo guardare alla storia (o al mito) di Re Artù. Ma prima di discutere se la storia di Re Artù sia o meno un mito, dovremmo prima esaminare l’idea di mito in generale.

Parte 1 – Su un’idea di mito

Il mito di Platone delle ombre sulla parete della caverna

Dopo aver ascoltato le tre meravigliose lezioni di Cynthia Chung su C.S. Lewis [parte 1 – Out of the Silent Planet; parte 2 – Perelandra; e soprattutto parte 3 – That Hideous Strength], la questione dei “miti” mi è rimasta in sospeso. Tuttavia, dopo alcune discussioni fruttuose (di prima mattina) con alcuni amici, è emerso un potenziale approccio ai “miti”: forse ci sono due tipi diversi di miti.

All’inizio mi è venuta in mente la differenza che ho tra Omero e Virgilio. Quando leggo l ‘“Eneide” di Virgilio, mi sembra che si tratti di una guerra tra gli dei, che determina il destino di Enea. Ma nell’Odissea di Omero sembra che, sebbene gli dèi influenzino il corso degli eventi, Odisseo debba comunque determinare o cambiare la sua intenzione che deciderà il suo destino. Ho riscontrato questa stessa differenza quando ho pensato ai miti.

Alcuni miti stimolano la nostra immaginazione con nuove e favolose intuizioni ed emozioni, mentre altri miti stimolano la nostra immaginazione con immagini e sfide fantastiche, a volte utilizzando presagi, profezie e misteri. Ma non tutti i miti sono uguali, perché quelli migliori contengono un accenno al sentimento morale dell’uomo.

Questo sentimento morale può essere come una bussola, che ci guida nella direzione della ragione, o dello scopo, o del “perché” delle nostre intenzioni, e alimenta la nostra immaginazione innocente con una fede, o fiducia, o confidenza nella bellezza, nella bontà e nella verità.

Senza questa fiducia nella nostra bussola morale, ci rimane un altro tipo di intenzione dei miti, che usa simboli e superstizioni, magia e misticismo, per stimolare i nostri sensi con qualcosa che è semplicemente strano o insolito o nuovo, che usa la tecnica invece dell’arte e che mira a trovare ciò che è più potente, non ciò che è migliore. E questo può lasciarci con un senso di disagio o di mancanza di fiducia nell’esistenza di uno scopo morale superiore.

Ma poi ho ascoltato una meravigliosa presentazione di Nick e Julia, “Danzare o non danzare, questa è la domanda”, e a Nick è stata posta una domanda sulla fiducia nella danza classica (ma se ci penso ora, la sua risposta riguarda in realtà la vita), e ha detto che la base della fiducia è la “stima”.

In seguito, ho pensato a questa idea di stima e alla sua relazione con l’idea di mito. Se pensassimo di voler accrescere la fiducia culturale della nostra popolazione, allora vorremmo aumentare la “stima” della nostra popolazione, sia la nostra autostima che la stima per il prossimo. E allora potremmo usare un mito per ritrarre il nostro “eroe” o la nostra “eroina” come qualcuno che dovrebbe essere stimato, grazie al suo buon carattere. E potremmo anche usare un mito tragico per rappresentare coloro che non dovremmo stimare, a causa del loro cattivo carattere.

Quindi, credo che nel tentativo di scoprire ulteriormente l’uso dei miti nelle nostre opere d’arte, dovremmo seguire il consiglio di C.S. Lewis. Nell’“Ultima battaglia” di Lewis, dove si dice che Narnia era solo un’ombra o una copia di qualcosa nel mondo reale, Lord Digory dice: “È tutto in Platone, tutto in Platone: benedetto, cosa insegnano loro in queste scuole!”.

Ci troviamo quindi a percorrere una strada già esplorata da Platone – per quanto riguarda l’ammissione o meno dei poeti nella nostra repubblica – dove nel libro 7 della sua “Repubblica”, Socrate ci presenta il suo mito – la favola delle ombre sulla parete della caverna (le citazioni che seguono sono tratte dalla “Repubblica” di Platone, traduzione di C.D.C. Reeve).

“Immaginate che gli esseri umani vivano in una dimora sotterranea, simile a una caverna, con un ingresso molto in alto, aperto alla luce e largo quanto la caverna stessa. Sono lì fin dall’infanzia, con il collo e le gambe legati, in modo da essere fissi nello stesso posto e poter vedere solo davanti a loro, perché la pastoia impedisce loro di girare la testa. La luce è fornita da un fuoco che arde molto al di sopra e alle spalle. Tra i prigionieri e il fuoco si estende una strada sopraelevata. Immaginate che lungo questa strada sia stato costruito un muretto – come lo schermo che i burattinai mettono davanti alle persone e sopra il quale mostrano le loro marionette…

Immaginate anche che accanto al muro ci siano persone che trasportano numerosi manufatti che sporgono sopra di esso: statue di persone e di altri animali, fatte di pietra, di legno e di ogni altro materiale…

Tutto sommato, quindi, ciò che i prigionieri prenderebbero per vera realtà non è altro che l’ombra di quegli artefatti…

Considerate, quindi, come sarebbe liberarsi dai loro legami e guarire dalla loro follia…

Cosa pensi che direbbe se gli dicessimo che ciò che aveva visto prima era una sciocchezza…”.

Socrate immagina poi un uomo che viene liberato, ma che a causa del dolore – per essersi liberato dalle catene e per aver guardato la luce – rimane perplesso e torna alle ombre che era in grado di vedere prima; e deve essere trascinato verso la luce finché non si abitua lentamente a vedere le cose alla luce del sole, e non come ombre.

 

“E se tra loro ci fossero stati onori, elogi o premi per colui che fosse stato più acuto nell’identificare le ombre al loro passaggio, e che fosse stato in grado di ricordare quali fossero arrivate prima, quali dopo e quali contemporaneamente, e che fosse stato in grado di profetizzare il futuro, pensate che il nostro uomo avrebbe desiderato questi premi o avrebbe invidiato coloro che tra i prigionieri erano onorati e detenevano il potere? O pensi che sentirebbe con Omero che preferirebbe passare attraverso qualsiasi sofferenza, piuttosto che condividere le loro credenze e vivere come loro?”

 

Socrate immagina allora che quest’uomo sia sceso di nuovo nella caverna, allontanandosi dalla luce del sole ed entrando nell’oscurità della caverna, e che si sia seduto al suo stesso posto di prima.

 

“Ora, se dovesse competere ancora una volta con i prigionieri perpetui nel riconoscere le ombre, mentre la sua vista è ancora debole e prima che i suoi occhi si siano ristabiliti, e se il tempo necessario per riadattarsi non fosse breve, non provocherebbe il ridicolo? Non si direbbe di lui che è tornato dal suo viaggio verso l’alto con gli occhi rovinati e che non vale la pena nemmeno di provare a viaggiare verso l’alto? E se qualcuno cercasse di liberare i prigionieri e di condurli verso l’alto, se riuscissero a mettergli le mani addosso, non lo ucciderebbero?”

Ora, sembra che invece di avere due tipi di miti, abbiamo due tipi di creatori di miti: uno, come il lodatissimo “prigioniero perpetuo” che predice il futuro interpretando le ombre sulla parete, e l’altro, come il ridicolizzato “prigioniero evaso” che torna alla caverna cercando di raccontare agli altri il mondo alla luce del sole che ha visto.

E se non credo che dovremmo bandire tutti i miti, non credo nemmeno che dovremmo bandire tutti i creatori di miti, così come non dovremmo bandire tutti i poeti nella nostra Repubblica. Perché sta a noi incoraggiare quei poeti e quei creatori di miti la cui intenzione era quella di fungere da trampolino di lancio per renderci persone migliori, e scoraggiare quei poeti e quei creatori di miti la cui intenzione non era quella di renderci persone migliori, ma erano semplicemente fantasie sull’ego o sulla vendetta o sull’arroganza o sul narcisismo.

Tenendo presente tutto questo, forse ora possiamo vedere quale tipo di poeta o creatore di miti ci sta raccontando la storia di Re Artù.

 

Parte 2 – La storia maligna e falsa di Edward Gibbon

Edward Gibbon

 

Secondo Xi Jinping, per sopravvivere una nazione, una società o una cultura deve progredire nella scienza e nella tecnologia e soprattutto nelle arti. Perché il progresso nelle arti può dare ai membri di quella società una fiducia o un orgoglio nella propria cultura, che si chiama “fiducia culturale” [1].

