NIENTE DA RIDERE

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DI NICOLA LAGIOIA

minimaetmoralia.it

Gianni Letta ride. Ignazio La Russa sogghigna. Walter Veltroni sorride. Renata Polverini manca poco che crolli dalla sedia scompisciandosi dalle risate. Stefano Fassina ride. Debora Serracchiani (appena eletta presidente del Friuli Venezia Giulia) letteralmente gongola. Laura Puppato e Maurizio Lupi, divisi cioè uniti dall’effetto split screen, mostrano i denti e aprono le bocche quel tanto che basta alla risata per scoprire un indizio di palato. Bobo Maroni ride. Oscar Giannino ride mettendo in bocca la falange dell’indice della mano destra. Luigi de Magistris sorride e abbassa gli occhi, poi li alza a favore di telecamera e ride, ride forte. Giorgia Meloni, nella cattiva imitazione di una scena da commedia, ride di gola e porta la testa in basso e poi la rialza di scatto facendo ondeggiare i capelli. Pierferdinando Casini singhiozza, annega nell’ilarità. Anna Finocchiaro è quasi morta dalle risate, ride fino alle lacrime. Mara Carfagna ammicca risentita, quindi sorride. Rosy Bindi ride. Mauro Bersani ride. Matteo Renzi ride.

Quando anche Elsa Fornero inizia a ridere (di gola, di pancia, di orecchie, di rughe sulla fronte) in diretta televisiva, durante una puntata di «Ballarò», ride e mostra i denti e ride ancora (Elsa Fornero) alle battute di Maurizio Crozza, battute che dovrebbero al contrario dispiacerle, mi dico che ciò che vado pensando da tempo su questo tipo di comicità (che sia in sostanza reazionaria) ha appena ricevuto la sua certificazione in carni tirate e ossa che si spostano a assecondare un riso che non ha nulla di libertario se non il sinistro piacere liberato che coglie il farabutto quando la colpa si disgrega in un rito collettivo, spacciato in questo caso per quella strana categoria della falsificazione che è la mondanità da combattimento.

Rivediamocele, quelle sequenze, mandiamo avanti e indietro il cursore di YouTube. Poi cerchiamo un orizzonte alternativo.

Penso ai clown di Shakespeare che lavorano come becchini al cimitero di Elsinore. Penso a Ettore Petrolini, l’infernale. Penso alle Vacanze di monsieur Hulot di Tati. Penso soprattutto alle risate (cavernose, e scheletriche nel momento immediatamente successivo) che ancora si levano dalle polveri della Mancia di ogni luogo. Don Chisciotte e Sancho Panza scompaiono su una curva del tramonto lunga quattro secoli.

Nulla di tutto questo è solo vagamente imparentato con la comicità televisiva di Maurizio Crozza. Non lo è con le vignette di Vauro. Non con i monologhi di Dario Fo quando stacca l’ispirazione dai sempre attuali medioevi padani (ma Ho visto un re e Mistero buffo sono tanto rievocati quanto dimenticati nella sostanza del presente) per inseguire la povertà inquisitoria – ricca di una retorica da socialdemocrazia upper class se messa in bocca a chi vuole discendere da Ciullo d’Alcamo – di un certo giornalismo d’inchiesta. Si sa, insomma, quanto il passo da giullare a buffo a menestrello sia stato, anche storicamente, molto breve.

Un critico televisivo come Aldo Grasso direbbe che il canovaccio comincia a logorarsi, ma il punto davvero non è questo.

Il punto è che, negli ultimi anni, una retorica perfettamente speculare a quella del potere ha voluto travestire molti uomini di satira e comici teatrali e televisivi da paladini degli oppressi. La stessa logica – fintamente binaria – vorrebbe di conseguenza che io, adesso, definendo reazionaria la comicità di Crozza o di un certo Benigni o Fo televisivi, affermassi di conseguenza che Crozza e Fo e Benigni sono dei venduti. Mentre no. Cercherò di non cadere nel tranello.

Questa logica, che un giornalista come Travaglio approverebbe in buona fede, è infatti la migliore forma di garanzia cui il potere oggi aspiri per conservarsi oltre i residui dell’occasionalità (quella che porta «Striscia la Notizia» a denunciare il direttore di banca che fa la cresta sulle matite ma mai il sistema del credito). La logica binaria di cui parlo colpisce cioè volta per volta i singoli uomini ma non la tecnica che li utilizza portandoli, magari loro malgrado e in un certo sciagurato senso a propria insaputa, a parlare una lingua che è l’esatto opposto di ciò che dichiara e troppo simile nell’alfabeto scenografico a ciò che intende aggredire. Il colpo di satira che “stende” Umberto Bossi libera il campo per le future incarnazioni della Lega.

