DI ALESSANDRA COLLA
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Provo sempre un certo imbarazzo di fronte alla posizione dell’Olocausto come “discrimen epocale” — rubo l’espressione alla filosofa Caterina Resta: vengo da una generazione per la quale l’Olocausto, che non era neppure noto con questo nome (il termine era impiegato negli ambienti specialistici ebraici di lingua inglese, e avrebbe cominciato a diffondersi presso il grande pubblico sul finire degli anni Settanta del secolo scorso), era uno dei molti orrori della guerra al pari dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, dei bombardamenti tedeschi su Coventry e di quelli alleati su Milano Napoli e Dresda, dell’esodo delle popolazioni tedesche dalle province orientali e dell’assedio di Stalingrado, della ritirata dell’ARMIR e della guerra civile in Italia eccetera.
Il fatto di essere ancora parzialmente a ridosso della seconda guerra mondiale — i nostri padri, i nostri zii e i nostri nonni vi avevano in qualche modo, da una parte o dall’altra, partecipato — ci permetteva di considerare quegli eventi non attraverso la lente deformante del mito o dell’ideologia, bensì attraverso le parole dei protagonisti: racconti, narrazioni, memorie come monumenti di un passato prossimo che aveva inciso la sua essenza nella carne e nel sangue delle generazioni che ci avevano immediatamente preceduto.
Ma anche altri drammi del XX secolo, breve ma denso quant’altri mai, segnavano le nostre vite: la mia insegnante di musica alle medie era una concertista ebrea romena, la cui famiglia era fuggita dalla Romania in seguito ai pogrom degli anni Quaranta, e il mio professore di pianoforte (suo marito) era un ebreo italiano la cui famiglia aveva lasciato l’Italia in seguito alle leggi razziali del 1938. Una mia compagna di scuola apparteneva a una famiglia di armeni scampati al genocidio del 1915. Dei vicini di casa erano profughi istriani che avevano abbandonato la loro terra alla metà degli anni Cinquanta.
Eravamo circondati da violenze alle quali non sapevamo dare altro nome o altra giustificazione che non fosse “guerra”: e la guerra era guerra per tutti, senza copyright o graduatorie fra vittime di serie A o di serie B.
L’Olocausto come complesso etico-narrativo (non il fatto della persecuzione e del massacro di un numero imprecisato ma comunque enorme di ebrei da parte del nazionalsocialismo), è una costruzione recente che è andata ad aggiungersi alla decostruzione di altri eventi storici, iniziata nel XIX secolo con i lavori magistrali di Henry Charles Lea sull’Inquisizione, di Jules Michelet sulle streghe e di Helen Hunt Jackson sullo sterminio dei nativi americani. La seconda metà del XX secolo, come sappiamo, ha visto il proliferare di studi vòlti a svelare la cruda realtà di tante epopee recenti e remote (nella prima metà si era ancora troppo intenti a traghettare l’Ottocento nella modernità): fra tutti, cito quelli esemplari di Dee Brown (1970, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, ed. it. 1972), David E. Stannard (1992, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, ed. it. 2001), Noam Chomsky (1993, Anno 501. La Conquista continua, ed. it. pure 1993) e Mike Davis (2000, Olocausti tardovittoriani. El Niño, le carestie e la nascita del Terzo Mondo, ed. it. 2002). Parlarne adesso sembra banale, ma ognuno di quegli studi ha creato piccoli “casi”, con tanto di polemiche, contestazioni e contro-studi.