 

“Fiducia culturale” significa avere una ‘bussola morale’ che può essere usata per misurare un’idea. Ma alcuni dicono che non si può misurare un’idea. Beh, no, non si può misurare ‘fisicamente’ la dimensione, la forma o il peso di un’idea, ma si può misurare la sua ‘direzionalità’: se un’idea può essere buona o cattiva. E quindi avere una “bussola morale” per misurare la “direzionalità” di un’idea ci dà una “sicurezza culturale”.

Ma a noi, in Occidente, è stata propinata questa totale assurdità chiamata “fine della storia”, che non dobbiamo ricordare il nostro passato – lasciatelo perdere, non è importante, è irrilevante; che non dobbiamo preoccuparci del futuro – lasciate che se ne occupino i tecnocrati e i loro robot AI; dobbiamo pensare solo al presente – il nostro presente “sveglio”, “transumanista”, e assecondare il nostro futuro “predeterminato” – con droghe e videogiochi per non annoiarci troppo.

Il Presidente Xi ci indica un modo di pensare opposto: che dovremmo avere a cuore e imparare dal nostro passato (buono e cattivo) e che dovremmo interrogarci e sognare il bene che la nostra cultura potrebbe fare nel nostro futuro, in modo da avere una “fiducia culturale” – una fiducia o un orgoglio nei contributi positivi della nostra cultura, che possiamo usare per vivere e lavorare meglio e contribuire al bene comune nel presente. Ed è proprio la nostra fiducia culturale che oggi è sotto attacco, da parte dei gestori nordatlantici della nostra narrazione culturale.

E così come dovremmo difendere militarmente l’indipendenza della nostra nazione, dovremmo anche difenderla culturalmente. Il presidente Xi dice che questa dovrebbe essere una delle missioni dei nostri artisti, dei nostri musicisti, dei nostri ballerini e dei nostri poeti. E anche i nostri storici, aggiungerei. Perché sono i nostri narratori che possono aiutarci a rafforzare la nostra “fiducia culturale” e a cercare di riconquistare quella fiducia di cui avremo bisogno per i nostri viaggi nel futuro.

Per questo ho pensato che sarebbe stata una buona idea andare indietro nella nostra storia culturale e dare un’occhiata alla storia di Re Artù e a chi era veramente, ma anche a come questa storia è stata cambiata e romanzata per indebolire la nostra fiducia culturale.

Per prima cosa, analizziamo l’interpretazione della storia di Re Artù da parte dello storico dell’Impero Romano Edward Gibbon.

Tra il 1776 e il 1789 fu pubblicata la “Storia del declino e della caduta dell’Impero romano” di Edward Gibbon, un’opera imponente in sei volumi di 71 capitoli e quasi 2500 pagine: un libro molto grande. E a volte le persone scrivono questi libri enormi quando l’idea reale potrebbe essere detta in una frase o due, ma scrivono questi enormi tomi per intimidirci a non mettere in dubbio la loro accuratezza e verità, come a dire che ovviamente questo autore deve sapere di cosa sta parlando, dato che ha scritto così tanto sull’argomento, ma… forse è tutta una facciata – forse è tutto un gran rumore per nulla.

Cercando tra i capitoli, ne ho trovato solo uno, il 38, che conteneva 10 pagine sulla storia della Britannia dopo la partenza delle legioni romane, e che conteneva solo una pagina – appena 13 frasi su Re Artù. E quella singola pagina non raccontava nulla degli eventi storici, ma era una storiografia diffamatoria e non molto ben studiata su Artù. E mi fa pensare che l’intero libro, eccessivamente pubblicizzato e troppo impegnativo, sia di fattura altrettanto scadente. Quindi, vi consiglio di non mettere questo libro nella vostra lista dei libri da leggere. La vita è troppo breve. Ad ogni modo, volevo ripercorrere l’attacco di Gibbon ad Artù e cercare di evidenziare i suoi pregiudizi (le seguenti citazioni sono tratte dal capitolo 38 di “Storia del declino e della caduta dell’Impero romano” di Edward Gibbon).

 

“Ma ogni nome britannico è cancellato dal nome illustre di Artù, principe ereditario dei Siluri, nel Galles meridionale, e re elettivo o generale della nazione”.

La storia di Artù non aveva lo scopo di “cancellare” qualcuno, ma di fornirci l’idea di un “eroe” – qualcuno a cui dovremmo cercare di assomigliare, per il suo buon carattere o perché ha compiuto qualcosa di buono. Era “illustre”, sì, ma non era un dio, era solo un eroe. Gibbon dice giustamente che Artù era un leader “elettivo”, indicando che il popolo riconosceva in lui qualcosa che lo faceva “scegliere” di seguire la sua guida.

 

“Secondo il racconto più razionale, egli sconfisse, in dodici battaglie successive, gli Angli del Nord e i Sassoni dell’Ovest; ma l’età declinante dell’eroe fu funestata dall’ingratitudine popolare e dalle disgrazie domestiche”.

 

Quale sia il “resoconto più razionale”, Gibbon non lo dice, quindi dobbiamo fidarci della sua parola (ha molte parole). Ma “amareggiato dall’ingratitudine popolare e dalle disgrazie domestiche” sembra contraddire la frase precedente, secondo cui egli era un leader “elettivo”, cioè godeva del sostegno popolare. Perché il popolo si sarebbe rivoltato contro di lui? La sua “età declinante”? Ma regnò solo per poco tempo prima di morire. Forse è Gibbon ad essere amareggiato.

 

“Gli eventi della sua vita sono meno interessanti delle singolari rivoluzioni della sua fama”.

 

Gibbon sta dicendo che la storia della vita di Artù non è molto interessante, ma lo sono di più i cambiamenti nel modo in cui viene visto. Quindi, non sta studiando la storia di Artù, ma sta studiando le percezioni successive di lui.

 

“Per un periodo di cinquecento anni la tradizione delle sue imprese fu conservata, e grossolanamente abbellita, dagli oscuri bardi del Galles e dell’Armorica, odiosi ai Sassoni e sconosciuti al resto dell’umanità”.

In qualche modo, anche se Gibbon non pensava che la storia di Artù fosse abbastanza “interessante” da essere raccontata, sapeva che questa storia era “maledettamente abbellita” – non sono ammesse prove o discussioni per contraddire la sua affermazione. Inoltre, questa storia è stata raccontata da alcuni “oscuri bardi” che erano “odiosi”, “sconosciuti” e (Dio non voglia) gallesi! Gibbon sembra preoccuparsi del fatto che una persona sia considerata accettabile e gradevole, non della veridicità della storia.

 

“L’orgoglio e la curiosità dei conquistatori normanni li spinsero a indagare sull’antica storia della Britannia; ascoltarono con affettuosa credulità la storia di Artù e applaudirono con entusiasmo il merito di un principe che aveva trionfato sui Sassoni, loro comuni nemici”.

Quindi, dimenticati questi perdenti del Galles, abbiamo i Normanni (che invasero la Britannia nel 1066), che hanno “orgoglio e curiosità”, e che furono tentati con “affettuosa credulità” di ascoltare questa storia di Artù, solo perché entrambi erano contro i Sassoni (cioè il nemico del mio nemico è mio alleato?!?). Tuttavia… non è venuto in mente a Gibbon (o forse sì, ma lui ha voluto ignorarlo) che quegli “oscuri bardi” hanno fatto rivivere questa storia della lotta di Artù contro i Sassoni occupanti per confrontarla con la lotta dei Britanni in quel periodo contro i Normanni occupanti?

“Il suo romanzo, trascritto nel latino di Jeffrey di Monmouth e successivamente tradotto nell’idioma alla moda del tempo, fu arricchito con i vari ornamenti, anche se incoerenti, che erano familiari all’esperienza, alla cultura o alla fantasia del XII secolo”.

Gibbon ora dice che la storia di Artù non è storia, ma è semplicemente un “romanzo”. Ma Geoffrey di Monmouth non scrisse un “romanzo” di Artù: stava cercando di scrivere una storia dei re di Britannia, dal tempo del primo re, Bruto (il nipote di Enea di Troia), all’ultimo re, Cadwaladr, prima della conquista normanna. La storia di Geoffrey fu tradotta in francese normanno – che Gibbon chiama “l’idioma alla moda del tempo”, e sembra che i normanni “arricchirono con… ornamenti incoerenti” che erano la “fantasia” di quel tempo. Gibbon sembra avere una “fantasia” per i conquistatori normanni “alla moda”.

 

“Il progresso di una colonia frigia, dal Tevere al Tamigi, si innestava facilmente nella favola dell’Eneide; e gli antenati reali di Artù traevano la loro origine da Troia e rivendicavano la loro alleanza con i Cesari”.

