«La fabbrica del consenso»
DI RAPHAEL MEYSSAN
Vista idealmente come un contropotere, la stampa viene accusata di non
fare
il suo lavoro critico e di creare approvazione attorno al potere. La
critica
tradizionale dei mass-media vede in tutto ciò la conseguenza del
dominio di
alcuni gruppi economici. Ma possiamo pensare che il punto d’arresto
vada ben
oltre: esso va ricercato nella nozione stessa di «informazione». Questo
termine, ormai correntemente utilizzato, esprime, infatti, un punto di
vista
filosofico e un modo di stare al mondo. L’ideologia dell’informazione è
diventata lo strumento del beneplacito e dell’assoggettamento delle
popolazioni.
Diversamente dalle apparenze, il concetto di libertà d’informazione è
opposto al concetto di libertà d’espressione. La libertà d’informazione
consiste nella diffusione di una cosa conosciuta e sicura. La libertà
d’espressione,
invece, è la presentazione pubblica di una visione personale. La prima
libertà presume una verità oggettiva, la seconda sottintende che questa
verità verta sul rapporto che noi instauriamo con una cosa piuttosto
che
sulla cosa stessa.Il sistema dell’obiettività/soggettività
Ciò che noi chiamiamo «informazione» è in realtà un termine tecnico: si
tratta di un determinato dato su di una cosa. Questo dato ha per noi un
carattere scientifico e deve essere esatto. Un’informazione è vera o è
falsa. Nel momento in cui si hanno due informazioni contraddittorie,
una
deve far posto all’altra: «non è possibile dire tutto e il contrario di
tutto». Le informazioni in nostro possesso possono tuttavia essere
incomplete, ma l’informazione in sé non può essere incompleta poiché si
tratta di un dato conosciuto e certo che può essere completato grazie
ad
altri dati.
Per descrivere una cosa, un avvenimento o un fatto, dobbiamo fornire
delle
informazioni oggettive in merito. Difficilmente riusciamo a sottrarci
alla
nostra soggettività ma, nonostante tutto, bisogna puntare verso
l’obiettività
con tutta la forza e l’onestà incrociando i diversi punti di vista
soggettivi e prescindendo dalle opinioni personali per quanto sia
possibile.
L’oggettività è, dunque, un ideale irraggiungibile ma verso cui mirare
tenacemente.
L’oggettività è anche il principio fondamentale alla base
dell’informazione.
Se riusciamo a fornire delle informazioni oggettive su qualcosa è solo
perché questo qualcosa è oggettivo e non ha bisogno di noi per
esistere, ma
esiste al di fuori di qualsiasi relazione che possa avere con noi.
La logica apparente di tutto ciò non deve portare ad evitare il
dibattito
filosofico sull’obiettività, dibattito che, molto spesso, viene ridotto
alla
questione della soggettività. Bisogna ammettere che non è possibile
conoscere un fatto in maniera oggettiva e che dobbiamo accettare e
rendere
nota la soggettività con la quale veniamo a conoscenza del fatto.
Tuttavia,
la soggettività sembra essere, in questo caso, la critica che
l’obiettività
accetta nei suoi confronti. Si trova nello stesso sistema di pensiero.
L’obiettività
afferma che le cose sono per come sono. La critica soggettiva concorda
e si
limita a presentare un metodo di osservazione: tutto dipende dal punto
di
vista dal quale guardiamo le cose, per cui è necessario specificare da
quale
punto di vista parliamo, e anche necessario incrociare punti di vista
differenti per avvicinarsi alla verità oggettiva. L’ideale di una
verità
oggettiva continua a rimanere. La critica soggettiva, nella sua
espressione
più forte, mette in evidenza l’impossibilità di venire a conoscenza di
questa verità. Nell’espressione più debole, invece, si limita ad
esprimere
un parere, un’opinione senza metterli in dubbio: «questo è quello che
penso
su ciò che tutti sanno». Il dibattito filosofico sull’informazione non
si
limita, dunque, ad affermare le soggettività.
La relazione e il problema della nostra collocazione nel mondo
Questa argomentazione apparentemente sensata tra obiettività e
soggettività
tralascia un elemento fondamentale: la relazione. E’ vero che una cosa
non
ha bisogno di me per esistere, ma se ne parlo è perché c’è una
relazione tra
me e la cosa, come minimo essa si trova nel mio campo di percezione in
un
momento ben preciso. In pratica, ha una relazione con me che ne parlo
altrimenti non ne sarei neanche a conoscenza. Credo, del resto, che sia
utile parlarne perché la cosa che riesco a percepire può avere
un’incidenza
nella mia vita (direttamente o indirettamente, fisicamente o
intellettualmente ecc.). Il rapporto che ho con la cosa di cui parlo
diventa
adesso il nocciolo della questione e qualunque cosa dirò in proposito
parlerà di noi, cioè del rapporto tra me e la cosa.