Parlo di tecnica, ma alludo al furore epidemico. Senza l’una nell’altro non si spiegherebbero stagioni come il terrore giacobino. In questo consiste l’esperimento di psichiatria sociale in atto oggi nel nostro paese e dentro i nostri corpi. Il bisogno che proviamo (un bisogno spasmodico, capace di essere prima eccitato, poi preso all’amo da una logica sterminatoria) è quello di individuare chi è o sarebbe meno puro di noi (venduto, ladro, servo del potere) e farlo fuori, attesi naturalmente al varco – per ricevere il trattamento a ruoli rovesciati – da chi è o pensa di essere più puro di noi, sulla testa del quale si leva però una quarta mannaia proprio mentre lui la abbatte sulle nostre. Questo non vuol dire che (in senso figurato) ne resterà vivo uno solo, perché un certo tipo di furore epidemico si placa fisiologicamente quando ha mietuto un sufficiente numero di vittime. Ma è proprio nella consumazione cronologica di un tale rito che – di là dall’orizzonte, non visti, attivati a distanza dal furore epidemico – cominciano a montare restaurazioni, ansie autoritarie, oscuri deliri di totalità. È andando a caccia del proprio “impuro personale”, da abbattere o portare sulla gogna, che si perde di vista ciò che conta.

Il peccato, ben prima del peccatore.

Cercherò di conseguenza di non cadere nell’inganno e dirò per prima cosa che Maurizio Crozza possiede un robusto talento ed è animato dalle migliori intenzioni. Roberto Benigni possiede un grande talento ed è animato da buone intenzioni. Vauro possedeva un discreto talento, a volte riesce a riacciuffarlo per i capelli, è molto permaloso (simile a certi uomini di potere ha la querela facile verso chi, attaccato con vigore in una sua vignetta, rimanda l’accusa al mittente) e sembra animato dalle buone intenzioni di una tradizione che fatica a riportare viva sulla carta da disegno. Dario Fo possedeva grandi intuizioni e ora prova in modo forse ancor più faticoso (e nebuloso) a declinarle contro un re (e un vescovo, un sacrista, un sciur) i quali – negli ultimi trent’anni – hanno prestato una parte del loro immaginario proprio ai giullari che avrebbero dovuto smutandarli. Tutti animati da capacità non comuni e buone intenzioni, e tuttavia nessuno (Crozza, Fo, Benigni, Vauro e così via) davvero in grado di turbare il potere oltre la singola persona che occasionalmente lo incarna, e questo perché il loro linguaggio non lascia immaginare mondi altri da quello che il potere stesso fabbrica proprio sotto i nostri piedi per perpetuarsi.

Per spiegare meglio il concetto, mi limiterò alle ‘pillole’ di Crozza a «Ballarò», cioè il caso attualmente più popolare in Italia, ma credo che il ragionamento possa estendersi a molti altri comici.

1) Come accennato, i monologhi di Crozza alla presenza dei politici seguono la logica del pubblico confessionale. Il comico si rivolge per esempio a Renata Polverini – puntata del 25/09/12 –, inizia a prenderla in giro scusandosi di non parlare al suo cospetto vestito da maiale (l’allusione è agli scandali della Regione Lazio con relativi festini in maschera), la dimissionanda presidente della Regione scoppia a ridere ed è in questo modo (le forche caudine di una risata) che, sempre pubblicamente, recita i dieci Paternostro e cinque Ave Maria attraverso cui il peccato, se non del tutto rimesso, da elevato oggetto di giudizio è immesso nuovamente nella trama che rafforza il terreno condiviso. Il meccanismo vorrebbe essere quello del bambino che dice: “il re è nudo”, ma non è così. Primo: perché che il re fosse nudo (l’esempio dello scandalo della Regione Lazio) lo si sapeva molto bene sin da prima. Secondo: perché in un mondo in cui il re non si vergogna più di andarsene in giro nudo – né questo genera uno scandalo sociale così potente da detronizzarlo – additarne le pudenda possiede per un comico, retoricamente, il significato del buffetto scherzoso.

2) A sbertucciare il sovrano per tradizione è l’innocenza di un bambino spuntato per caso tra la folla. Oppure un giullare che, in quanto fuori casta, può permettersi di dire cose che ad altri non sarebbero concesse. Proviene, appunto, da un altro mondo. Vede cose che altri non vedono. Un comico come Maurizio Crozza può arrivare a prendere per una singola serata (ad esempio quella di Sanremo) un cachet di duecentocinquantamila euro. Economicamente, non di rado, è lui più solido dei politici che attacca. È più popolare, può parlare ininterrottamente per più tempo da palcoscenici più vasti di quelli concessi a un ministro. È tutt’altro, insomma, che un debole tra i forti. Questo non solleva necessariamente uno scandalo di tipo etico sull’immane sperequazione economica rispetto per esempio ai tecnici delle luci dello stesso spettacolo (ma forse invece sì, sul piano però di un discorso diverso da quello che sto facendo). Questo, crea piuttosto problemi di linguaggio.

3) Molti comici (televisivi e non) attaccano gli uomini politici muscolarmente. Usano, cioè, velato da ironia, il metro con cui gli stessi politici misurano l’efficacia delle proprie azioni: la forza e i suoi effetti. Un comico che accogliesse i potenti sventolando bandiera bianca anziché caricando a testa bassa (non a caso Beppe Grillo è la perfetta sintesi dei due mondi) già comincerebbe a discostarsi dalla loro griglia alfabetica. Ma non sarebbe ancora sufficiente.