 

Gibbon sta dicendo che la storia di Artù è solo un racconto che è stato aggiunto alla favola di Virgilio su Enea e la fondazione di Roma, e che ha cercato di alleare la Britannia con l’Impero Romano. Ma Geoffrey dice che Artù andò in Gallia (Francia) per combattere i Romani! Da che parte sta Gibbon: dai Britanni o dai Romani?

 

“I suoi trofei erano decorati con province prigioniere e titoli imperiali; e le sue vittorie danesi vendicavano le recenti ferite del suo Paese”.

Gibbon sostiene che le battaglie di Artù erano per disegni imperiali o per vendetta, ma Geoffrey dice che Artù liberò questi Paesi dall’impero, e questi Paesi si unirono poi volentieri a lui in battaglia contro l’imperatore romano.

 

“La galanteria e la superstizione dell’eroe britannico, le sue feste e i suoi tornei, e la memorabile istituzione dei suoi Cavalieri della Tavola Rotonda, sono stati copiati fedelmente dalle maniere cavalleresche regnanti; e le favolose imprese del figlio di Uther appaiono meno incredibili delle avventure che furono realizzate dall’intraprendente valore dei Normanni”.

Gibbon utilizza ora i racconti “romantici” normanni su Artù per denigrarlo e dimostrare che era meno “intraprendente” e meno “valoroso” dei Normanni.

“Il pellegrinaggio e le guerre sante introdussero in Europa gli speciosi miracoli della magia araba. Fate e giganti, draghi volanti e palazzi incantati si mescolarono alle più semplici finzioni dell’Occidente; e il destino della Britannia dipendeva dall’arte, o dalle predizioni, di Merlino”.

Gibbon sta insinuando che i cavalieri delle crociate portarono con sé storie di “magia araba” che furono poi trasfuse nella versione normanna di Merlino, e che questa magia determinò il “destino” della Britannia, non di Artù.

 

Ogni nazione abbracciava e adornava il romanzo popolare di Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda: i loro nomi erano celebrati in Grecia e in Italia; e i voluminosi racconti di Sir Lancillotto e Sir Tristram erano studiati con devozione dai principi e dai nobili che ignoravano i veri eroi e gli storici dell’antichità”.

Questo romanzo normanno era studiato e celebrato da tutti, dice Gibbon, così che i “genuini eroi e storici dell’antichità” erano trascurati. E così, egli mostra (inavvertitamente) come la Gran Bretagna possa perdere la sua fiducia culturale.

Alla fine la luce della scienza e della ragione si è riaccesa; il talismano è stato spezzato; il tessuto visionario si è dissolto nell’aria; e per un naturale, sebbene ingiusto, rovescio dell’opinione pubblica, la severità dell’età presente è incline a mettere in dubbio l’esistenza di Artù”.

E ora, sostiene Gibbon, “la luce della scienza e della ragione” ci porta “a mettere in dubbio l’esistenza di Artù”. Ma Gibbon non ci ha fornito alcuna spiegazione scientifica o ragionevole per arrivare a questa affermazione – con solo il peso morto delle sue 2500 pagine accatastate come garanzia. Ma perché Gibbon è così filo-romano e filo-normanno, così anti-britannico e così anti-Artù? Per essere onesti, avrebbe dovuto almeno dichiarare le sue reali intenzioni.

E così, sembra che il signor Gibbon sia solo un acclamato interprete delle ombre, per il divertimento dei “prigionieri perpetui” nella caverna.

Forse, dovremmo cercare di trovare un “prigioniero evaso” che possa raccontarci la vera storia di Re Artù.

 

Parte 3 – C’è stato un Re Artù?

Historia Regum Brittaniae

 

Alcuni storici sostengono che Artù sia stato un re storico vero e proprio, mentre altri sostengono che fosse una persona fittizia. Ma senza dubbio tutte queste affermazioni si basano in qualche modo su un libro chiamato “Storia dei Re di Britannia”, scritto nella prima metà dell’undicesimo secolo da un insegnante e chierico gallese di nome Geoffrey di Monmouth. John Milton, pochi anni dopo aver scritto “Paradise Lost”, scrisse la sua “Storia della Britannia” e, a metà del Libro III, si ferma improvvisamente e passa le quattro pagine successive a discutere dell’esistenza di Artù, poiché alcuni autori antichi non avevano parlato di Artù, tranne uno: Geoffrey di Monmouth. Milton scrive:

 

“Ma chi fosse Artù, e se mai una persona del genere abbia regnato in Britannia, è stato messo in dubbio in precedenza, e potrebbe esserlo ancora a ragione”.

 

“… da un libro britannico, lo stesso che Monmouth pubblicò, del tutto sconosciuto al mondo, fino a più di seicento anni dopo i giorni di Artù, di cui… tutte le altre storie tacevano, sia straniere che nazionali, tranne quel favoloso libro”.

 

Per quanto riguarda il modo in cui Geoffrey è entrato in possesso di questa “favolosa” storia dei re di Britannia, nella “Dedica” della sua “Storia dei re di Britannia” scrive che, in primo luogo, si è servito di racconti orali tradizionali e, in secondo luogo, di un libro che gli era stato dato da Walter, l’arcidiacono di Oxford, per tradurlo in latino dall’originale britannico (le citazioni sono tratte dalla “Storia dei re di Britannia”, di Geoffrey di Monmouth, tradotta da Lewis Thorpe):

 

“Per di più, queste gesta sono state tramandate con gioia nella tradizione orale, proprio come se fossero state messe per iscritto, da molti popoli che potevano contare solo sulla loro memoria.

 

In un periodo in cui prestavo molta attenzione a tali questioni, Walter, arcidiacono di Oxford, un uomo abile nell’arte di parlare in pubblico e ben informato sulla storia dei Paesi stranieri, mi presentò unlibro molto antico scritto in lingua inglese. Questo libro, composto in modo attraente per formare una narrazione consecutiva e ordinata, espone tutte le gesta di questi uomini, da Bruto, il primo re dei Britanni, fino a Cadwallader, il figlio di Cadwallo. Su richiesta di Walter mi sono preso la briga di tradurre il libro in latino…”.

 

Molto probabilmente questo “libro antico” era la “Cronaca” scritta da San Tysilio, un principe e abate gallese delVII secolo. Mi sembra che le “Cronache” inizino con Bruto, il primo re di Britannia, ma si concludano con Cadwallader, l’ultimo re di Britannia, perché Tysilio morì più o meno nello stesso periodo della fine del regno di Cadwallader, nel VII secolo. Geoffrey racconta una storia meravigliosa del pronipote di Enea, Bruto, che navigò verso la Britannia (che prese il nome da Bruto) e fondò Nuova Troia (l’attuale Londra).

 

“A quel tempo l’isola di Britannia si chiamava Albione. Era disabitata, tranne che per alcuni giganti”.

 

Poi racconta la storia dei leggendari re dei Britanni (tra cui Lear e Cimbelino) che seguirono Bruto, fino all’invasione e all’occupazione romana e, successivamente, all’invasione e all’occupazione dei Sassoni, fino all’ultimo re della Britannia, Cadwallader. E durante questo periodo di battaglie contro i Sassoni, Geoffrey racconta la storia di Re Artù, che unificò i Britanni contro i numerosi invasori, e contro il ritorno ad essere subalterni al temuto Impero Romano!!! Ma la storia di Artù di Geoffrey non deve essere confusa con le storie di Artù inventate e fabbricate in seguito, quando, all’epoca delle Crociate, la storia di Artù e dei suoi cavalieri fu trasformata, da personaggi come Robert Wace e Chretien de Troyes, in un romanzo cavalleresco. Geoffrey scrisse la sua “Storia” intorno all’anno 1136 d.C., durante il regno dei re normanni, che avevano invaso e occupato la Britannia sotto Guglielmo di Normandia nel 1066, e poco prima dell’inizio della guerra civile tra questi governanti normanni della Britannia, nota come “Anarchia”, che avrebbe portato i Plantageneti sul trono della Britannia. Geoffrey di Monmouth morì intorno al 1155, pochi anni prima che Enrico II Plantageneto diventasse re di Britannia; Enrico era anche diventato re della metà occidentale della Francia, con il matrimonio con Eleonora d’Aquitania nel 1152.

 

Eleonora era stata sposata con il re di Francia Luigi VII Capeto, ma quando il loro matrimonio fu annullato, si risposò con Enrico II – meno di due mesi dopo l’annullamento del matrimonio con Luigi VII!!!