Il dibattito sull’oggettività delle cose e sul punto di vista obiettivo
e
soggettivo è privo di valore se si prende come punto di vista la
relazione.
Anzi, la questione della relazione comporta una nuova presa di
coscienza
sull’uso dei concetti di informazione e di obiettività. Quando penso in
termini di relazione, mi interrogo sull’influenza che una determinata
cosa
ha su di me e su quella che io posso avere su di lei. Quando mi trovo
all’interno
del sistema dell’informazione e dell’obiettività, prendo conoscenza di
una
cosa e questa conoscenza non ha, a priori, alcuna influenza su di me,
così
come non intacca la mia capacità d’azione. Il pensiero della relazione
sottintende, quindi, l’interazione tra me e il mondo: esamina
l’influenza,
la determinazione del mondo nei miei confronti e interroga la mia
capacità d’azione.
Pensare in termini di relazione fa emergere la problematica della
nostra
collocazione nel mondo. Capiamo perfettamente quando la parola
«informazione» non è un termine tecnico bensì un concetto filosofico in
cui
ritrovare una concezione del mondo. La forma di pensiero oggettivo
implica
un oggetto di studio. L’obiettività presume l’oggettivazione del mondo.
Non
viviamo più in relazione col mondo ma viviamo tra le cose. La nostra
attività non pensa in termini di relazioni ma di gestione di cose che
ci
permettono di disporre di una conoscenza. Per cui, lo spostamento
impercettibile a cui abbiamo assistito della libertà d’espressione
verso la
libertà d’informazione è parallelo alla sottovalutazione della capacità
d’azione
del cittadino e alla comparsa della figura del gestore. Abbiamo
considerato
il mondo un insieme di oggetti; adesso, la nostra vita consiste nel
gestire
questi oggetti. E se riusciamo a percepire tutto come se fosse oggetto,
riusciremo anche ad accettare di essere reificati. Il triste disincanto
del
mondo nasce, quindi, come il prodotto dell’ideologia dell’obiettività.
Giornalisti, sociologi ed esperti lavorano in questa direzione.
Lo spodestamento dal mondo
Secondo la logica dell’informazione, l’acquisizione di conoscenze è
fine a
se stessa. Ad essa è rivolta l’attenzione delle università ed è
l’obiettivo
di ogni intellettuale. Pertanto, la formazione di un giornalista
corrisponde
all’apprendistato di alcuni tecnici del mestiere e all’assorbimento di
una
«cultura generale». L’uomo colto, il cui sapere enciclopedico comporta
ammirazione, ha preso il posto della figura del saggio, figura che non
esiste nella società dell’informazione. Ma, mentre «l’insieme delle
conoscenze» cresce vertiginosamente, l’essere umano perde il suo legame
col
mondo. Da L’Étranger di Camus ai personaggi di Kafka, in tutta la
letteratura domina la figura di un essere estraneo alla sua vita.
Perduto in
un mondo incoerente e assurdo, egli osserva, analizza minuziosamente,
decostruisce e alla fine non trova nulla che lo collega a quel mondo.
L’uomo
enciclopedico non conosce l’esperienza. E’ interessato a tutto ma
niente lo
riguarda.
Per questo motivo il concetto di informazione rende lecito il nostro
spodestamento dal mondo. Pertanto, non sembra più intollerabile che
altri
osservino la realtà per noi e ce la riferiscano: si tratta
semplicemente di
tecnici che ricevono e trasmettono informazioni. Un giornalista
obiettivo è
un intermediario tecnico che non deve far trasparire opinioni personali
per
non creare interferenze tra noi e l’informazione. I mass-media non sono
considerati dei mediatori tra noi e il reale ma dei mezzi di
informazioni
neutrali. E, così come abbiamo appurato che l’«informazione» non è un
termine tecnico, neanche i mass-media sono un mezzo tecnico. Essi non
hanno
conosciuto la rivoluzione che il cristianesimo ha vissuto con la
Riforma.
Prima della rivoluzione di Martin Lutero, i preti venivano considerati
gli
intermediari naturali tra i credenti e il divino. Dopo la Riforma,
tutti
hanno avuto la possibilità di leggere la Bibbia e di capirla senza
l’intermediazione
di un’autorità ecclesiastica. La stampa ha portato le popolazioni delle
democrazie ad una situazione che esisteva prima della Riforma. Non è
più
possibile aver conoscenza della realtà senza l’aiuto di terzi.
Nell’immaginario
collettivo il giornalista non è colui che fa da cuscinetto tra noi e la
realtà ma è colui che ci permette di avere la conoscenza della realtà.