Dunque per me — sottolineo con forza questo personalismo, e vorrei che chi legge lo tenesse ben presente — l’Olocausto non è il Male assoluto. E non soltanto perché io, di mio, rifuggo abitualmente dagli assoluti; ma perché assolutizzare un quid equivale a relativizzare, ovvero a ridurre, il non-quid. E dal ridurre al giustificare il passo è drammaticamente abbastanza breve: se l’Olocausto è il Male assoluto, dunque ingiustificabile perché assiomatico, allora ogni altro male passato scompare di fronte a questo; e ogni altro male presente o futuro non potrà che essergli ontologicamente ed assiologicamente inferiore, dunque in qualche modo giustificabile e pertanto, in qualche modo, accettabile — “ sì, ma bisogna capire il contesto…”, “è vero, ma le condizioni erano tali che…”, “oh, è terribile, ma bisogna tener presente che prima…” eccetera. E in questo mi sento in qualche modo confortata dall’autorevole opinione dello storico David Cesarani: «Il Nazismo fu unico per i Tedeschi; nessun altro ha elaborato esattamente la stessa idea, o l’ha applicata esattamente allo stesso modo. Del pari, l’Olocausto fu unico per il Nazismo come lo fu per gli Ebrei, il che è appunto il motivo per cui tanti Ebrei insistono così fermamente per mantenerne l’unicità. Benché gli Ebrei abbiano sperimentato molti orribili massacri in passato, l’Olocausto non ha precedenti nella loro esperienza. Ma anche il massacro degli Armeni non ha precedenti per loro, ed è rimasto unico nella loro esperienza. E se il genocidio nazista degli Ebrei possiede certamente caratteristiche uniche (come di fatto è), quelle caratteristiche non vengono certo diminuite dalla comparazione con altri casi di genocidio o uccisioni di massa» (Holocaust: Critical Concepts in Historical Studies, by David Cesarani, Routledge, London 2004, p. 33, Introduction to Volume I).
Insomma continuo a pensare che l’essere umano non sia più, una volta superata l’infanzia, innocente — a differenza dell’animale: e ancora una volta concordo con Marguerite Yourcenar: «(…) la sofferenza degli animali mi commuove tanto. Come la sofferenza dei bambini: vi sento l’orrore del tutto particolare del coinvolgere nei nostri errori, nelle nostre follie, degli esseri che ne sono totalmente innocenti (…). Quando ci arriva addosso qualche calamità, possiamo sempre dire a noi stessi che abbiamo la nostra intelligenza per trarci d’impaccio e, fino a un certo punto, è vero; possiamo sempre dirci, ed è pure tristemente vero, che siamo di fatto implicati, che tutti abbiamo, fino a un certo punto, fatto del male, o l’abbiamo lasciato fare, che è ancora peggio. Mentre rispondere con la brutalità alla totale innocenza del bambino o dell’animale, che non capisce che cosa gli stiamo facendo, è un crimine veramente ripugnante» (Ad occhi aperti. Conversazioni con Matthieu Galey, Bompiani, Milano 1982 e 1987, pp. 244-245)
Il che, naturalmente, non giustifica né rende ragione di quegli eventi: ma (almeno per me) toglie all’Olocausto quel famoso status di “discrimen epocale” che gli è stato attribuito e lo riporta sul piano dei molti ineffabili orrori del XX secolo — credo che un orrore non sia meno orrendo solo perché è meno conosciuto o ci sono meno sopravvissuti a testimoniarlo o i persecutori sono ideologicamente più simpatici.
Così, anche il paragone fra Olocausto e sterminio degli animali (d’ora in poi, il Paragone) non mi entusiasma. Sostanzialmente, si imputa al nazionalsocialismo di aver spogliato gli ebrei della loro dimensione umana riducendoli ad animali — ovvero, nella percezione occidentale moderna, “esseri viventi assimilabili a cose”.
Ma la teorizzazione dell’esistenza di razze inferiori e la loro equiparazione alle bestie precede il nazionalsocialismo, anzi è cosa assai antica: definire “bestia” o “animale” l’avversario fa parte del linguaggio comune; e se vogliamo un riferimento illustre ecco i vv. 358-359 del secondo libro dell’Iliade, in cui Tersite, il brutto-e-cattivo antitesi perfetta del kalokagathòs come ideale ellenico, è definito “cane insolente”, e il suo parlare “abbaiare”. E se tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, fra il dire omerico e il fare pulizia etnica come prassi monotona della modernità corre il vasto mare dei secoli nel corso dei quali si è consolidata la supremazia dell’Occidente bianco.