 

Eleonora avrebbe sponsorizzato un ecclesiastico normanno, Robert Wace, e intorno al 1155, all’epoca della morte di Geoffrey, Wace scrisse il suo “Roman de Brut”, un romanzo delle “Cronache”, che cerca di imitare la “Storia” di Geoffrey, ma che inizia a portare una versione “romantica” di Artù e della Tavola Rotonda. In seguito Wace scrisse un “Roman de Rou”, un romanzo sulla storia dei re normanni, dal primo re vichingo Rollo, a Guglielmo il Conquistatore e alla “gloriosa” conquista normanna della Britannia. La figlia di Eleonora, Marie, divenne la protettrice di Chretien de Troyes, che poco dopo iniziò a scrivere i suoi romanzi della Tavola Rotonda, per favorire la conquista normanna della Britannia.

 

Forse Geoffrey vide l’imminente guerra civile tra i Normanni e raccontò la storia del grande Re Artù, in modo che un giorno forse la guerra civile e l’“anarchia” sarebbero finite, e forse l’occupazione normanna sarebbe finita, e forse questa storia avrebbe potuto essere usata per restituire l’indipendenza della Britannia. Ma perché Geoffrey scrisse la sua “Storia”? Per questo, possiamo leggere la ragione che egli scrisse nella sua “Dedica ‘: che le gesta di questi primi re – questi re da prima della sottomissione da parte dell’Impero Romano, fino ai re prima della sottomissione da parte dei Sassoni, e le loro battaglie per l’indipendenza da entrambi – meritavano di essere raccontate e di essere lodate ’per tutti i tempi”! Geoffrey scrive:

 

“Ogni volta che mi è capitato di pensare alla storia dei re di Britannia, in quelle occasioni in cui mi sono rigirato nella mente un gran numero di argomenti di questo tipo, mi è sembrata una cosa notevole che, a parte le menzioni che Gildas e Beda avevano fatto ciascuno in un brillante libro sull’argomento, non sono riuscito a scoprire nulla sui re che vissero qui prima dell’incarnazione di Cristo, o addirittura su Artù e tutti gli altri che seguirono dopo l’incarnazione. Eppure le gesta di questi uomini sono state tali da meritare di essere lodate per tutti i tempi”.

 

“Su richiesta di Walter mi sono preso la briga di tradurre il libro in latino, anche se, in realtà, mi sono accontentato delle mie espressioni e del mio stile casalingo e non ho raccolto fiori sgargianti nei giardini di altri uomini. Se avessi adornato la mia pagina con figure retoriche altisonanti, avrei annoiato i miei lettori, perché sarebbero stati costretti a passare più tempo a scoprire il significato delle mie parole che a seguire la storia”.

 

Geoffrey tradusse le “Cronache” di Tysilio senza “i fiori sgargianti dei discorsi nei giardini di altri uomini”, e lo fece nel suo stile originale e diretto, e lo scrisse come un racconto storico e non come una storia d’amore cavalleresca. Geoffrey cercava di scrivere questa storia come se fosse un “prigioniero in fuga”, non come un “prigioniero perpetuo” (come Gibbon).

 

Ma prima di leggere la sua storia su Re Artù, forse dovremmo leggere la sua storia su Merlino.

Parte 4 – La storia di Merlino

La nostra storia inizia verso la fine delIV secolo d.C., quando l’Impero Romano si apprestava a ritirare le proprie legioni dalla Britannia per andare a combattere altrove nel continente europeo, e tutti gli uomini in età militare vennero chiamati a raccolta a Londra, dove vennero indirizzati da Guithelinus, l’arcivescovo di Londra:

 

“Sono molto rattristato dallo stato di privazione e di abiezione in cui vi trovate da quando [l’imperatore romano] Massimiano ha spogliato questo regno di tutto il suo esercito e di tutti i suoi giovani. Siete solo gli ultimi resti rimasti, gente comune, ignorante delle vie della guerra, uomini che erano occupati in altre faccende: alcuni a coltivare i loro campi, per esempio, altri nei vari espedienti della vita commerciale. Quando uomini ostili di altre nazioni vennero ad attaccarvi, vi costrinsero ad abbandonare i vostri ovili, proprio come se voi stessi foste pecore che vagano senza pastore. Poi la potenza di Roma vi ha restituito i vostri beni. Di certo non vi affiderete sempre alla protezione di qualcun altro! Non abituerete le vostre mani a brandire scudi, spade e lance contro coloro che non sarebbero più forti di voi stessi, se solo riusciste a liberarvi dalla pigrizia e dal letargo? I Romani sono stanchi di tutti questi continui spostamenti che devono fare per combattere i vostri nemici al posto vostro. Ora scelgono di rinunciare a tutti i tributi che pagate, piuttosto che essere più a lungo vessati in questo modo per mare e per terra. Dato che eravate solo gente comune ai tempi in cui possedevate dei soldati, pensate che per questo motivo abbiate perso la pretesa di essere uomini?

 

Sicuramente gli uomini possono nascere al di fuori della loro casta sociale – un soldato da un contadino, per esempio, o un contadino da un soldato? Un militare può essere figlio di un negoziante, o un negoziante figlio di un militare? Data la possibilità di far nascere una casta da un’altra, mi risulta difficile credere che le persone siano tali da poter effettivamente perdere la loro virilità. Se siete uomini, comportatevi da uomini! Pregate Cristo perché vi dia coraggio e poi proteggete la vostra libertà!”.

 

Alcuni di questi giovani della Britannia, che Massimiano aveva portato con sé in Gallia, rimasero in Gallia e finirono per stabilirsi nella penisola della Bretagna, che chiamarono Armorica. Ma non appena i Romani se ne andarono, la Britannia fu invasa e attaccata dai Pitti, insieme agli Angli, ai Sassoni e agli Juti. Guithelinus si recò quindi dai suoi compatrioti in Armorica per chiedere il loro aiuto. Il re, Aldroeno, accettò di inviare suo fratello Costantino con dei soldati al suo comando e, se questi avesse liberato il Paese dai barbari, Guithelinus avrebbe posto la corona sul suo capo.

 

Quando Costantino arrivò in Britannia, i giovani si unirono a lui in battaglia e furono vittoriosi; tutti i Britanni si riunirono e fecero di Costantino il loro re. [Costantino era il nonno di Artù].

Ma dopo che Costantino fu ucciso a tradimento, la domanda era: chi gli sarebbe succeduto? Il figlio maggiore di Costantino, Costanzo, era stato educato in un ordine monastico, e i suoi due figli minori, Ambrosio e Uther [il padre di Artù], “giacevano ancora nella culla e difficilmente avrebbero potuto essere elevati alla regalità”. Vortigern, un capo clan traditore, convinse Costanzo che se avesse accettato il suo piano, Vortigern avrebbe potuto nominare Costanzo re.

 

Costanzo era stato un monaco – “ciò che aveva imparato nel chiostro non aveva nulla a che vedere con il modo di governare un regno” – e una volta diventato re “consegnò l’intero governo a Vortigern”. In seguito, Costanzo fu assassinato e Vortigern usurpò il trono.

Quando i Pitti e i popoli delle isole vicine si ribellarono a Vortigern, quest’ultimo stipulò un trattato con Hengist dei Sassoni che si erano stabiliti in Britannia, i quali lo avrebbero assistito nelle sue battaglie contro i Pitti e Vortigern avrebbe concesso ai Sassoni delle terre. Inoltre, Vortigern temeva che Ambrosius o Uther, fuggiti in Bretagna (in Francia), potessero salpare dalla Francia per deporlo, e così permise a molti altri Sassoni di venire in Britannia, per aiutarlo nella difesa. Vortigern arrivò ad amare i Sassoni più dei Britanni e sposò persino la figlia di Hengist. In seguito, però, Vortigern fu tradito da Hengist e fu costretto a fuggire nella parte occidentale della Britannia. E qui inizia la storia di Merlino.

 

“Vortigern convocò i suoi maghi, chiese il loro parere e ordinò loro di dirgli cosa fare. Tutti gli diedero lo stesso consiglio: costruire per sé una torre immensamente forte, in cui potersi ritirare in sicurezza se avesse perso tutte le altre fortezze…”.

 

“Radunò scalpellini da diverse parti del paese e ordinò loro di costruire una torre per lui. Per quanto costruissero un giorno, la terra li inghiottiva il giorno dopo, in modo tale che non avevano idea di dove fosse finito il loro lavoro”.

 

“Quando questo fu annunciato a Vortigern, egli consultò i suoi maghi una seconda volta, per dare loro la possibilità di spiegarne la ragione. Gli dissero che avrebbe dovuto cercare un ragazzo senza padre e che, quando ne avesse trovato uno, avrebbe dovuto ucciderlo, in modo che la malta e le pietre fossero cosparse del suo sangue. Secondo loro, il risultato sarebbe stato la tenuta delle fondamenta. Vennero immediatamente inviati dei messaggeri nelle varie parti del paese per trovare una persona del genere, se possibile”.

