Di Matteo Parigi per ComeDonChisciotte.org
Nel dicembre del 1917, a distanza di un anno dalla fine del Primo conflitto mondiale, Weber tenne a Monaco la conferenza dal titolo Wissenschaft als Beruf (la scienza come professione) dalla quale emerge una illuminante descrizione dell’etica scientifica nella società moderna, nonché del ruolo, o meglio la responsabilità, che essa affida chi intende perseguirla. Tra l’altro, nell’arco di tutta la sua vita, Weber si è occupato molto di razionalità e razionalizzazione. Il primo concetto esprime le modalità e la natura naturans immanente alle azioni sociali umane. Sono suoi, infatti, i quattro tipi classici di razionalità; l’agire umano, secondo la prospettiva sociologica, può infatti risultare:
- Razionale rispetto allo scopo = il soggetto agisce scegliendo i mezzi migliori per raggiungere lo scopo, cercando di valutare tutte le conseguenze.
- Razionale rispetto al valore = agire giustificato secondo le credenze e i valori etici-morali dell’individuo, anche a discapito dell’utilità calcolata in termini materiali.
- Tradizionale = il soggetto agisce per abitudine; non vi è effettiva coscienza o ragione dietro alla eventuale routine quotidiana.
- Affettivo = il soggetto è mosso da sentimenti, emozioni o altre influenze non razionali.
Il secondo invece, rappresenta per Weber quel lungo processo che ha forgiato il mondo moderno, ossia la lenta e graduale uscita dell’umanità (occidentale in primis) dal pensiero magico e tradizionale di origine classica-medievale. Già nelle prime pagine de “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” Weber descrive con limpida chiarezza in cosa consista la ragione scientifica, causa di quella grande divergenza culturale dell’Europa rispetto al resto del mondo. Infatti, nonostante in India, Egitto, Cina, Babilonia ecc. si svilupparono progressi scientifici e artistici, dal quale pure gli antichi europei, attinsero «solo in Occidente la “scienza” ha raggiunto, nel suo sviluppo, quello stadio a cui oggi, riconosciamo “validità”[1]».
Tuttavia, dopo millenni di avanzamento tecnico-scientifico l’umanità è più ignorante, nel senso che ignora, come si suole dire. Lo stesso Weber descrive il processo in modo tutt’altro che ottimistico. Tornando alla conferenza sulla Wissenschaft, spiega con acutezza come in realtà l’imposta razionalizzazione iper-tecnicistica non abbia affatto annullato il ricorso alla magia e alla fede superstiziosa: per fare un esempio, chiunque oggi prenda il tram, a meno che non sia un esperto in ingegneria o nei trasporti, non ha la minima idea di come possa funzionare in termini tecnici; ciascuno si affida all’abitudine e alla credenza che il mezzo faccia in qualche modo il suo lavoro. Lo stesso vale per la stragrande maggioranza delle cose che ci circondano. Al contrario, un selvaggio allo stato di natura ha una conoscenza effettiva, totale e personale delle tecniche di cui usufruisce per il sostentamento della sua vita. L’uomo (medio) moderno, al contrario del selvaggio (ma lo stesso vale per un piccolo imprenditore europeo del XIII secolo) non conosce quasi niente del suo mondo.
Ivi risiede il nocciolo della questione: la scienza moderna, lungi dall’aver superato le superstizioni e gli idoli magici del passato, è dotata essa stessa di puri dogmi che la contraddicono. O meglio, emergono nuovi Dei, sorti sul cadavere del nietzschiano Dio morto. La Ragione deificata ha messo da parte il socratico dialogo con sé stessi, il logos. È la conferma dell’avvertimento di Chesterton:
«Quando la gente smette di credere in Dio, non è vero che non crede più in niente: crede a qualsiasi cosa».
Il contraltare della vera religio di agostiniana memoria non è l’assenza di religione, di fede; è l’apoteosi dei phantasmata (φάντασματα), i falsi idoli della caverna come li chiamava Platone. La nuova tecnocrazia scientista è così diventato il nuovo clero; le teorie e i meri pareri degli esperti, che siano medici o economici, si affermano con la stessa carica dogmatica di una bolla papale, sebbene spesso abbiano tutt’altro di sicuro a livello scientifico.