È plausibile che la prima assimilazione di un non-bianco all’animale risalga all’epoca della scoperta dell’America o giù di lì — dove per non-bianco intendo anche non-nero, dal momento che le popolazioni africane rientravano da gran tempo nelle frequentazioni abituali degli europei: per esempio la dinastia imperiale dei Severi, di origine africana; o il Dottore della Chiesa sant’Agostino, nato a Tagaste in Numidia — oggi Souk-Ahras, in Algeria. (Un discorso a parte va fatto per gli abitanti dell’Africa tropicale, infedeli che ignoravano persino la più elementare forma di civiltà e si mostravano irreparabilmente refrattari all’adozione e al rispetto di qualsiasi regola giuridica e sociale: di stampo ovviamente europeo, ma questo è forse secondario).
L’epoca della scoperta dell’America, dicevo, o più precisamente sette mesi dopo, il 3 maggio 1493 — quando il papa Alessandro VI, su esplicita richiesta dei Re Cattolicissimi di Spagna, promulga la provvida bolla Inter Coetera: con la quale si sancisce molto opportunamente la divisione dell’orbe terracqueo fra Spagna e Portogallo «affinché le nazioni barbare siano soggiogate e ridotte alla fede». L’impatto dell’Occidente bianco e cristiano con le nuovissime popolazioni del continente insospettato fu brutale e dall’esito scontato, come sappiamo e come è inutile ripetere qui: il 2 giugno 1537 papa Paolo III aveva dovuto emanare una bolla (Veritas Ipsa) per stabilire che gli Indiani d’America erano realmente uomini e non bestie, come gli Spagnoli continuavano a ritenerli; eppure ancora duecentocinquant’anni dopo il fatidico venerdì d’ottobre in cui Cristoforo Colombo aveva messo piede nell’isola poi ribattezzata Hispaniola, padre José Gumilla poteva scrivere, nella sua Historia natural, civil y geografica de las naciones situadas en las riveras del rio Orinoco (1743), che «da un punto di vista generale, l’Indiano è senza alcun dubbio un uomo. Ma, da un punto di vista morale, non ho timore di affermare che l’Indiano barbaro e silvestre è un mostro mai visto: la sua testa è ignoranza; il suo cuore, ingratitudine; il suo petto, incostanza; le sue spalle, pigrizia; i suoi piedi, paura; quanto al suo ventre fatto per bere e alla sua propensione per l’ubriachezza, si tratta di due abissi senza fondo» — un mostro, ovvero comunque un non-umano.
Sorvoliamo su Sei e Settecento, in cui ci s’interroga a più riprese sulla bontà o meno del Selvaggio, ed eccoci in pieno Ottocento — il trionfo del razzismo e la codificazione della sua ideologia. Che non nasce in terra tedesca né è frutto dell’elaborazione di un pensatore tedesco: la sua patria è la douce France, e si deve al conte Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882) la stesura di quel piccolo tremendo capolavoro che è l’Essai sur l’inégalité des races humaines, Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, scritto fra il 1853 e il 1855. È vero che de Gobineau parte dalle ricerche del tedesco Johan Friedrich Blumenbach (1752-1840): ma Blumenbach, considerato erroneamente il fondatore del razzismo scientifico, sviluppò in realtà un razzismo di tipo classificativo. De Gobineau, invece, utilizzò la ripartizione elaborata da Blumenbach per costruire un sistema valoriale-qualitativo in base al quale distinguere le razze in “superiori” e “inferiori”. Uno dei più entusiasti seguaci di de Gobineau fu lo scrittore inglese Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), grande ammiratore ed esaltatore della razza ariana, a suo avviso pura e dominatrice soprattutto nel ceppo germanico.
Per una di quelle affascinanti coincidenze che costituiscono il motore delle nostre (mie, di sicuro) curiosità, mentre de Gobineau scriveva di gerarchie razziali, dall’altra parte dell’Atlantico Harriet Beecher Stowe scriveva un romanzo di denuncia del razzismo destinato a diventare famoso — Uncle Tom’s Cabin, La capanna dello zio Tom, pubblicato nel 1853. Ne cito qualche brano — non importa precisare il contesto, è sufficiente prestare attenzione al linguaggio:
— Ascoltate, signore: — disse Giorgio con aria di gran superiorità — mio padre e mia madre sapranno come voi trattate lo zio Tom.
— I miei complimenti, giovanotto! — rispose il mercante.