4) E qui veniamo al cuore del problema. Maurizio Crozza, Dario Fo, un certo Benigni televisivo, Vauro, Beppe Grillo (non a caso quasi mai imitato da altri comici nella sua nuova veste di politico) piastrellano i loro monologhi, le loro battute, le loro vignette, la loro narrazione col materiale (spesso di risulta) del mondo che biasimano, come se fosse l’unico concepibile. Togli da quei racconti le olgettine, le tangenti, i finanziamenti pubblici, la violenza sbracata dei leghisti, gli artigli della Santanché, l’indolenza di Ingroia, l’inconcludenza di Bersani, taglia dal racconto dei comici la scenografia del potere che attaccano e non resterà niente. Quando Berlusconi accusa alcuni suoi oppositori presentandosi come il loro core business, mente (nella difesa del proprio indifendibile) dicendo tuttavia la verità verso i “nemici”.

Che cosa sto dicendo? Che questi comici sono diventati a propria insaputa dei nichilisti. Credono che l’alfabeto del potere (per quanto rivolto contra se ipsum) contenga i confini del possibile. Non è così.

Pensiamo allo spirito lunare di un certo Totò. Agli incubi comici di Kafka. Alla comicità ghignante di Céline. All’infernale Petrolini che ho citato. Ai mondi assolutamente vivi – risuonanti di risate – di Ciprì e Maresco. Ancora i clown soprannaturali di Shakespeare, ancora il Cavaliere dalla Trista Figura. L’horror suite carnevalesca di Carmelo Bene, il quale, quando diceva: “ci vorrebbe una catastrofe, un’epidemia: solo così, forse, potremo tornare a ridere” chiamava in causa il terribile genio comico di Artaud col suo “teatro della peste”. Anche i migliori momenti di uno spettacolo di Antonio Rezza. E poi Buñuel, Beckett, i fratelli Marx.

In tutti questi casi accade qualcosa di molto diverso rispetto a ciò di cui abbiamo parlato fino ad ora.

Roberto Calasso, nella Folie Baudelaire, rimette la questione sui giusti binari. Indagando il significato di un sogno che per l’autore dei Fiori del male fu quasi un’ossessione, svela qualcosa di decisivo (molto inquietante, molto bello) a proposito del riso. Nel sogno di Baudelaire una ragazza si aggira nei pressi del Palais-Royal. La fanciulla è la quintessenza dell’innocenza virginale. Il Palais-Royal (con i suoi caffè e i gabinetti scientifici e le belle donne in vendita) era al contrario nel XIX secolo una sorta di tempio del caos e della corruzione. Camminando sotto i portici del Palais, la fanciulla del sogno mette gli occhi sul tavolo di un vetraio, dove nota “una qualche immagine sporca, attraente e provocante”. Qualcosa di perturbante, che scuote profondamente la ragazza, le provoca malessere e, quasi contemporaneamente, la fa scoppiare a ridere. Cosa si è consumato, tra la paura e la risata? Un attimo conoscitivo.

“Il saggio ride se non tremando”, scrive Bossuet. E il comico non ha come propria vocazione la pernacchia al potente di turno presupponendo come sfondo una scenografia immutabile. Il comico, al contrario, spalanca mondi. (Non è un caso che le vignette satiriche abbiano ormai un vero effetto eversivo solo nei regimi totalitari: appunto perché in quei casi provengono semanticamente da un altro mondo rispetto a quelli per esempio dell’Iran o della Corea del Nord). La risata che ci scuote nel profondo arriva a lambire qualcosa del nostro segreto di specie. La Prima guerra mondiale raccontata da Céline, è (linguisticamente) un altro mondo rispetto al racconto ufficiale della guerra. Il mondo comicamente concentrazionario di Kafka esiterà sui libri di Storia solo diciotto anni dopo la pubblicazione della Metamorfosi, ma è tuttavia già presente (in una forma ancora disinnescabile?) oltre una stretta porta collocata in Europa centrale. Le risate di Bene, di Totò, di Artaud, di Cervantes, di Groucho Marx aprono porte verso mondi tutt’altro che inesistenti. Non è l’escapiscmo o l’esotismo anni Novanta (gli inesistenti mondi dell’intrattenimento d’autore). È al contrario (come direbbe Freud, o forse Heisenberg?) il dislivello, la discontinuità improvvisa, il passaggio oltre il quale scopriamo che il mondo – persino nel male – è ben più vasto di ciò che crediamo di vedere.

Una comicità (una narrazione) che mostri (non inventi) l’esistenza di altri mondi rispetto a quello immaginato dal potere (cioè il potere stesso), è la scure che spezza le catene. È un invito al trasloco, all’avventura lanciata verso qualcosa di ben diverso (non contrario e speculare) rispetto all’asfittica stanza del discorso quotidiano.

Ma fino a quando Maurizio Crozza attaccherà Ignazio La Russa rivoltandogli contro le sue stesse parole non usciremo mai dalla coazione a ripetere.

Nicola Lagioia
Fonte: www.minimaetmoralia.it
Link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/niente-da-ridere/
17.06.2013

Questo pezzo è uscito su Lo Straniero

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