L’economia della “guerra infinita”

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(Intervento di Vladimiro Giacché al convegno di Pisa “Mediterraneo para bellum”)

1. Premessa

Il tema di questa relazione si presta ad un duplice svolgimento. Si può cioè con essa provare a rispondere a due distinte domande:
1) quale economia occorre per mettere in atto una “guerra infinita”?
2) a quale situazione economica risponde la “guerra infinita”?
Del primo tema si sono occupati tutti quei critici dei più recenti sviluppi della politica estera USA i quali ritengono che l’attuale sforzo bellico statunitense non sia alla lunga economicamente sostenibile (1). Si tratta di una prospettiva certamente non priva di un suo fondamento. Essa valorizza una essenziale differenza tra la guerra nel Vietnam e quella dell’Irak – una differenza sfavorevole per gli Stati Uniti di oggi: se all’epoca della guerra del Vietnam gli Usa erano la potenza economicamente egemone (in termini di produzione, di attivo della bilancia commerciale ecc.), oggi le cose non stanno più così. In termini puramente economici, gli Usa non possono permettersi un prolungato dispiegamento di forze in Irak; più in generale, non possono permettersi né una presenza militare diretta – come l’attuale – in gran parte del mondo, né le attuali, spaventose spese in armamenti (2). È un punto di vista in fondo ottimistico: l’imperialismo americano sarà sconfitto (anche e soprattutto) per motivi economici.

Le cose, purtroppo, non sono così semplici. Per questo la domanda più interessante a cui rispondere è la seconda: a quale situazione economica risponde la “guerra infinita”? La risposta è semplice: ad una situazione di grave crisi, di crisi strutturale. È questo che rende la situazione internazionale attuale così grave (e, tra le altre cose, la posta in gioco della guerra in Irak così alta).
2. La crisi Usa

Il mantra dell’economia Usa che “vola”, “traina il resto del mondo”, esprime un “balzo” della produttività, mantiene una bassa disoccupazione, ecc. ecc., rappresenta uno dei luoghi comuni più ricorrenti della nostra pubblicistica economica (tra le peggiori del mondo in termini di qualità dell’informazione fornita). I dati, però, ci raccontano una realtà ben diversa. E ci dicono che i “deficit gemelli” degli Usa (bilancia commerciale e deficit pubblico) non solo non accennano a diminuire, ma si ampliano a dismisura. E, ciò che è peggio, che l’aumento della spesa pubblica Usa (+26%, pari a + 500 miliardi di dollari, da quando il giovane Bush si è impadronito della Casa Bianca) (3), e quindi dell’indebitamento pubblico, non ha comportato affatto un recupero in termini di bilancia commerciale.
Questo deficit è finanziato dal resto del mondo, soprattutto attraverso l’ acquisto di buoni del Tesoro Usa: in particolare, Cina e Giappone dal 2001 hanno comprato il 43% del debito pubblico Usa per evitare un crollo del dollaro, che avrebbe danneggiato le loro esportazioni in Usa.

Proviamo quindi a fissare qualche punto fermo.