— Dovreste vergognarvi di consumar la vostra vita a vender uomini e donne, e ad incatenarli come bestie feroci.
— Fino a che le signorie vostre compreranno uomini e donne, io non sarò più colpevole di loro, — disse Haley — io che ad essi li vendo. Tra comprare e vendere, non c’è gran diversità!
Poco più oltre Haley, il mercante di schiavi, si riferisce alla sua mercanzia come alla sua “mandria”, ed ecco la conversazione che ne segue, qualche pagina dopo:
— Questi vostri giovani saccenti sono sempre indocili e restii; — disse un uomo d’aspetto grossolano, dall’altra parte della sala — ecco perché sono marcati e coperti di cicatrici. Se si portassero bene, non ne avrebbero.
— Vale a dire, — soggiunse l’individuo dalle gambe lunghe — che Iddio li fece uomini, e che è una dura faccenda il mutarli in bestie.
(…)
— Certo, bisogna che [la canaglia] sia tenuta abbasso con vigore e fermezza, come saprei far io, — disse Alfredo percotendo la terra col piede come se camminasse sul capo di qualcuno.
— Ma alla fine prorompe in uno scoppio terribile, Agostino — come fu San Domingo, per esempio.
— Non saremo tanto gonzi nel nostro paese. Bisogna che ci opponiamo a questa mania dell’educazione e dell’istruzione che si cerca di far prevalere. Le classi inferiori non debbono essere educate.
— Non è più questo il tempo! — rispose Agostino. — Saranno educati. Come, non importa. Avete per sistema di allevarli con la brutalità, con la barbarie, distruggete in essi tutto quel che avevano di umano, e li riducete simili a bestie feroci; ebbene, se una volta essi avranno il sopravvento, dovremo combatterli come bestie feroci.
— Il sopravvento non lo avranno mai! — esclamò Alfredo.
Meno di un decennio dopo, e precisamente sul finire del gennaio 1863, in Italia la “Regia Commissione d’inchiesta sul brigantaggio” (istituita il 13 dicembre 1862) si reca finalmente in loco per iniziare i lavori sul campo. Ne ritornerà con una relazione in cui i “briganti” vengono definiti a più riprese “belve assetate di sangue”, “bestie efferate”. (Il risultato sarà la famigerata legge Pica, discussa il 15 agosto di quello stesso anno e varata il 7 febbraio 1864).
E, a proposito di coincidenze: nello stesso 1864 in cui l’Italia sabauda è impegnata a debellare la piaga del brigantaggio sulla scorta dell’emergenziale legge Pica, in America il colonnello Chivington, in un discorso pubblico tenuto a Denver (Colorado), sostiene la necessità di uccidere e scotennare tutti gli indiani, anche neonati — perché «le uova di pidocchio fanno i pidocchi». Poche settimane dopo, sarà Chivington a guidare il massacro di Sand Creek (29 novembre1864).
Passano trent’anni, e il 3 gennaio 1891, soltanto cinque giorni dopo il massacro di Wounded Knee, sul giornale “The Aberdeen Saturday Pioneer” compariva un editoriale in cui si poteva leggere: «Il “Pioneer” ha dichiarato in precedenza che la nostra salvezza dipende unicamente dallo sterminio totale degli Indiani. Dopo averli maltrattati per secoli avremmo fatto meglio, per proteggere la nostra civiltà, a fargli un ultimo torto e cancellare queste creature indomate e indomabili dalla faccia della terra».
Robert Venables, docente presso il Rural Sociology Department alla Cornell University, commenta: «Il direttore ed editore di “The Aberdeen Pioneer” sostenitore del genocidio è ben noto: il suo nome è Frank L. Baum. Un decennio più tardi, il suo libro “Il Mago di Oz” (1900) sarebbe diventato un classico. […] immaginate quale sarebbe stata la reazione se un editore e giornalista ex nazista sostenitore della “Soluzione Finale” avesse, dieci anni dopo la seconda guerra mondiale, pubblicato un libro per bambini in Germania. Immaginate che questo autore e il suo libro per l’infanzia fossero diventati famosi nel mondo. Immaginate un film, con una musica meravigliosa. Tutto questo sarebbe stato possibile — se la Germania avesse vinto la guerra» (Robert Venables, Looking Back at Wounded Knee 1890, “Northeast Indian Quarterly – Spring 1990” – Cornell University’s American Indian Studies Program).