Questa situazione è giustificata dalla contraddizione che esiste tra la
nostra mancanza di tempo o di mezzi e la sete di conoscenza che abbiamo
dentro. Ci piacerebbe sapere quello che succede nell’altra parte del
mondo
ma non disponiamo dei mezzi necessari, tanto più che molti altri
argomenti
catturano il nostro interesse. Ma cos’è questo «interesse»? L’interesse
si
basa su cose con cui noi non riusciamo ad instaurare un rapporto: non
possiamo recarci sul posto, non abbiamo il tempo da dedicare a tutto
ciò. Ma
sosteniamo che influenza la nostra vita, soprattutto quando ci rendiamo
conto che siamo in grado anche di condizionare. Come è possibile? Come
potremmo influire su di una cosa che neanche riusciamo a vedere e con
la
quale non possiamo avere una relazione? Attraverso la delega,
naturalmente.
Affidiamo ad altri, una buona volta, l’incarico di agire a posto
nostro. Non
parliamo più di giornalisti, la cui funzione si limita a riportare, ma
di
politici, per esempio, di umanitari o di militari. In questo modo,
delegando, agiamo su delle cose di cui abbiamo conoscenza solo
attraverso
degli intermediari. Si potrebbe ridefinire il nostro margine di
manovra:
permettiamo che si agisca a nome nostro su cose asserite da altri.
L’informazione
non produce l’azione ma l’approvazione.
Gli intellettuali statunitensi Noam Chomsky e Edward S. Herman hanno
analizzato, attraverso la stampa, la fabbrica del consenso come il
risultato
del sistema economico (Manufacturing Consent, Pantheon Books, 1988 ;
edizione francese: La Fabrique de l’opinion publique, Le Serpent à
plumes,
2003*. Ora, la creazione di approvazione non è una deriva del
giornalismo d’informazione
ma è la sua stessa funzione. Importa poco che i giornali siano
sottomessi a
delle multinazionali e a dei finanziatori pubblicitari. Concepiti per
dare
informazioni, non possono fare altro che fabbricare approvazione.
Infatti,
sono stati un approccio intellettuale di sottomissione nei confronti di
terzi. L’uomo enciclopedico è estraneo all’azione. E’ il ricettacolo
passivo
di informazioni astratte. In qualità di spettatore educato, gli capita
a
volte di non permettere determinate cose e di criticare. Critica senza
portata, che ha come unico effetto quello di tranquillizzare lo
spettatore.
La condizione di spettacolo in cui ci troviamo può essere, quindi,
analizzata come la forma mentis provocata dell’ideologia
dell’informazione.
Bisogna rendersi conto dei rapporti fondamentali del semplice concetto
d’«informazione».
L’ideologia dell’informazione comporta una mentalità, un modo peciso di
stare al mondo: conoscenza astratta, distacco da qualsiasi relazione
personale o collettiva; reificazione del mondo, che ritorna ad essere
un
semplice oggetto di studio; gestione delle cose; gestione degli esseri
ridotti a stato di cose; passività nell’acquisizione della conoscenza;
sottomissione verso terzi e pure delega della capacità d’agire sul
mondo;
condizione di spettacolo; approvazione; critica da spettatore;
passività. La
salvaguardia dell’ideologia dell’informazione è il metodo usato per
mantenere i cittadini nella condizione di spettatori consenzienti e
critici.
Nessuna lotta democratica può essere combattuta se si accetta questo
tipo di
ideologia radicalmente contraria alla lotta. Secondo i principi
democratici,
l’informazione – e quindi la «libertà dell’infomazione» – deve essere
combattuta in quanto ideologia dell’asservimento. Noi, invece, dobbiamo
difendere la libertà d’espressione che racchiude in sè la relazione,
l’azione
e l’impegno.
Discutere del mondo non è un atto descrittivo ma un’azione
performativa: non
ci si limita a dire una cosa così com’è ma la si fa esistere in maniera
particolare. Attraverso una descrizione pseudo-scientifica,
l’informazione
riduce il mondo ad una oggettività apparente. L’espressione permette al
mondo di esistere in mille modi. L’espressione si apre su di una realtà
molto più ricca, più densa e più complessa di quella realtà costituita
dall’ideologia
dell’informazione. Ma la cosa più importante è che ci ridà una
collocazione
nel mondo e rende effettiva la nostra capacità d’azione.
Raphaël Meyssan
Per gentile concessione di Reseau Voltaire
1.03.05
Traduzione per www.comedonchisciotte.net a cura di Floriana Figura
* Edizione Italiana Noam Chomsky – Edward S. Herman “La fabbrica del consenso” – Marco Tropea Editore – 1998 –