Il debito Usa (pubblico e privato) nei confronti del resto del mondo è ormai fuori controllo: ha infatti superato del 300% il prodotto interno lordo (4) . Guardando più da vicino la bilancia commerciale Usa, si nota che negli ultimi 5 anni le importazioni Usa sono cresciute del 38,4%, mentre le esportazioni sono aumentate solo del 9,7%; il che ha portato nel 2003 il disavanzo della bilancia commerciale da 160 a 495 miliardi di dollari.
A fine 2004 siamo già a 600 miliardi di dollari.
Cosa significa questo? Significa che la tanto declamata “crescita economica Usa” è fondata sul debito. Essa non si traduce in crescita della produzione e dell’export, in particolare manifatturiero. Né si traduce in una reale ripresa degli investimenti industriali, nonostante che il prezzo del denaro sia ormai da diversi anni ai minimi storici.
E difficilmente le cose potrebbero andare diversamente, visto che il grado di utilizzo degli impianti è all’incirca pari al 77% (il che significa capacità produttiva non utilizzata pari a poco meno di un quarto del totale).
Gli stessi buoni risultati di alcune grandi multinazionali basate in Usa sono prodotti dal reimpatrio dei profitti fatti nei terminali industriali che le grandi corporations statunitensi hanno in paesi come la Cina, l’ India, in Sud Est Asiatico e in America Centrale e Meridionale. In termini classici, si tratta di trasferimento di plusvalore su scala internazionale.
Quindi: profitti per le grandi multinazionali, disoccupazione per i lavoratori statunitensi. E conseguente accelerazione della polarizzazione sociale negli Usa (i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri).
Certo, gli Usa restano destinatari di ingenti investimenti esteri. Però si tratta di una quota che va scendendo di anno in anno, e che privilegia sempre di più investimenti di portafoglio (per definizione più volatili) rispetto agli investimenti industriali diretti.
Per rendere l’idea, basterà ricordare che lo scorso anno gli investimenti in Usa sono ammontati a 40 miliardi di dollari, contro i 53 miliardi diretti in Cina. Si tratta di cifre ancor più significative se si pensa che nel 2002 gli investimenti negli Usa erano stati di 72 miliardi di dollari, e nel 2001 addirittura pari a 167 miliardi.
Si tratta di dati forniti dall’Ocse: essi provano che nel 2003 gli Usa hanno patito più di tutti gli altri 29 stati industrializzati membri dell’Ocse la caduta di investimenti diretti esteri.
Non solo: gli stessi investimenti di portafoglio (in particolare in titoli di Stato Usa) stanno divenendo sempre più rischiosi. E infatti le banche centrali dei principali paesi asiatici (Cina e Giappone), che più di altri hanno investito in titoli di stato americani per evitare il crollo del biglietto verde, stanno cominciando a correre ai ripari: non soltanto diminuendo i propri investimenti in dollari, ma anche cominciando a costruire un mercato unico delle obbligazioni asiatiche (che potrebbe rappresentare una valida alternativa agli investimenti in titoli di Stato Usa, oltreché il primo passo verso una moneta unica nippo-cinese); inoltre, il Giappone e soprattutto la Cina stanno accentuando la diversificazione delle proprie riserve di valuta, aumentando il peso dell’euro a scapito del dollaro.
E veniamo così al punto cruciale. L’attuale economia Usa, imperniata sul ruolo di grande consumatore nella distribuzione internazionale del lavoro (come dimostra la bilancia commerciale di quel paese, che è in rosso ininterrottamente dal 1976), si basa su un presupposto: sull’egemonia valutaria del dollaro a livello mondiale.
È tale egemonia che ha reso possibile un flusso ininterrotto di investimenti di capitale negli Usa, e quindi ha consentito loro di avere una bilancia commerciale con il resto del mondo cronicamente in rosso senza che questo comportasse le conseguenze che ogni altro Paese del mondo al suo posto dovrebbe patire: svalutazioni, pagamento di cospicui interessi sui titoli di Stato, crisi finanziarie.
Il problema è che tale egemonia è oggi insidiata molto seriamente dall’euro (6). Come prova il fatto che, mentre il dollaro si svaluta nei confronti di quasi tutte le altre valute, l’euro fa passi avanti come valuta internazionale di riserva.
La risposta degli Stati Uniti a questa situazione è la “guerra infinita”, concretizzatasi da ultimo nell’aggressione all’Irak.

3. La guerra all’Irak come risposta alla crisi: un bilancio

La guerra all’Irak (e prima quella all’Afghanistan, ma anche già la guerra del Kosovo) va insomma inscritta in un quadro che è stato così tratteggiato sulla più importante rivista marxista statunitense: “il costante declino dell’egemonia economica americana, che avviene in presenza di una stagnazione economica globale del capitalismo che va approfondendosi, ha condotto gli Stati Uniti in misura sempre crescente a rivolgersi a mezzi extraeconomici per mantenere la propria posizione [dominante]: ponendo in movimento la propria gigantesca macchina bellica per infondere nuova vita ad un’egemonia economica sull’economia mondiale che sta svanendo” (7).
È francamente difficile non scorgere in questa dinamica la riproposizione dei meccanismi classici dell’imperialismo; diciamo che ci può riuscire soltanto chi per partito preso si rifiuti di adoperare questa fondamentale categoria di analisi, messa in campo all’inizio del Novecento dal pensiero borghese radicale e sviluppata da quello marxista (8).
Ma proviamo a vedere in concreto quali fossero gli obiettivi economici della guerra all’Irak e in che misura essi siano stati raggiunti.