Mi sono limitata (non è vero, e lo so) a qualche citazione e a qualche esempio: al riguardo, una lettura fondamentale è senz’altro Sterminate quelle bestie di Sven Lindqvist (Ponte alle Grazie 2000), preziosissimo per la comprensione delle dinamiche sottese ad ogni genocidio.
Tornando all’Olocausto, però, a suo tempo trovai illuminanti (e ancora mi sento di condividerli) due scritti politici del 1960 (!): il primo, Buchenwald è il capitalismo, apparve sul n. 1 – 15/29 gennaio 1960 de “Il programma comunista – Organo del partito comunista internazionale”; il secondo, Auschwitz ou le grand alibi, apparve a ruota sul n. 11 – aprile/giugno 1960 di “Programme Communiste – Revue Théorique du Parti Communiste International” (i testi sono entrambi disponibili in rete, il secondo anche nella traduzione in italiano: benché a tratti urticante, leggerlo è caldamente consigliato).
All’epoca, come dicevo all’inizio, ancora non si parlava di Olocausto; e nonostante che le piaghe aperte dal secondo conflitto mondiale fossero ancora fresche e dolenti c’era già chi riusciva a inciderle per evitare la cancrena. Le analisi dei due giornali comunisti convergono su di un punto — il punctum dolens di tutta la riflessione politica, consapevole o inconsapevole, del dopoguerra: se il nazifascismo era il Male assoluto ed è stato sconfitto e tutto il mondo ha gridato convintamente “mai più!”, perché dopo il 1945 la situazione mondiale non solo non è migliorata, ma è vertiginosamente peggiorata creando situazioni di catastrofe umanitaria di fronte alle quali non si può fare altro che dichiarare la propria impotenza? Perché il Male assoluto non era evidentemente il nazifascismo, povero epifenomeno di un noumeno da incubo: il capitalismo. Era questo, il Male. È questo.
Lo dice bene, con appena un filo di retorica (si usava), il giornale italiano: «Ciò che avviene è il segno del marciume che la società mercantile, la società dei bottegai e dei mercanti di prodotti, di “servizi” e di carne umana, sprigiona da sé stessa: e questo marciume non è un fenomeno patologico di cui la democrazia dovrebbe o potrebbe sbarazzarsi; è la sua stessa linfa, corrotta e corruttrice. Il metodo della “ricerca del colpevole” è tipico del capitalismo: se le cose non vanno bene, si ricerca l’ebreo, e, nello stesso tempo si devia verso l’anti-ebreo lo sdegno delle masse sfruttate».
E meglio lo ribadisce il giornale francese, al di là di un’ideologizzazione che a tratti può parere eccessiva: «Rifiutandosi di vedere nel capitalismo stesso la causa delle crisi e dei cataclismi che sconvolgono periodicamente il mondo, gli ideologi borghesi e riformisti hanno sempre preteso di spiegarli con la malvagità degli uni o degli altri. Si vede qui l’identità fondamentale tra le ideologie (se così si può dire) fasciste e antifasciste: entrambe proclamano che sono i pensieri, le idee, le volontà dei gruppi umani che determinano i fenomeni sociali. […] Il capitalismo tedesco, scosso dalla guerra, dalla spinta rivoluzionaria del 1918-1928, sempre minacciato dalla lotta del proletariato, subisce profondamente la crisi mondiale del dopoguerra. Mentre le borghesie vittoriose più forti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia) furono colpite relativamente poco, e superarono facilmente la crisi del “riadattamento dell’economia alla pace”, il capitalismo tedesco cadde nel marasma completo. Si può dire che furono la piccola e la media borghesia a patirne maggiormente, come in tutte le crisi che conducono alla proletarizzazione delle classi medie e a una maggiore concentrazione del capitale, attraverso l’eliminazione di una parte delle piccole e medie imprese. […] Il razzismo non è un’aberrazione dello spirito: è e sarà la reazione piccolo-borghese alla pressione del grande capitale. La scelta della “razza”, vale a dire del gruppo sul quale si cerca di concentrare l’opera di distruzione, dipende evidentemente dalle circostanze. In Germania gli ebrei presentavano i “requisiti” del caso ed erano i soli ad averli: essi erano quasi esclusivamente dei piccolo-borghesi, e, in questa piccola borghesia, il solo gruppo sufficientemente identificabile. Solamente su di loro la piccola borghesia poteva incanalare la catastrofe».