 

I messaggeri trovarono “Merlino”, un ragazzo che non aveva un padre. C’è una piccola storia che racconta che suo padre non era un umano, ma un demone, proveniente dal mondo degli spiriti, che si era innamorato della madre di Merlino. Anche se in seguito i romantici di Hollywood avrebbero cercato di dire che Merlino era metà demone e metà umano e che era come un anti-Cristo, NO, Merlino era metà demone, come il demone di Socrate – era metà mortale e metà divino. E vedremo il ruolo di Merlino più avanti. Ma ora, quando Merlino fu presentato al re, gli disse:

 

“Di’ ai tuoi maghi di presentarsi davanti a me e io dimostrerò che hanno mentito. Solo perché non sai cosa ostacola le fondamenta delle torri che questi uomini hanno iniziato, hai raccomandato di cospargere il mio sangue sulla malta per rendere l’edificio solido. Ditemi dunque cosa si nasconde sotto le fondamenta”.

 

I maghi, terrorizzati, non dissero nulla.

 

“Mio Signore Re, chiama i tuoi operai. Ordinate loro di scavare nella terra e sotto troverete una vasca. È questo che impedisce alla torre di stare in piedi”.

 

Così fu fatto. Sotto la terra fu trovata una pozza, che rendeva il terreno instabile.

 

“Ditemi ora, bugiardi adulatori. Cosa c’è sotto la vasca?”.

 

Rimasero in silenzio, incapaci di emettere un solo suono.

 

“Ordinate di svuotare la vasca e sul fondo osserverete due pietre cave. All’interno delle pietre vedrete due Draghi che dormono”.

 

Dopo che Vortigern ordinò di svuotare la vasca, i due draghi emersero dalla vasca e sputarono fuoco, combattendo aspramente. Vortigern ordinò a Merlino di spiegare il significato di questa battaglia.

 

“Ahimè per il Drago Rosso, perché la sua fine è vicina. Le sue tane cavernose saranno occupate dal Drago Bianco, che rappresenta i Sassoni che avete invitato. Il Drago Rosso rappresenta il popolo della Britannia, che sarà invaso dal Bianco: i monti e le valli della Britannia saranno spianati, e i ruscelli delle sue valli scorreranno di sangue”.

Poi Geoffrey aggiunge un intero capitolo (che non si trova nelle “Cronache” di Tysilio) riguardante la continuazione dell’interpretazione di Merlino sui due draghi:

 

“… Il Cinghiale di Cornovaglia [cioè Artù] porterà sollievo da questi invasori, perché calpesterà i loro colli sotto i suoi piedi. Le isole dell’Oceano saranno date in potere del Cinghiale ed esso dominerà le foreste della Gallia. La Casa di Romolo [cioè l’Impero Romano] temerà la ferocia del Cinghiale e la sua fine sarà avvolta nel mistero. Il Cinghiale sarà esaltato dalle bocche dei popoli e le sue gesta saranno carne e bevanda per coloro che raccontano storie…”.

 

Geoffrey continua con la profezia di Merlino sui due draghi – un racconto criptico della storia della Britannia dopo Re Artù, fino all’ultimo re Cadwallader. Per questo breve periodo della storia della Britannia, tra il dominio imperiale romano e la conquista sassone, la Britannia fu nuovamente governata in modo indipendente dai propri re. Ecco quindi la comparsa di Merlino nella storia, in opposizione ai maghi superstiziosi e intriganti che consigliavano il re. Merlino non era un mago. Geoffrey lo definisce un indovino. Sooth è un’antica parola inglese che significa verità. Quindi un indovino è qualcuno che cerca di dire la verità, qualcuno che cerca di prevedere o di predire la verità o il futuro – un prognosticatore, NON un mago.

 

Sempre in quel periodo, Ambrosius e Uther salparono con un esercito dall’Armorica, sbarcarono in Britannia, assediarono il castello dove Vortigern si era rifugiato e lo bruciarono, insieme a Vortigern. Poi marciarono per combattere contro Hengist e i Sassoni e li sconfissero. Hengist fu giustiziato, ma suo figlio e i Sassoni rimasti chiesero pietà e Ambrosius, il nuovo re, concesse loro la regione vicina alla Scozia per vivere e fece un trattato con loro. Ora, a Salisbury, erano sepolti i capi e i principi della Britannia che erano stati traditi e uccisi da Hengist e dai Sassoni, così Ambrosius “raccolse carpentieri e scalpellini da ogni regione e ordinò loro di usare la loro abilità per escogitare un nuovo edificio che sarebbe rimasto per sempre in memoria di quegli uomini illustri. L’intero gruppo si scervellò e poi si confessò sconfitto”.

 

Allora fu mandato a chiamare Merlino e, quando arrivò, Ambrogio gli ordinò di profetizzare il futuro, perché voleva sentire da Merlino qualche meraviglia. Ma Merlino disse:

 

“Misteri di questo tipo non possono essere rivelati se non quando ce n’è il bisogno più urgente. Se li pronunciassi per divertimento, o quando non ce n’è affatto bisogno, lo spirito che mi controlla mi abbandonerebbe nel momento del bisogno”.

 

“Se volete abbellire il luogo di sepoltura di questi uomini con un monumento duraturo, mandate a prendere l’Anello dei Giganti, che si trova sul monte Killaraus, in Irlanda. In quel luogo c’è una costruzione in pietra che nessun uomo di quest’epoca potrebbe mai erigere, a meno che non unisca grande abilità e maestria. Le pietre sono enormi e non c’è nessuno in vita abbastanza forte per spostarle. Se vengono posizionate intorno a questo sito, nel modo in cui sono erette laggiù, resteranno in piedi per sempre…”.

 

“Molti anni fa i Giganti li trasportarono dai confini più remoti dell’Africa e li installarono in Irlanda in un periodo in cui abitavano quel Paese. Il loro piano prevedeva che, ogni volta che si ammalavano, si preparassero dei bagni ai piedi delle pietre; infatti erano soliti versare acqua su di esse e farla scorrere in vasche in cui i loro malati venivano curati”.

 

Ci sono molte controversie su questa menzione dei “Giganti” e sull’origine dei cerchi di pietre in Britannia. I giganti, come ha detto in precedenza Geoffrey, erano gli abitanti della Britannia prima dell’arrivo di Bruto. Ma Geoffrey scrive che a quel tempo in Britannia sembravano pensare solo che le pietre avessero proprietà medicinali, e sembravano aver dimenticato gli usi astronomici e di datazione del calendario delle pietre. È come se stessero uscendo da un’epoca buia. E credo che 400 anni di sofferenza sotto l’Impero Romano non abbiano aiutato.

 

Ambrosius inviò suo fratello Uther [il padre di Artù] e 15.000 uomini, insieme a Merlino, in Irlanda per rimuovere le pietre e riportarle in Britannia. Quando arrivarono all’anello di pietra, Merlino disse:

“Mettete alla prova la vostra forza, giovani uomini, e vedete se l’abilità può fare più della forza bruta, o la forza più dell’abilità, quando si tratta di smontare queste pietre”.

 

‘Hanno preparato paranchi e corde e hanno puntellato scale, ognuno preparando ciò che riteneva più utile, ma nessuna di queste cose avanzava di un centimetro. Quando Merlino vide che confusione stavano facendo, scoppiò a ridere. Mise in posizione tutti gli attrezzi che riteneva necessari e smontò le pietre più facilmente di quanto si possa credere. Una volta tirate giù, le fece portare alle navi e le fece imbarcare, ed esse salparono di nuovo per la Britannia con la gioia nel cuore”. Tornato in Britannia, Merlino fece disporre le pietre in cerchio intorno al sepolcro, esattamente come erano state disposte sul Monte Killaraus in Irlanda. Merlino, Uther e gli uomini non usarono la magia o la forza bruta per spostare le pietre e per ricostruirle, ma “l’abilità”. Ambrosius sarebbe stato avvelenato da un sassone traditore e Uther [il padre di Artù] sarebbe diventato re. E ora siamo pronti a leggere la storia di Re Artù.

 

Parte 5 – La storia di Artù

Ambrogio sarebbe stato avvelenato da un sassone traditore e Uther [il padre di Artù] sarebbe diventato re. Anni dopo, alla morte di Uther, i Sassoni chiamarono altri loro compatrioti dalla Germania per invadere e uccidere i Britanni. I capi provinciali della Britannia si riunirono e chiesero a Dubricius, l’arcivescovo della Città delle Legioni [Caerleon], di porre la corona di Britannia sul giovane Artù.