3.1. Il business della guerra
Se c’è una costante nella storia economica degli Stati Uniti, da più di un secolo a questa parte, essa è rappresentata dalla stretta correlazione tra interventi militari e ripresa dell’economia (9). Questa correlazione è così stretta che chi legga la tabella dettagliata dei cicli economici americani che si trova sul sito di un istituto governativo come il National Bureau of Economic Research si imbatte in questa avvertenza: “i dati in grassetto si riferiscono all’espansione economica dei periodi di guerra [wartime expansions], alle contrazioni economiche postbelliche e all’intero ciclo che include le espansioni dei periodi bellici” (10). In altri termini: dalla guerra civile americana in poi, il nesso tra guerra ed espansione economica è indiscutibilmente accertato e assolutamente ricorrente.
A partire dagli anni Quaranta del Novecento, questo è avvenuto con la Seconda Guerra Mondiale, con la guerra di Corea (che diede luogo al cosiddetto “boom coreano”), con la guerra del Vietnam, con la corsa agli armamenti di Reagan negli anni Ottanta, ed infine con la prima guerra del Golfo.
Le spese militari possono in effetti essere considerate come una forma di spesa pubblica per il rilancio dell’economia. Non a caso il Wall Street Journal del 4 febbraio 2003 scriveva che “mentre gli Stati Uniti si preparano per la guerra in Irak, la spesa militare rappresenta uno dei pochi aspetti positivi di un’economia debole”.
Nell’aprile dello stesso anno, una copertina del Business Week, sotto il titolo “Come la guerra trasformerà l’economia USA”, recava un sottotitolo ancora più esplicito: “una maggiore spesa governativa rende improbabile la recessione quest’anno”. (11)
I vantaggi concreti delle spese militari sono molteplici:
1) La spesa militare alimenta un settore di grande importanza nell’economia degli Stati Uniti: si tratta di quello che Eisenhower (che guardava ad esso con preoccupazione) chiamava “complesso militare-industriale”, e che in tempi più recenti è stato definito “Aeronautic-Computer-Electronics complex” (ACE). Si tratta di un settore composto da più di 85.000 imprese, che impiegano milioni di lavoratori.
2) Questo settore è sottratto alla concorrenza internazionale (per “motivi di sicurezza nazionale”). Quindi i soldi spesi in armi vanno esclusivamente (o quasi) ad imprese statunitensi.
3) Le spese militari in realtà finanziano non soltanto imprese militari in senso stretto, ma anche le imprese dell’alta tecnologia, e consentono quindi di effettuare con danaro pubblico enormi investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico in uno dei settori produttivi più avanzati. (12)
4) L’export di armi rappresenta una delle voci più importanti delle esportazioni degli USA, che sono leader mondiali in questo settore, con il 47% delle esportazioni mondiali. Tra l’altro, si tratta di un settore che gode sin dal primo accordo GATT (1947) della “national security exception”:
una clausola in base alla quale pratiche protezionistiche e di sussidi all’export che non sono consentite per gli altri settori sono invece considerate lecite per l’industria delle armi. (13)
Alla luce di quanto sopra, è facile intendere come per le industrie degli armamenti una guerra sia una vera e propria manna dal cielo. Il motivo principale è ovviamente che essa fornisce alla merce-armi il momento del consumo, e quindi ne rialimenta la produzione; ma non va dimenticato neppure che la guerra è un terreno ideale di sperimentazione di nuove armi e al tempo stesso rappresenta una sorta di “passerella” che consente di esibire ai potenziali clienti il funzionamento e l’efficacia delle armi che si desidera vendere loro.
Sin qui la teoria. E la pratica? A distanza di un anno e mezzo dallo scoppio della guerra in Irak, le rosee previsioni che abbiamo citato sui benefici per i produttori di armi sono confermate?
Assolutamente sì. Qualche esempio.
Boeing. Nel terzo trimestre del 2004 i profitti di questa società nel settore della difesa hanno toccato gli 816 milioni di dollari (+45% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, che pure era stato – per gli stessi motivi – un anno ottimo); nel settore bellico i ricavi sono cresciuti del 13%, giungendo a 8,26 miliardi di dollari; al contrario, i ricavi di Boeing nell’aeronautica civile sono diminuiti dell’8% (a 4,4 miliardi), a causa della competizione dell’Airbus europeo; infine, quest’anno Boeing ha fatto il pieno di contratti anche per la difesa missilistica Usa. Risultato: il titolo ha guadagnato il 21,9% da inizio anno.
Northrop Grumman. Nel terzo trimestre del 2004 gli utili di questa società sono saliti a 278 milioni di dollari (contro i 184 di un anno fa). Più in dettaglio: la divisione navale ha aumentato i profitti del 16% (a 96 milioni); anche il fatturato è in crescita (a 1,56 miliardi) soprattutto grazie alle vendite del nuovo cacciatorpediniere DD(X) alla Marina Usa.
Molto buono anche il risultato operativo della divisione dei sistemi integrati di difesa, aumentato del 13% a 105 milioni; a questo riguardo l’analista finanziario Gary Liebowitz ha parlato di “buoni margini di profitto resi possibili dalla vendite di aerei da pattuglia E2 Advanced Hawkeye e E10A, utilizzati sia in Irak che in Afghanistan”. Anche in questo caso il titolo ha guadagnato in borsa: il 13% da inizio anno. Ancora poco, se confrontato con un’altra grande corporation del settore, la Raytheon, che ha guadagnato il 25,63% da inizio anno.(16) Alla Lockheed Martin le cose quest’anno sono andate meno bene (anche perché è stata coinvolta in una scandalo riguardante alcune forniture al Pentagono), ma anche in questo caso i suoi azionisti non hanno di che lamentarsi: in fondo, il titolo ha più che quadruplicato il valore delle sue azioni dall’11 settembre 2001 ad oggi…
(17)
Il punto è che la pacchia non è finita qui. Infatti nel corso del secondo mandato di Bush le spese militari Usa aumenteranno del 24% (da 375,3 a 465,7 miliardi di dollari all’anno). Il giro di affari mondiale per spese di difesa, che è stato di 925 miliardi di dollari nel 2003, secondo le stime dell’istituto di ricerca Teal Group sarà di 1.300 miliardi nel 2011. E questo soprattutto a causa degli Usa, le cui spese per armamenti passeranno dal 36% al 45% del totale. Alla luce di tutto questo, davvero non può stupire che il 2 e 3 novembre, nei giorni della vittoria di Bush, Northrop Grumman abbia guadagnato in Borsa il 4,07%, la Lockheed Martin il 3,29%, la Boeing il 2,55%.
Insomma: è convinzione diffusa che “per l’industria della sicurezza si apra una nuova età dell’oro”; tra gli esperti militari e gli analisti finanziari del settore “il sentire comune prevede anni di vacche grasse per le military stocks, i titoli militari”. (18)

