Le origini (molto) antiche della guerra giusta e le sue lezioni per il presente

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Di Rory Cox, e-ir.info

Molto è stato scritto sugli innumerevoli modi in cui la guerra è orribile e violenta. Nelle parole del veterano della Seconda Guerra Mondiale Eugene B. Sledge, “la guerra è brutale, ingloriosa e un terribile spreco” (With the Old Breed). Alla luce di ciò, forse la cosa davvero sorprendente della guerra non è che sia brutale o dispendiosa, ma che siano stati fatti tentativi di regolare o limitare la sua natura intrinsecamente violenta. Quanto indietro nel tempo, e in quale parte del mondo, dobbiamo cercare le origini di queste difficili considerazioni etiche? La risposta potrebbe essere sorprendente. Come dimostro in Origins of the Just War: Military Ethics and Culture in the Ancient Near East (Princeton University Press, 2023), un sofisticato pensiero etico sulla guerra era emerso già più di 5.000 anni fa, durante gli ultimi secoli del quarto millennio Avanti Cristo. Forse ancora più sorprendente è il fatto che le antiche dottrine della guerra giusta possano essere di ammonimento alle moderne relazioni internazionali e alla teoria della guerra giusta.

Molte comunità politiche, nel tempo e nello spazio, hanno cercato di distinguere moralmente e giuridicamente tra “guerre buone” e “guerre cattive”, o guerre “giuste” e “ingiuste”. Ciononostante, nel corso della storia le guerre hanno spesso tradito i principi morali e legali che le società si erano create. I cosiddetti requisiti dello ius ad bellum – cioè il diritto o la giustizia di entrare in guerra – sembrano suscettibili di interessi nazionali soggettivi piuttosto che di standard oggettivi di giustizia. Nel frattempo, i principi dello ius in bello – le norme che regolano la corretta condotta della guerra – sembrano ancora più fragili. Le aspettative di immunità per i non combattenti, le protezioni per i prigionieri di guerra, la proporzionalità della violenza: tutte sono state deluse nella pratica. La guerra in Ucraina è solo l’ultimo promemoria del fatto che gli standard legali o etici che limitano la dichiarazione e la condotta della guerra sono tutt’altro che garantiti.

La tradizionale narrazione eurocentrica e cristiana sullo sviluppo della tradizione della guerra giusta non racconta l’intera storia. Infatti, le prime riflessioni etiche sulla guerra erano emerse nel Vicino Oriente antico circa 5.000 anni fa. Erano iniziate in Egitto e, nei 3.000 anni successivi, si erano sviluppate anche nei regni dell’antica Mesopotamia, dell’Anatolia e del Levante. In altre parole, la guerra giusta precede di oltre tre millenni Sant’Agostino d’Ippona (morto nel 430), il suo cosiddetto “padre”. Il pensiero della guerra giusta era emerso anche in Cina a partire dal VI secolo a.C. nelle opere confuciane, mohiste, taoiste e legaliste; e in India, più o meno nello stesso periodo, nelle grandi epopee sanscrite del Rāmāyana e del Mahābhārata.

A partire almeno dal 3100 a.C., l’ideologia regale egizia prevedeva l’autorità divina del faraone di dichiarare una guerra. La difesa di Ma’at (ordine, giustizia, rettitudine) contro il potere distruttivo di Isfet (caos, ingiustizia, malvagità) era al centro del pensiero egiziano sulla guerra giusta. Cause giuste come l’autodifesa e la difesa degli alleati, così come la giustizia punitiva e vendicativa, ricorrono frequentemente nelle fonti egizie tra il 3000 e il 1000 Avanti Cristo. Tuttavia, il disprezzo dell’Egitto per lo “straniero malvagio” forniva allo Stato una giustificazione incontestabile per intraprendere una guerra contro la “barbarie” esterna, cosicché tutte le guerre dell’Egitto (difensive e offensive) erano guerre giuste.

A partire dal 1650 a.C. circa, gli Ittiti – una civiltà anatolica che occupava gran parte dell’odierna Turchia – avevano sviluppato una sofisticata gamma di considerazioni sulla giustezza o meno di una guerra. Gli Ittiti erano sensibili all’idea che le guerre giuste dovessero avere cause giuste come l’autodifesa, la difesa degli alleati, la restituzione dei beni o la vendetta per ferite divine e terrene (in particolare per le violazioni dei trattati). In particolare, gli Ittiti aveva no fatto un salto concettuale nel pensiero della guerra giusta, riconoscendo che essi stessi potevano commettere errori ed impegnarsi in guerre ingiuste. Questo testimonia il primo serio impegno con la giustizia internazionale come qualcosa di oggettivo piuttosto che del tutto relativo e di parte, orientato all’interesse della nazione di origine.

Al contrario, gli antichi concetti israeliti di guerra giusta rispecchiavano l’approccio egiziano e rimanevano fortemente sciovinisti e assolutisti. Il pensiero israelita percepiva tutti i popoli non-Yahweh e non-israeliti come inferiori, distruttivi e ingiusti. Tuttavia, come ad Hatti, gli israeliti riconoscevano la propria capacità di peccare. Man mano che la storia di Israele, Samaria e Giuda si dipana nella Tanakh (Bibbia ebraica), questi peccati diventano sempre più evidenti, portando infine alla distruzione dei regni israeliti e all’umiliazione dei loro popoli.

Forse la conseguenza più importante di queste tradizioni di ius ad bellum, complesse ma cariche di religiosità e ideologia, era stata che le norme di ius in bello erano state a malapena concepite. Con le guerre giuste concepite a livello cosmico, non dovrebbe sorprendere che ci fosse una totale mancanza di interesse nell’offrire al nemico qualsiasi protezione. In quanto lotta assolutistica tra il bene e il male, solo il completo annientamento del nemico sarebbe stato considerato sufficiente.