 

“Artù era un giovane di soli quindici anni; ma era di un coraggio e di una generosità eccezionali, e la sua innata bontà gli conferiva una tale grazia da essere amato da quasi tutto il popolo. Una volta investito delle insegne reali, osservò la normale usanza di fare doni gratuiti a tutti. Una folla così grande di soldati accorse a lui che finì quello che aveva da distribuire. Tuttavia, l’uomo a cui la disponibilità e il coraggio vengono naturali può trovarsi momentaneamente nel bisogno, ma la povertà non lo tormenterà mai a lungo. In Artù il coraggio era strettamente legato alla generosità, ed egli decise di perseguitare i Sassoni, affinché con le loro ricchezze potesse ricompensare i servitori che servivano la sua stessa casa. La giustezza della sua causa lo incoraggiava, perché aveva diritto, per legittima eredità, alla regalità di tutta l’isola. Perciò chiamò a raccolta tutti i giovani che ho appena menzionato e marciò su York”.

 

Artù voleva combattere gli invasori sassoni, che avevano usurpato la sua “legittima eredità” alla regalità della Britannia. I capi sassoni misero insieme un vasto esercito di sassoni, scozzesi e pitti, mentre dalla Sassonia arrivarono seicento navi con altri uomini. Artù inviò messaggeri a suo cugino Hoel in Armorica (Bretagna), in Francia, che inviò 15.000 truppe in aiuto di Artù. Artù e Hoel marciarono quindi incontro all’esercito sassone e lo sconfissero. I Sassoni promisero di lasciare tutto il loro oro e argento se Artù avesse permesso loro di tornare in Sassonia. Artù permise loro di partire, ma di portare con sé solo le loro barche. Una volta salpati, i Sassoni si rimangiarono la promessa, tornarono in Britannia e cominciarono a devastare la campagna. Artù marciò verso sud per incontrare i Sassoni a Bath e disse ai suoi uomini:

 

“Anche se i Sassoni, il cui stesso nome è un insulto al cielo e detestato da tutti gli uomini, non hanno mantenuto la fede con me, io stesso manterrò la fede con il mio Dio. Oggi stesso farò del mio meglio per vendicarmi di loro per il sangue dei miei compatrioti. Armatevi, uomini, e attaccate questi traditori con tutte le vostre forze! Con l’aiuto di Cristo li sconfiggeremo, senza alcun dubbio!”.

 

Geoffrey ritraeva Artù come uno dei primi re cristiani della Britannia. Dopo la persecuzione di Diocleziano contro i cristiani nel 393 e dopo il ritiro definitivo dell’esercito romano intorno al 401, le invasioni di Angli, Sassoni e Juti distrussero la maggior parte di ciò che rimaneva delle chiese cristiane nella Britannia orientale. Ma le chiese cristiane sopravvissero nella parte occidentale dell’isola non conquistata.

 

Credo che questo volesse dire che, ora che le legioni romane avevano lasciato la Britannia, non era più necessario mantenere la cultura dell’Impero Romano, che non si doveva tornare a una cultura pagana, come quella rappresentata dai Sassoni, ma si doveva provare qualcosa di meglio. Il cristianesimo era una nuova religione a quel tempo e, come il giudaismo, aveva cercato di sopravvivere sotto l’Impero romano. Mentre i Britanni si stavano convertendo al cristianesimo, il profeta Maometto non sarebbe nato prima di 100 anni e i Khazar non si sarebbero convertiti al giudaismo prima di 200 anni circa.

 

Durante la battaglia, i capi sassoni e migliaia di altri furono uccisi e le truppe rimaste fuggirono verso le loro navi. Ma Artù mandò Cador, duca di Cornovaglia, a inseguire i Sassoni in fuga; Cador si impadronì prima delle loro navi e poi fece a pezzi i Sassoni. Artù marciò verso nord per affrontare gli scozzesi e i pitti e li assediò a Loch Lomond (non sono sicuro se Artù abbia preso la strada principale o quella secondaria per arrivare a Loch Lomond, ma dovrebbe essere qualcosa su cui riflettere).

 

Nel frattempo, Gilmaurius, re d’Irlanda, arrivò con “un’orda di pagani” per aiutare gli scozzesi assediati. Artù tolse l’assedio agli scozzesi e marciò verso gli irlandesi, sconfiggendoli “senza pietà” e costringendoli a tornare a casa in Irlanda. A questo punto Artù si scagliò contro gli scozzesi e i pitti “con una severità senza pari”. Quando i vescovi scozzesi chiesero pietà ad Artù, questi si commosse fino alle lacrime e concesse il perdono al loro popolo.

 

Artù si recò quindi a York, dove incontrò tre fratelli che erano stati principi prima dell’invasione sassone, e diede loro le regalità di Scozia: Albany, Moray e Lothian. L’estate successiva, Artù salpò per l’Irlanda e sconfisse nuovamente l’orda di Gilmaurius, facendo arrendere tutti i principi di quel Paese. Artù salpò poi verso l’Islanda e la sottomise. Alla notizia, i re di Gotland e delle Orcadi vennero a promettere tributi ad Artù. Artù tornò in Britannia e stabilì l’intero regno in uno stato di pace duratura, rimanendovi per i successivi dodici anni.

 

In seguito Artù navigò verso la Gallia, che era sotto il tribuno romano Frollo, che governava in nome dell’imperatore Leone. Dopo aver fallito nel tentativo di sconfiggere Artù, Frollo abbandonò il campo e fuggì a Parigi. Dopo un mese di assedio, per evitare che la popolazione morisse di fame, Artù acconsentì alla richiesta di Frollo di incontrarsi in un combattimento singolo – “chi fosse stato vittorioso avrebbe dovuto prendere il regno dell’altro”. Una volta sconfitto Frollo, Artù sottomise le restanti province della Gallia. Poi Artù tornò a Parigi, convocò un’assemblea del clero e del popolo e stabilì il governo del regno in modo pacifico e legale.

 

Con la Gallia ormai pacificata, Artù tornò in Britannia e tenne una corte plenaria “per rinnovare i patti di pace più stretti possibili con i suoi capi”, a Caerleon, la Città delle Legioni, una città che era ornata di palazzi reali e di due famose chiese – ai martiri Giulio e Aronne – e anche di un collegio, dove Artù si serviva di astronomi, non di maghi, per prevedere il futuro.

“La città conteneva anche un collegio di duecento uomini dotti, esperti in astronomia e nelle altre arti, che osservavano con grande attenzione i corsi degli astri e quindi, con i loro accurati calcoli, profetizzavano per re Artù i prodigi che si sarebbero verificati in quel periodo”.

 

E qui vediamo l’importanza di Merlino: come sono passati i Britanni dai maghi di Vortigern agli astronomi di Artù? Attraverso Merlino – il trampolino di lancio dalla magia alla scienza. Merlino non era un ritorno ai “presunti” maghi druidi, ma un ritorno agli antichi astronomi celtici, prima della loro distruzione sotto l’Impero Romano! Questo è il vero Merlino – non il romantico mago malvagio di una storia d’amore hollywoodiana, ma un trampolino di lancio dal misticismo dei maghi romani.

 

A questo incontro furono invitati tutti i re di Britannia e Scozia e tutti i capi delle province della Britannia e tutti i re delle “Isole” – Irlanda, Islanda, Gotland, Orcadi, Norvegia e Danimarca – e i capi delle province della Gallia: “… non c’era principe di qualche distinzione al di qua della Spagna che non venisse quando riceveva l’invito. Non c’era nulla di straordinario in questo: la generosità di Artù era nota in tutto il mondo e questo lo faceva amare da tutti”.

 

Ma la cosa più interessante in questa assemblea erano i leader della Chiesa in Britannia – gli arcivescovi delle tre sedi metropolitane: Londra e York, e “Dubricius della città della Legione… che era primate di Britannia e legato della sede papale…”.

 

“… il santo Dubricius, che da tempo desiderava vivere come eremita, si dimise dalla carica di arcivescovo. Al suo posto fu consacrato Davide, zio del re, il cui stile di vita aveva offerto un esempio di ineccepibile virtù a coloro che aveva istruito nella fede”.