3.2. Il business della ricostruzione
Dopo aver lucrato sulla distruzione di un paese, è possibile lucrare anche sulla sua ricostruzione. È quello che hanno fatto e stanno facendo le imprese statunitensi in Irak, a cominciare dai 5 colossi della logistica:
Bechtel Group, Flour Corporation, Louis Berger Group, Parson Corporation, Halliburton.
Quest’ultima società (che sino al 2000 era stata presieduta dall’attuale vicepresidente americano, Dick Cheney), tramite la controllata Kellogg, Brown & Root, già durante la guerra si è vista assegnare un contratto del valore di 200 milioni di dollari per lo spegnimento ed il ripristino dei pozzi iracheni.
Il problema però è: “chi paga”? Ecco cosa ne diceva, già prima della guerra, Ari Fleischer, allora portavoce di Bush: “i costi della ricostruzione restano un problema reale per il futuro. E l’Irak, contrariamente all’Afghanistan, è un paese ricco. Ci sono immense risorse che appartengono al popolo iracheno. Quindi, ci sono molti modi attraverso cui per l’Irak sarà possibile sostenere il costo della propria ricostruzione”. (19)
Dopo la prima fase della guerra, le basi giuridiche per la rapina dell’Irak le ha poste Paul Bremer, il governatore Usa dell’Irak prima del governo fantoccio di Allawi. Il buon Bremer, prima di andarsene alla chetichella ha privatizzato l’economia dell’Irak (elettricità, telecomunicazioni, infrastrutture ecc.), eliminando ogni controllo statale sull’economia e dando il via libera alle società straniere.
Secondo i suoi decreti, le società straniere potranno acquisire il 100% del controllo delle società in ogni settore; potranno inoltre esportare il 100% dei profitti in valuta estera; l’aliquota fiscale massima, per privati e società, sarà del 15% (in precedenza la tassa sui profitti delle società era del 45%). Per quanto riguarda il fondamentale settore bancario, 6 banche internazionali (scelte dagli Usa) potranno acquisire il controllo degli istituti di credito iracheni per 5 anni (2 di esse avranno subito il via libera, altre 4 dopo i primi 5 anni). Con riferimento a queste misure di rapina legalizzata, il direttore regionale della Banca Mondiale, Joseph Saba, ha detto che si tratta “di un grande passo avanti per creare un ambiente favorevole agli investimenti”. (20)
In qualche caso l’ambiente è risultato un po’ troppo “favorevole agli investimenti”, e l’applicazione degli appalti ottenuti è risultata piuttosto spregiudicata. Al punto che il Wall Street Journal del 7 settembre 2004 riferiva dell’intenzione dell’esercito americano di rescindere il megacontratto con Halliburton, a causa delle accuse di aver praticato pesanti sovrapprezzi sulle forniture all’esercito americano in Irak. Lo stesso articolo riportava anche l’andamento delle quotazioni di questo titolo dal 19 marzo 2003 al 3 settembre 2004: da 20 a 30 dollari (+ 50%). (21)

