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La Redazione

 

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MALATO È IL CALCIO NON I TIFOSI

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A cura di Davide
Il 19 Aprile 2005
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DI MASSIMO FINI

È perfettamente inutile che il Viminale e la Federcalcio adottino la “tolleranza zero”, decidano la sospensione della gara, la sconfitta a tavolino per la squadra di casa e la squalifica del campo al primo petardo lanciato sul terreno di gioco, che il questore abbia la facoltà di non autorizzare la partita se in città, prima del match, sono avvenuti tafferugli, che gli ingressi siano aperti in anticipo per permettere perquisizioni sempre più accurate, anche con personale femminile, che schiere di poliziotti siano impegnati durante la settimana per la bonifica degli stadi e dei loro dintorni, che si minaccino leggi e pene severissime per i trasgressori, più severe di quelle che puniscono (o meglio non puniscono) gli autori di reati finanziari gravissimi, che si vogliano addirittura proibire gli striscioni non “politically correct” e che, insomma, si cerchi di scoraggiare in tutti i modi i tifosi violenti.È perfettamente inutile perché malati non sono i tifosi, malato è il calcio. Violenti non sono i tifosi, violento è diventato il calcio, per essere più precisi, la malattia e la violenza dei primi sono la conseguenza della malattia e della violenza del secondo.

Il calcio era una straordinaria festa nazionalpopolare, un rito collettivo che si celebrava la domenica come la messa, carico di significati simbolici, mitici, sentimentali, identitari. Ed era anche una pacifica metafora della guerra che, con le urla, gli insulti all’arbitro nella funzione farmaceutica di “capro espiatorio” (in greco il “capro espiatorio” era chiamato “pharmakos”) gli striscioni anche truculenti, serviva a scaricare l’aggressività naturale che è in ciascuno di noi, a canalizzarla in modo intelligente, a controllarla.

Nel corso del tempo tutti questi motivi rituali, mitici, simbolici, identitari sono stati spazzati via dallo show-business. Quell’antica festa è stata ridotta a una pura partita di denaro, a un affare colossale, con in gioco interessi economici enormi, televisivi e pubblicitari. Le partite sono state spalmate sull’intera settimana, e quando non c’è il campionato, il martedì e il mercoledì c’è l’odiosa Champion’s League al posto della vecchia, cara Coppa dei Campioni cui partecipavano ad eliminazione diretta solo le squadre che avevano vinto lo scudetto e quindi con un numero di incontri molto minore, il giovedì c’è l’Uefa. Di calcio si parla, invece che il lunedì mattina negli uffici, nelle fabbriche, al bar, tutta la settimana in talk-show demenziali con protagonisti altrettanto demenziali. I giocatori non sono più solo giocatori, dei in campo e gente qualunque fuori, ma testimonial, sponsor, divi del jet set internazionale di cui i giornali raccontano amori, fidanzate, figli, famiglia (ma perché mai, perdio, devono sapere tutto delle scopate di Totti? Totti lo voglio, e lo devo, vedere solo in campo a fare le cose straordinarie che sa fare e stop).

Come si poteva pensare che proprio i tifosi, e in particolare il lumpenproletariat più emarginato che si nutre solo di pallone, sfuggissero a questa enfiagione mostruosa del calcio, a questo autentico cancro che dirama ormai la sue metastasi in tutte le direzioni? Anche i tifosi vogliono sentirsi protagonisti di questo Barnum e ritagliarsi la loro fetta di importanza. La loro violenza fisica è un riflesso della violenza economica che è ormai la vera cifra del calcio. Le partite, oggi, non sono più partite ma sopraffazione economica di chi ha più denaro e può comprarsi ogni anno i giocatori migliori, i più forti tecnicamente, i più attrezzati fisicamente, strappandoli alle altre squadre d’Italia, d’Europa, del mondo, su chi ne ha meno. Inoltre nel tifoso che getta oggetti sul campo, danneggiando la propria squadra, la “squadra del cuore”, c’è, seppure inconscio, il sottile e masochistico piacere di partecipare anch’egli alla definitiva demolizione di un meraviglioso giocattolo che gli è stato distrutto sotto gli occhi. Il tifoso violento è come il bambino che, per rabbia, calpesta il giocattolo che qualcun altro gli ha rotto. E non è il peggiore in questa storia. L’estate di due anni fa gli ultras di 78 squadre di A, B e C manifestarono, molto civilmente e senza dar luogo ad alcun incidente, sotto la sede della Federcalcio a Milano al grido di: «Ridateci il calcio di una volta». Con i numeri dall’1 all’11 come una volta, con le partite giocate solo il pomeriggio della domenica come una volta, con giocatori che non passino da una squadra all’altra ogni campionato o addirittura durante il campionato, con meno peruviani, coreani, nigeriani in campo e più “enfants de pays” e così via. Ma non sono stati ascoltati. Sono stati anzi irrisi come individui fuori dal loro tempo. Bene, allora i tempi sono questi. Teneteveli.

Massimo Fini
Fonte:www.ilgazzettino.it
19.04.05

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