C’è da dire che – spiega Weber – l’esponenziale “intellettualizzazione e razionalizzazione”, sebbene non contribuisca alla maggiore conoscenza delle condizioni di vita, ha comunque permesso una importante svolta copernicana:
«La coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza [che si può] dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale[2]»
Tuttavia, immediatamente dopo aggiunge: «Ma ciò significa il disincantamento del mondo». L’umanità si è imprigionata in una gabbia d’acciaio al riparo della quale si protegge dagli antichi nemici: astrologia, magia, alchimia, misteri sapienziali. Le vittime della sua stessa repressione violenta, dall’epoca della Riforma che fece strage di streghe e norme etiche a difesa del sacro. Non a caso oggi assistiamo al ritorno di tali saperi (v. Giorgio Galli) dal momento che cotale razionalismo illuministico non ha saputo alla fine dare all’uomo la conoscenza delle conoscenze, il fine ultimo della vita e delle cose tra loro interconnesse. Lo specialismo avalutativo di cui lo stesso Weber si fa consapevole sostenitore, presuppone la resa nei confronti del senso della vita e della spiegazione completa dei fenomeni.
Tolstoj, citato da Weber, affermava che ormai la morte non ha più un senso per l’uomo, nella misura in cui la tecnica e la scienza presuppongono un progresso infinito; l’uomo e il suo Dasein si riducono a mera giustapposizione infinitesimale di un universo in continuo superamento di sé stesso. La morte, per un universo che necessita di progresso, non ha senso, è una interruzione scomoda. Allo stesso modo, non possiamo più sentirci “sazi di vita”: un antico contadino poteva ottenere tutto ciò che la vita aveva da offrigli nel suo ciclo organico e morire senza l’ansia della sospensione di qualcosa. Oggi invece lo spirito coglie soltanto una parte frammentata, minima e provvisoria. Pertanto «poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale[3]».
Infine, il disincanto weberiano si manifesta nel limite connaturato alla scienza:
«Essa è priva di senso – citando Tolstoj – perché non da alcuna risposta alla sola domanda importante per noi esseri umani: che cosa dobbiamo fare?[4] ».
Uno dei rimedi al problema potrebbe derivare da una “scienza senza presupposti”; tuttavia, qualsiasi disciplina di per sé non può farne a meno. Per fare un esempio, i medici attribuiscono valore positivo alla perenne e inviolabile conservazione della vita in quanto tale. Non esiste (per fortuna) medico al mondo che lasci morire una vita sotto il suo controllo; ma il presupposto che la vita in quanto tale sia degna di essere mantenuta sempre a prescindere non si spiega di per sé; sicuramente non lo fanno gli “addetti all’opera”. Il problema, quindi, esiste e riguarda non tanto il contenuto, perché è vero che la vita va mantenuta ed è sacra, ma chi si deve occupare e in che modo della questione. Perché, come detto, le discipline scientifiche contemporanee non sono per essenza in grado di assolvere al compito. Ed è qui che la gabbia d’acciaio risulta gelidamente stretta.
Al nodo gordiano l’autore non avrà modo di dare una risposta. Muore infatti nel 1920 a soli 56 anni a causa della spagnola, dopo aver partecipato come delegato per la Germania alle conferenze di Versailles per la pace. Rimane, tuttavia, l’eco di un dilemma appena sussurrato:
«Nessuno sa ancora chi nell’avvenire vivrà in questa gabbia e se alla fine… [sorgerà] una rinascita di antichi pensieri e ideali»
Di Matteo Parigi per ComeDonChisciotte.org
18.12.2022
NOTE
[1] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, p.33, BUR Rizzoli, 2016
[2] M. Weber, La scienza come professione/La politica come professione, p.20, Einaudi, 2004
[3] Ivi p.21
[4] Ivi p.26