3.3. Il controllo del petrolio iracheno e le multinazionali Usa del settore
Che dietro alla guerra in Irak ci sia il controllo dei 112 miliardi di barili di petrolio iracheno (riserve accertate), è francamente il segreto di Pulcinella (soltanto Marcello Pera si ostina a non capirlo – ma devo dire che per chi lo ha conosciuto all’università di Pisa, sperimentandone la vasta cultura e la profondità intellettuale, la cosa non desta il minimo stupore…). Del resto, anche i diretti interessati in qualche caso hanno ritenuto che non valesse la pena di nascondere questa verità. Prendiamo il Washington Post del 15 settembre 2002: “Lo spodestamento, diretto dagli Stati Uniti, del presidente iracheno Saddam Hussein potrebbe aprire un filone d’oro per le compagnie petrolifere americane a lungo bandite dall’Irak, facendo naufragare accordi petroliferi conclusi con Bagdad da Russia, Francia e altri Paesi, e provocando un rimescolamento dei mercati petroliferi mondiali”.(22)
O l’editorialista Thomas Friedman, sul New York Times del 5 gennaio 2003: “È ridicolo negare che si tratti di una guerra per il petrolio”. Infine, ecco come Paul Wolfowitz, uno degli esponenti di punta dei “neoconservatori” che attorniano Bush, ha motivato la “preferenza” accordata all’Irak rispetto alla Corea del Nord: “la differenza più importante fra la Corea del Nord e l’Irak è che, sul piano economico, in Irak non abbiamo scelta: quella regione nuota in un mare di petrolio”. (23)
Si potrebbe obiettare che i vantaggi per le multinazionali Usa siano tutto sommato teorici, almeno fintantoché l’Irak non sarà “pacificato”. Non è così. Già oggi questi vantaggi sono concretissimi. Basti pensare al fatto che, grazie all’aumento del prezzo del petrolio (giunto a superare i 50 dollari al barile), le tre principali compagnie petrolifere statunitensi “hanno incassato 10 miliardi di dollari supplementari”.(24)
Quanto all’interesse delle compagnie petrolifere (più ancora dei paesi produttori) a tenere il prezzo del petrolio elevato, basterà citare un fatto che quando –all’inizio di dicembre – il prezzo del petrolio è ridisceso a 42 dollari al barile, subito la Exxon si è affrettata a rendere pubblico un report secondo cui la domanda energetica globale aumenterà dell’1,7% annuo sino al 2030.
(25)