 

Geoffrey sta parlando di Davide – che è diventato San Davide, il patrono del Galles – che è lo zio di Artù (anche se a volte le traduzioni dei manoscritti riportano “zio” per “nipote” o “cugino”, e quindi forse Davide era cugino di Artù)!!! E fu allora che Artù ricevette dodici inviati con questa lettera da Lucio Iberio, procuratore dell’Impero romano, che era indignato con Artù:

 

“Sono stupito dal modo insolente in cui continui il tuo comportamento tirannico. Mi stupisce ancora di più il danno che hai arrecato a Roma… che con il tuo comportamento criminale tu abbia insultato il Senato, al quale il mondo intero deve sottomissione, come ben sai. Avete avuto la presunzione di disobbedire a questo potente Impero trattenendo il tributo della Britannia, tributo che il Senato vi ha ordinato di pagare, visto che Gaio Giulio Cesare e altri uomini di alto rango dello Stato romano lo avevano ricevuto per molti anni. Avete strappato la Gallia a quell’Impero… e avete messo le mani su tutte le isole dell’Oceano, i cui re hanno pagato il tributo ai miei antenati fin dal primo momento in cui la potenza di Roma ha prevalso in quelle regioni. Di conseguenza, il Senato ha decretato che si debba punire questa lunga serie di torti che avete commesso. Vi ordino quindi di presentarvi a Roma, affinché possiate sottomettervi ai vostri signori e subire la pena di qualsiasi sentenza essi emettano… Se non vi presenterete, invaderò io stesso il vostro territorio e farò del mio meglio per restituire allo Stato romano tutto ciò che gli avete sottratto con il vostro folle comportamento”.

 

Questa lettera fu letta ad alta voce ad Artù e a tutti i re e gli altri capi riuniti, che poi si riunirono per valutare il da farsi. Artù disse loro che quando queste terre erano state strappate all’Impero, l’Impero non aveva fatto alcuno sforzo per difenderle, ma ora l’Impero chiedeva un tributo!

 

“… Non credo che dovremmo temere più di tanto la sua venuta, visto che con quali pretese pretende il tributo che vuole esigere dalla Gran Bretagna. Dice che glielo si deve dare perché lo si pagava a Giulio Cesare e a coloro che gli sono succeduti. Quando questi uomini sbarcarono con le loro bande armate e conquistarono la nostra patria con la forza e la violenza in un momento in cui era indebolita da dissensi civili, erano stati incoraggiati a venire qui dalla disunione dei nostri antenati. Avendo conquistato il Paese in questo modo, fu sbagliato da parte loro esigere un tributo. Nulla di ciò che viene acquisito con la forza e la violenza può mai essere detenuto legalmente da qualcuno…”.

 

Uno dopo l’altro, i re di Britannia, Scozia e Isole, e i capi delle province limitrofe della Gallia, si impegnarono a inviare le loro truppe e a entrare al suo servizio. Artù lasciò il nipote Mordred e la regina Ginevra a difendere la Britannia e salpò con il suo esercito verso la Gallia, per incontrare l’esercito dell’imperatore.

Geoffrey racconta molto della storia del loro incontro, delle diverse strategie e delle battaglie che seguirono – questa sembra essere la parte più importante della storia di Artù – e di Artù che si rivolge alle sue truppe prima della battaglia nella valle di Saussy:

 

“… Senza dubbio hanno immaginato, quando hanno progettato di far sì che il vostro paese paghi loro un tributo e di rendervi voi stessi schiavi, di scoprire in voi la viltà dei popoli orientali. Forse non hanno sentito parlare delle guerre che avete condotto contro i Danesi e i Norvegesi e i capi dei Galli, quando avete liberato questi popoli dalla loro vergognosa fedeltà ai Romani e li avete costretti a sottomettersi al mio dominio… Come nei tempi passati gli antenati dei Romani avevano vessato gli antenati dei Britanni con la loro giusta oppressione, così ora i Britanni fecero ogni sforzo per proteggere la loro libertà, che i Romani stavano cercando di sottrarre loro, rifiutando il tributo che veniva loro ingiustamente richiesto.”

 

Artù sta dicendo che, dopo aver sconfitto gli invasori sassoni della Britannia, ha poi liberato questi popoli dall’Impero romano! E ora stava difendendo la libertà appena conquistata dall’Impero! Alla fine, dopo feroci combattimenti, i Britanni ebbero la meglio e Lucio fu ucciso, trafitto da una mano sconosciuta. Artù fece inviare il suo corpo al Senato di Roma, con il messaggio che non ci sarebbe stato alcun tributo da parte dei Britanni. Il piano di Artù prevedeva che, una volta sconfitto l’esercito romano sul campo, Artù sarebbe partito per Roma. E se Artù fosse riuscito a marciare verso Roma e a liberare Roma dall’Impero?

 

Ma mentre stava attraversando le montagne verso l’Italia, giunse la notizia che suo nipote Mordred, che Artù aveva lasciato a capo della Britannia, si era messo la corona in testa e stava governando con la regina Ginevra! Artù dovette quindi tornare indietro dalla sua marcia verso Roma e inviò Hoel a ristabilire la pace tra i Galli, per poi tornare in Britannia. Mordred si era accordato con Chelric, il capo dei Sassoni, per portare con sé 800 navi, in cambio delle quali avrebbe ricevuto gran parte dell’isola da governare. Mordred coinvolse nella sua alleanza anche gli scozzesi, i pitti e gli irlandesi e marciò con il suo esercito per incontrare Artù al suo sbarco. Dopo una terza battaglia brutale e sanguinosa, l’esercito di Mordred fu sconfitto e sia Mordred che Chelric furono uccisi.

“Artù stesso, il nostro rinomato re, fu ferito a morte e fu portato sull’Isola di Avalon, affinché le sue ferite fossero curate. Egli consegnò la corona di Britannia a suo cugino, Costantino, figlio di Cador, duca di Cornovaglia, nell’anno 542 dopo l’incarnazione di nostro Signore”.

 

Ci sono molte controversie sull’ubicazione dell’Isola di Avalon, sull’anno della morte di Artù, sul fatto che Artù sia effettivamente morto e se un giorno tornerà. Ma io penso che Geoffrey abbia dimostrato che Artù era l’eroe dell’indipendenza della Britannia – sia dagli invasori sassoni che dall’Impero Romano; e che l’idea di Geoffrey del ritorno di Artù non sia un ritorno fisico, ma un ritorno dello spirito di Artù e un ritorno del popolo della Britannia alla sua indipendenza, inclusa l’odierna variante moderna degli usurpatori  romani/sassoni/normanni: la Casa di Saxe-Coburg-Gotha, cioè la Casa dei Windsor.

 

Parte 6 – La terra della Reginetta delle Fate

Così, nella storia di Geoffrey of Monmouth dell’eroe britannico, Re Artù, non ci sono storie d’amore con Ginevra, non ci sono cavalieri di tappeto seduti intorno alla tavola rotonda (o che inseguono mulini a vento) e non c’è un’assurda ricerca del Santo Graal. Perché non eravamo alla ricerca del Santo Graal, ma della bellezza, della bontà e della verità.

Tutti questi miti cavallereschi romantici sono stati aggiunti in seguito per cercare di mistificare la vera storia di Artù, e per uno scopo diverso dall’intenzione di Geoffrey: che le gesta di questi uomini fossero ricordate per tutti i tempi. E Artù dovrebbe essere ricordato dalla storia di Geoffrey e non dalle fantasie romantiche dei Normanni. E nemmeno dalle recenti versioni hollywoodiane. Ma c’è un altro modo in cui Artù viene ricordato, un modo diverso da quello che si potrebbe immaginare. Circa 250 anni dopo Geoffrey di Monmouth, vediamo un altro Geoffrey: Geoffrey Chaucer, che scrisse i Racconti di Canterbury e che, in tutte le sue poesie e in tutti i suoi racconti, menziona Re Artù solo una volta, nel racconto della moglie del bagno e solo nei primi paragrafi:

 

“Nei tempi antichi di Re Artù,

di cui i Britanni parlano con grande onore,

Tutta questa terra era piena di fate.

La regina degli elfi con la sua bella compagnia

danzava spesso in molti verdi prati”.

Questa era la vecchia opinione, come ho letto -.

Parlo di molte centinaia di anni fa.

Ma ora nessun uomo vede gli elfi, lo so…”.

 

Sembra che Artù non solo abbia liberato la Britannia dall’Impero romano e dai maghi, ma abbia anche liberato gli artisti, i musicisti, i danzatori e i poeti. E la terra di Britannia divenne una terra di gioia e di favole, piena di elfi e di fate. Ma quando perdiamo la nostra indipendenza, perdiamo anche la nostra capacità di vedere questa terra di fate?

 

Perché ora nessuno vede più gli elfi (forse Robert Frost è stato l’ultimo) – siamo diventati letteralisti e scolastici e nominalisti ed empiristi – non possiamo più vedere la terra delle fate, ci viene mostrata solo la terra dell’evasione, una terra che pretende di non essere né buona né cattiva (come se una cosa del genere fosse possibile) e non è come la fuga di un prigioniero, ma è più simile alla fuga di un disertore.