Nei campi di concentramento finì la piccola e media borghesia ebraica — pragmaticamente, il nazionalsocialismo intrattenne fino alla fine proficui rapporti con l’alta borghesia ebraica, composta di banchieri e industriali: «L’influenza ebraica era indubbiamente forte nelle grandi città e nelle libere professioni. […] gli ebrei erano presenti soprattutto nel commercio e nei trasporti, anche se la loro presenza nell’industria era tutt’altro che trascurabile. […] La maggior parte dei grandi magazzini erano di proprietà di ebrei; la presenza di questi ultimi era altresì predominante nel commercio dei metalli (57,3% del settore) […]. Gli ebrei controllavano inoltre il 18,7% di tutte le banche e la maggior parte dell’industria tessile. […] Ma quando gli ebrei ricoprivano alti incarichi nel campo della direzione industriale, ciò si verificava in virtù della loro efficienza e abilità; diversamente, non sarebbero stati tollerati dalla classe dirigente industriale, che era interamente antisemita. […] Molti dei cosiddetti industriali ebrei, tuttavia, avevano di fatto rescisso ogni legame con la comunità ebraica e, il più delle volte, erano cattolici o protestanti ferventi, e reazionari in politica, e avrebbero tranquillamente aderito al partito nazionalsocialista se non fosse stato così violentemente antisemita» (Franz Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Bruno Mondadori 1999, pp. 128-129). Ed è nota la frase, attribuita ora a Heinrich Himmler ora a Hermann Göring, “chi è ebreo lo decido io” (in realtà era di Karl Lüger, sindaco di Vienna dal 1895 al 1910, che la pronunciò in riferimento alla conclusione dell’affaire Dreyfus).
Dunque sia il nazifascismo sia l’Olocausto altro non sarebbero che «estreme eppure caratteristiche escrescenze della modernità», conclude Cesarani (op. cit., p. 39), concordando con l’articolo del giornale francese: «Gli orrori della morte capitalistica devono far dimenticare gli orrori della vita capitalistica e il fatto che essi sono indissolubilmente negati fra di loro. Gli esperimenti dei medici SS dovevano far dimenticare che il capitalismo compie la sua gigantesca “sperimentazione” quotidiana con i prodotti cancerogeni, gli effetti dell’alcolismo sull’ereditarietà, la radioattività delle bombe “democratiche”. Se si mostrano le abat-jour di pelle umana è per far dimenticare che il capitalismo ha trasformato l’uomo vivente in abat-jour. Le montagne di capelli, i denti d’oro, i cadaveri divenuti merce, devono far dimenticare che il capitalismo ha fatto dell’uomo vivente una merce. È il lavoro, la vita stessa dell’uomo, che nel capitalismo è merce. Sta in ciò l’origine di tutti i mali. Utilizzare i cadaveri delle vittime del capitale per tentare di nascondere questa verità, servirsi di questi cadaveri per proteggere il capitale, è il modo più infame di sfruttarli fino in fondo».
È in questo senso, e solo in questo senso, che posso sentirmi di accettare il Paragone. Uomini e animali, umani e non-umani triturati nell’unico devastante colossale ingranaggio che ha nome “capitalismo” — post-, turbo- o neo- che sia. Se cambia il nome, resta la cosa…
Marx non abita più qui, dicono. Si sarà trasferito da chi parla (ancora) la sua lingua, e (ancora) capisce concetti come oppressione, dominio, sfruttamento, reificazione, alienazione: il non-umano subisce, perché non comprende. E l’umano, comprende?
Alessandra Colla
Fonte: http://asinusnovus.wordpress.com
Link: http://asinusnovus.wordpress.com/2012/07/07/olocausto-animale-che-storia/
7.07.2012