3.4. Il controllo del petrolio iracheno e gli effetti sugli altri paesi produttori
Da un punto di vista strategico, più ancora che i vantaggi per le multinazionali Usa del settore, sono importanti alcuni effetti del controllo del petrolio iracheno sui principali paesi produttori e consumatori di petrolio. Per quanto riguarda gli effetti sugli altri paesi produttori, l’effetto del rientro in gioco sotto controllo USA del petrolio iracheno è duplice: ridimensionamento del ruolo dell’Arabia Saudita e più in generale del potere di mercato dell’OPEC; contemporaneamente, ridimensionamento delle ambizioni russe come fornitore alternativo all’Arabia Saudita. Il primo aspetto non necessita di particolari spiegazioni: con la piena entrata in campo del secondo produttore mondiale, l’Arabia Saudita ed il cartello dell’OPEC riceveranno un duro colpo. E del resto già oggi il delegato iracheno all’ OPEC esegue con precisione gli ordini degli USA.(26) Quanto al secondo aspetto, esso merita qualche parola di più: a seguito dell’11 settembre, la Russia ha tentato di imporsi come secondo produttore mondiale di petrolio.
L’operazione è riuscita, ed infatti la borsa di Mosca, trainata dai titoli energetici, ha registrato dopo l’11 settembre un rialzo spettacolare. Ora, il problema è che il petrolio iracheno ha costi di estrazione e (soprattutto) di trasporto significativamente inferiori a quelli del petrolio russso. Quest’ultimo potrebbe quindi trovarsi all’improvviso fuori mercato, qualora l’entrata in gioco del petrolio iracheno abbattesse i prezzi del petrolio sotto la soglia minima necessaria per rendere profittevole il petrolio russo (circa 20-21 dollari al barile). Questo sinora non è avvenuto unicamente perché le cose per gli invasori non sono affatto andate lisce come previsto.

3.5. Il controllo del petrolio iracheno e gli effetti sui paesi consumatori: Giappone e Cina
A differenza di quanto comunemente si pensa, il Golfo non è il principale fornitore di petrolio degli USA, che ricevono la maggior parte del petrolio che importano da Messico, Venezuela e Canada. Viceversa le risorse energetiche del Golfo sono fondamentali per i paesi asiatici, ed in particolare per Giappone e Cina. Nel 2001, su 5,2 milioni di barili al giorno importati dal Giappone, ben 4,2 provenivano dal Medio Oriente.
Quanto alla Cina, nel 2002 ha importato in tutto 70 milioni di tonnellate di petrolio, di cui il 60% proveniva dal Medio Oriente. Nel caso della Cina, però, più importante della situazione attuale sono le linee di tendenza: a partire dal 1993 questo paese è diventato un importatore netto di petrolio; attualmente i fabbisogni energetici cinesi crescono del 15% annuo, e si calcola che nel 2020 l’incidenza del petrolio importato sul consumo interno raggiungerà il 50%. (27)
La possibilità che gli USA giungano a controllare il Medio Oriente, potendo quindi bloccare le forniture alla Cina, costituisce una seria minaccia. È anche una minaccia reale, se pensiamo che la Cina è esplicitamente considerata dai teorici della destra americana, e non solo da loro, come la sfida più seria – almeno a medio-lungo termine – all’egemonia planetaria americana: il direttore dell’Economist, Bill Emmott (quello che Berlusconi considera un “comunista”…), nel suo ultimo libro considera la corsa della Cina al ruolo di prima potenza mondiale come una minaccia alla stabilità mondiale (evidentemente identificata con l’egemonia statunitense) più seria del terrorismo. È quindi tutt’altro che campato per aria quanto ha detto Giorgio Bocca, quando ha spiegato la guerra all’Irak “innanzitutto con l’obiettivo di assicurarsi il controllo dei beni del petrolio, il controllo del continente asiatico – in previsione di un futuro conflitto con la Cina”. (29)
Non è un caso, quindi, che la Cina negli ultimi mesi abbia raddoppiato gli sforzi per trovare approvvigionamenti energetici alternativi, siglando accordi con l’Indonesia, il Kazakistan, la Russia, e da ultimo con l’Iran.
Che è peraltro uno dei più probabili prossimi obiettivi degli Stati Uniti.