Ma poi, come hanno detto alcuni narratori, forse era perché le fate e gli elfi ci parlavano nella lingua della vecchia Britannia, del vecchio Celtico e del vecchio Gallese, una lingua che non capivamo più. Così, hanno detto, le fate e gli elfi hanno preso questa accozzaglia di suoni e grugniti normanni e sassoni e l’hanno trasformata in qualcosa che hanno chiamato anglosassone, qualcosa che potevamo usare per parlare di nuovo con loro. Forse.

 

Sembra infatti che 200 anni dopo Chaucer, questa terra ricompaia nella “Faerie Queen” di Edmund Spenser, quando il principe Artù cerca la regina del Paese delle Fate. La pubblicazione nel 1590 dei primi tre libri della “Faerie Queene” inizia con “A Letter of the Author’s” – una lettera scritta da Spenser a Sir Walter Raleigh – “expounding his whole intention in the course of this work”.

 

“Signore, sapendo che tutte le allegorie possono essere interpretate in modo dubbio, e che questo mio libro, che ho intitolato La Regina delle Fate, è un’allegoria continua o un’oscura supposizione, ho pensato bene, sia per evitare opinioni gelose e fraintendimenti, sia per illuminare meglio la vostra lettura, (poiché così mi è stato ordinato da voi) di esporvi l’intenzione e il significato generale, che in tutto il corso del libro ho elaborato, senza esprimere alcuno scopo particolare, o per incidenti, in esso provocati. Il fine generale di tutto il libro è dunque quello di creare un gentiluomo o una persona nobile in una disciplina virtuosa e gentile; per questo ho pensato che dovesse essere più plausibile e piacevole, essendo colorato con una finzione storica, che la maggior parte degli uomini si diletta a leggere, piuttosto per la varietà della materia che per il profitto dell’esempio, ho scelto la storia di Re Artù, come più adatta all’eccellenza della sua persona, essendo resa famosa da molte opere precedenti di uomini, e anche la più lontana dal pericolo dell’invidia e del sospetto del tempo presente. In questo ho seguito tutti i poeti antichi storici: prima Omero, che nelle persone di Agamennone e di Ulisse ha messo insieme un buon governatore e un uomo virtuoso, l’uno nell’Iliade, l’altro nell’Odissea; poi Virgilio, che ha voluto fare altrettanto nella persona di Enea; dopo di lui Ariosto le comprese entrambe nel suo Orlando; e ultimamente Tasso le separò di nuovo, e formò entrambe le parti in due persone, cioè quella parte che in filosofia chiamano Etica, o virtù di un uomo privato, colorata nel suo Rinaldo, l’altra chiamata Politica nel suo Godfredo. Sull’esempio di questi eccellenti poeti, mi sforzo di ritrarre in Artù, prima che fosse re, l’immagine di un cavaliere coraggioso, perfezionato nelle dodici virtù morali private, come ha concepito Aristotele; questo è lo scopo di questi primi dodici libri che, se troverò ben accetti, forse mi incoraggeranno a formare l’altra parte delle virtù politiche nella sua persona, dopo che sarà diventato re…”.

 

“Così nella persona del principe Artù ho esposto in particolare la magnificenza; la quale virtù, poiché (secondo Aristotele e gli altri) è la perfezione di tutte le altre, e le contiene tutte, perciò in tutto il corso menziono le azioni di Artù applicabili a quella virtù, di cui scrivo in quel libro. Ma delle altre 12 virtù, faccio patroni altri 12 cavalieri, per una maggiore varietà della storia…”.

 

Secondo Spenser, per scoprire la bellezza, dobbiamo essere come un Principe Artù – sforzandoci di essere una persona di disciplina virtuosa e gentile, per diventare come un Re Artù che, nella vita reale, difese la Britannia dall’invasione barbarica degli Angli, dei Sassoni e degli Juti, e anche da una riconquista da parte dell’Impero Romano, e così facendo, permise la successiva diffusione di una stima per una fiducia culturale indipendente.

 

E penso che, proprio come Artù era un trampolino di lancio che portava dalla schiavitù dell’Impero Romano all’indipendenza della Britannia, e come Merlino era un trampolino di lancio che portava dai maghi agli astronomi, allora forse gli elfi e le fate potrebbero essere visti come un segno che tra il mondo della realtà e quello della finzione, ci sono trampolini di lancio che ci portano in un mondo completamente diverso – un mondo di idee, un mondo di intenzioni… e un mondo di invenzioni.

Le nostre storie, come il nostro linguaggio, non si sono evolute, ma sono state inventate (!!!) per aiutarci a esplorare questo mondo di idee. E allo stesso modo, non ci siamo evoluti come una delle scimmie di Darwin, ma siamo stati inventati, dalle idee.

Ma queste storie del mondo delle idee dovrebbero essere usate per aiutarci a vedere meglio nel mondo reale, e non per creare semplicemente il caos, che può essere risolto solo dai maghi. Forse non abbiamo bisogno della magia dei maghi o del potere dell’impero, del Leviatano, per imporre l’ordine sul caos. Forse il mondo non è poi così caotico, ma è solo un mistero intrecciato e interconnesso che i nostri narratori ci aiutano a svelare.

Non so da dove provenga l’idea di elfi e fate e di quella mitica terra “piena di fate”. Ma vediamo questa terra ancora una volta nel “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare (cioè Christopher Marlowe), dove troviamo il Re e la Regina del Paese delle Fate e possiamo intravedere la “Regina Mab” in “Romeo e Giulietta” di Shakespeare / Marlowe, e la “Faery Mab” nel poema “L’Allegro” di John Milton e ancora nel poema “Queen Mab” di Percy Shelley.

Si dice che John Milton avesse pensato di scrivere un’epopea su Re Artù, ma forse, dopo aver scritto i suoi trattati per giustificare l’esecuzione del re e dopo aver scritto i suoi trattati a favore dell’istituzione di un commonwealth inglese, potrebbe aver deciso di non scrivere un’epopea su un re, anche se si trattava del buon Re Artù. Così, invece, scrisse il suo epico “Paradiso perduto”, che parla di diavoli e angeli, di Adamo ed Eva e di un giardino dell’Eden, che sembra essere stato tratto da un racconto favoloso di Mosè e che, come Geoffrey, forse è stato abbellito dalla sua meravigliosa immaginazione. E J.R.R. (Ronald) Tolkien stava scrivendo una storia mezza finita su Re Artù che mise da parte per iniziare a scrivere una storia di elfi e nani e di un curioso hobbit di nome Bilbo.

Forse, oltre alle storie dei nostri eroi come Artù, anche le storie dei nostri elfi e delle nostre fate ci sono state lasciate in dono, un dono “prometeico” all’uomo: il dono della narrazione. Poiché, mentre sedevamo intorno a quel dono del fuoco in una notte tranquilla e buia, abbiamo scoperto qualcosa da fare: raccontare storie. Forse, ma questa è tutta un’altra storia da esplorare, un’altra volta. E quindi ora, per concludere, dovremmo dire che:

Se la “Storia” di Geoffrey è storicamente accurata, allora dobbiamo a Geoffrey un mondo di gratitudine, per aver raccolto tradizioni orali e tradotto antichi testi scritti e averli assemblati in una vera storia di Re Artù. Ma se la “Storia” di Geoffrey ha semplicemente preso alcuni eventi storici e li ha abbelliti con la sua storia immaginaria, allora dobbiamo comunque a Geoffrey un mondo di gratitudine, per aver dato vita a questa favolosa storia di Re Artù.

Lascio a voi decidere a quale delle due conclusioni credere. Ma a me piace credere in entrambe. E forse, un giorno, nel nostro futuro, quando si dirà Gran Bretagna, non penseremo più all’Impero Britannico, ma penseremo a Re Artù e all’indipendenza della Gran Bretagna dall’Impero.

E forse penseremo di nuovo anche agli elfi e alle fate. E forse, come avrebbe pensato Mark Twain, “le notizie sulla loro morte erano decisamente esagerate”!

Di Gerald Therrien, risingtidefoundation.net

Sono Gerald Therrien, risiedo vicino a Toronto, in Canada, e sono Senior Fellow presso la Rising Tide Foundation. Sono un bidello in pensione, uno storico dilettante, un appassionato di rocce, un osservatore di uccelli e da grande vorrei essere un poeta.

 

L’autore ha recentemente tenuto una conferenza esaustiva su questo argomento:

 

NOTE

[1] Con “fiducia culturale” mi riferisco a un’idea di Xi Jinping, pubblicata in “the Blip Report for Sunday, March19th 2023 – “On China’s Cultural Confidence”, a cura di William Lyon Shoestrap.

 

Fonte: https://risingtidefoundation.net/2024/01/22/in-defence-of-king-arthur-2/

 

Traduzione a cura di Costantino Ceoldo – https://t.me/ideeazione

 

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