3.6. Il petrolio iracheno e le dinamiche valutarie dollaro/euro
L’Europa, nonostante le riserve petrolifere britanniche e norvegesi (del resto in esaurimento), è ancora più drammaticamente dipendente dall’import di petrolio di quanto lo sia la Cina, anche se buona parte del fabbisogno energetico è colmata dalla Russia. In ogni caso le sue importazioni dal Golfo Persico sono cospicue.
Nel caso dell’Europa, però, l’elemento da tenere presente è l’intreccio tra petrolio e dinamiche valutarie.
L’Irak di Saddam Hussein, sin dal novembre 2000, aveva deciso di farsi pagare il petrolio in euro, anziché in dollari. Qualora tale opzione fosse stata scelta anche da altri paesi produttori di qualche importanza, sarebbe venuto meno l’aggancio del prezzo del petrolio al dollaro, e con questo uno dei più importanti fattori dell’individuazione nel dollaro della valuta internazionale di riserva.
Ma perché è così importante per gli Usa che la valuta con cui si compra il petrolio sia il dollaro? Il motivo è spiegato con chiarezza in un articolo pubblicato da un periodico online americano: dal momento che il petrolio può essere comprato soltanto in dollari, “i paesi non produttori di petrolio devono vendere le loro merci contro dollari per poter comprare il petrolio.
Se non possono ottenere in questo modo dollari a sufficienza, devono prenderli a prestito dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, a cui ripagheranno questo prestito in dollari e con gli interessi”
.
La denominazione del petrolio in dollari, insomma, “crea una grande domanda per i dollari al di fuori degli Usa.” In questo modo, “il fatto che petrolio per un valore di miliardi di dollari sia prezzato in dollari garantisce il dominio mondiale del dollaro. Questo consente agli Usa di agire come la banca centrale a livello mondiale, stampando moneta che è accettata ovunque. Il dollaro è diventato una moneta garantita dal petrolio, non dall’oro. Se il petrolio dell’Opec fosse venduto in altre valute, ad es.in euro, il dominio economico degli Usa – l’imperialismo o egemonia del dollaro – sarebbe seriamente posto in discussione”. (30)
Da questo punto di vista, con l’invasione dell’Irak gli Usa hanno quindi ottenuto una serie di importanti obiettivi:

1) salvaguardare l’economia Usa ridenominando il petrolio iracheno in dollari, anziché in euro;
2) inviare un chiaro messaggio ad altri paesi produttori di petrolio su quello che potrebbe succedere se decidessero di abbandonare le transazioni in dollaro;
3) porre la seconda più grande riserva di petrolio del mondo sotto il controllo diretto degli Usa;
4) creare uno stato sottomesso agli Usa, nel quale mantenere grandi forze militari, utili per controllare il Medio Oriente e il suo petrolio;
5) dare un forte colpo all’Unione Europea ed all’euro. (31)

Da questo punto di vista, la guerra all’Irak è un capitolo della guerra tra dollaro ed euro. (32) E ritengo quindi che abbia ragione Slavoj Zizek nell’affermare che “la guerra Stati Uniti-Irak” è stata, “nei termini del suo reale contenuto sociopolitico, la prima guerra degli Stati Uniti contro l’Europa”.(33) Del resto, anche già soltanto l’effetto destabilizzante della guerra sull’area mediorientale ha inevitabilmente effetti negativi sull’economia e la valuta europee. Ecco quanto si poteva leggere, in tempi non sospetti, in uno studio pubblicato dall’Istituto Universitario Europeo di Firenze: i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa sono tra quelli “nei quali probabilmente il ruolo internazionale dell’euro crescerà più rapidamente ed estesamente. Già oggi l’euro gioca in molti di questi Paesi un ruolo preminente per la determinazione dei tassi di cambio come riserva in valuta straniera”. Per questo motivo “l’Europa sarebbe maggiormente colpita da crisi politiche ed economiche in Medio Oriente di quanto lo sarebbero, per esempio, gli USA”. (34)

4. La crisi si aggrava: re dollaro ha perso il trono?

Alla luce di quanto si è visto, è indubbio che l’aggressione statunitense all’Irak abbia giovato all’economia americana. Una parte non piccola della crescita del PIL dalla fine del 2002 in poi ha proprio questa origine. Del pari targata Irak è la ripresa dei listini di borsa Usa dell’ultimo anno e mezzo in qua.(35) Ma i problemi per gli Usa non sono risolti. Anzi. Insomma:
la guerra all’Irak è servita, ma non è bastata.
Il deficit commerciale cresce, quello pubblico anche (di recente il Congresso USA ha di nuovo autorizzato il governo a sfondare il tetto massimo di spese stabilite per legge). Ma è soprattutto il rapporto di cambio tra il dollaro e le principale altre valute che in questi ultimi mesi ha conosciuto un’accelerazione. Gli esiti possono essere imprevedibili.
Anche perché la svalutazione odierna del dollaro avviene in un contesto che presenta caratteri di assoluta novità rispetto al passato.
Per capire cosa sta succedendo è utile riprendere un recente articolo di James K. Galbraith:
“Nel corso degli anni abbiamo lasciato deteriorare la nostra posizione commerciale nell’economia mondiale, passando dall’assoluta supremazia di 60 anni fa alla situazione attuale, in cui l’alta occupazione negli Stati Uniti genera deficit delle partite correnti ben superiori a mille miliardi di dollari all’anno. Per il mantenimento del nostro standard di vita siamo divenuti dipendenti dalla disponibilità del resto del mondo ad accettare assets in dollari (azioni, obbligazioni e liquidità) in cambio di beni e servizi reali: il prodotto del duro lavoro di gente molto più povera di noi in cambio di biglietti che non richiedono alcuno sforzo per essere prodotti.
Per decenni, il mondo occidentale ha tollerato l’‘esorbitante privilegio’ di un’economia fondata sul dollaro come riserva mondiale perché gli Stati Uniti rappresentavano la potenza necessaria per garantire – senza far ricorso all’oppressione e a violenza intollerabili – una sicurezza affidabile contro il comunismo e la rivolta sociale, così da creare le condizioni nelle quali molti paesi da questa parte della cortina di ferro hanno potuto crescere e prosperare. Queste motivazioni sono svanite 15 anni fa, e la “Guerra globale contro il Terrorismo” non ne rappresenta un sostituto persuasivo. Così, quello che un tempo era una transazione effettuata a malincuore con il paese egemone – che rappresentava pur sempre l’elemento di stabilizzazione del mondo – è ora visto, in cerchie molto ampie, come una perdurante sovvenzione ad uno stato predatore”. (37)

Qualche settimana prima dell’inizio dell’aggressione all’Irak, Martin Wolf, un giornalista del Financial Times, osservò: “gli Stati Uniti sono al tempo stesso la più grande potenza del mondo ed il maggiore debitore del mondo. Questo ha permesso loro di dispiegare cannoni e di consumare burro…
Indirettamente, il resto del mondo continua a pagare per l’esercizio della potenza americana”
. Il titolo di questo articolo era piuttosto significativo: “È l’Asia che paga il burro e i cannoni americani”(38). Può sembrare una frase ad effetto, e invece no: è letteralmente vero. Per finanziare il deficit della bilancia dei pagamenti Usa (che attualmente si aggira intorno ai 600 miliardi di dollari annui, ossia al 6% del PIL Usa), e più in generale per sostenere il loro debito nei confronti del resto del mondo (che si aggira intorno ai 3.000

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