In tutto il Vicino Oriente antico non c’era distinzione tra combattenti e non combattenti, non c’erano di fatto divieti sulle armi o sulle tattiche, l’esecuzione sommaria sul campo di battaglia o al di fuori di esso era possibile e la schiavitù di massa era probabile. Donne e bambini non godevano di alcuna immunità e venivano spesso presi di mira come prigionieri appetibili. I cadaveri nemici venivano abitualmente mutilati, in quanto mani, orecchie, piedi o falli potevano essere raccolti per documentare il numero di morti nemici e ricompensare di conseguenza i soldati. Tutti i beni nemici, mobili e immobili, erano considerati un obiettivo legittimo e il saccheggio era una componente importante della guerra.

Esistevano solo le più deboli tracce di norme in bello. Queste includevano un accordo generale, ma non universale, sul fatto che la guerra dovesse essere dichiarata correttamente. Agli inviati diplomatici venivano spesso concessi salvacondotti in tempo di pace, anche se questi potevano essere disattesi in tempo di conflitto. In sintesi, non esisteva un’antica tradizione di ius in bello.

Eppure la moderazione militare era effettivamente praticata. Non era motivata dall’etica, ma dal pragmatismo militare e politico. Non tutti i nemici potevano essere annientati, non tutti gli individui ridotti in schiavitù e non tutti i governanti nemici potevano essere rovesciati. Spesso era più pratico e redditizio non intervenire. È quindi affascinante notare come la condotta di guerra dell’antico Vicino Oriente fosse spesso meno brutale di quanto lo consentissero le antiche dottrine della guerra giusta.

Perché qualcuno impegnato nello studio delle relazioni internazionali contemporanee dovrebbe interessarsi a tutto questo? Innanzitutto, perché il pensiero della guerra giusta più tardo – comprese le tradizioni greco-romana, giudeo-cristiana e islamica – sembra affondare le sue radici in queste antiche dottrine del Vicino Oriente, creando un complesso lignaggio intellettuale che si estende fino alla moderna teoria della guerra giusta e al diritto internazionale.

In secondo luogo, perché gli aspetti assolutistici e sciovinistici del pensiero della guerra giusta sono evidenti, in modo preoccupante, nella teoria e nella politica internazionale del XXI secolo. Le antiche dottrine dello ius ad bellum erano così sicure e inflessibili nelle loro pretese di autorità e giustizia che, semplicemente, annullavano le considerazioni in bello e non concepivano nemmeno i doveri post bellum. Possiamo osservare le stesse tendenze nei conflitti moderni. Quando gli Stati o i gruppi militarizzati sono convinti della propria superiorità morale e della propria giustificazione, è più probabile che le restrizioni umanitarie vengano ignorate. I recenti attacchi di Hamas contro i civili israeliani e l’operazione “Iron Swords” di Israele a Gaza sono probabilmente solo gli esempi più recenti di questa tendenza.

La cosiddetta “convenzione di guerra” protegge l’uguaglianza giuridica tra combattenti e non combattenti, indipendentemente dal fatto che si ritenga di combattere una guerra giusta o ingiusta. Negli ultimi due decenni, la teoria “revisionista” della guerra giusta ha posto l’accento sulla colpevolezza individuale in guerra, lanciando una sfida teoricamente sofisticata alla Convenzione di guerra. Basandosi sulla convinzione che la moralità sia fissa e scopribile, questi studiosi hanno sottovalutato i pericoli reali della loro critica. Creando identità polarizzate di combattenti e non combattenti giusti/morali contro ingiusti/immorali, i revisionisti non hanno considerato seriamente i modi in cui le identità moralizzate possono influenzare il modo in cui gli individui vengono trattati durante i periodi di violenza, sia come combattenti, non combattenti o prigionieri di guerra.

Insistere sul fatto che la guerra è un’arena in cui si possono applicare verità morali universali ricorda in modo preoccupante l’etica della guerra del Vicino Oriente antico. Le interpretazioni assolutistiche dell’ineguaglianza morale e giuridica hanno ostacolato lo sviluppo di norme in bello significative e minacciano di ostacolarne l’applicazione nei conflitti moderni. I paralleli moderni più vicini all’antica dottrina della guerra giusta si trovano quindi negli insegnamenti religiosi estremisti, da un lato, e nella letteratura revisionista sulla guerra giusta, dall’altro. Pur essendo ovviamente molto diversi per tono e finalità, entrambi gli approcci cercano di fondare la guerra su verità morali oggettive. Il risultato è che le norme in bello, faticosamente conquistate, vengono sempre più erose.

Le antiche tradizioni di guerra giusta dimostrano come i giudizi assoluti in materia di moralità o giustizia possano intensificare la brutalità della guerra – certamente nella sua concettualizzazione e potenzialmente nel suo perseguimento. Oggi faremmo bene ad evitare lo stesso errato assolutismo morale.

Di Rory Cox, e-ir.info

02.11.2023

Rory Cox è docente senior di Storia presso l’Università di St Andrews (Regno Unito) e ha pubblicato ampiamente sull’etica militare, la condotta militare, la tortura e il terrorismo. È un Associate Fellow del Centro Handa per lo Studio del Terrorismo e della Violenza Politica e Vicepresidente della sezione Etica Internazionale dell’International Studies Association. È autore di Origins of the Just War: Military Ethics and Culture in the Ancient Near East (Princeton University Press, 2023).

Fonte:

https://www.e-ir.info/2023/11/02/on-the-very-ancient-origins-of-just-war-and-its-lessons-for-today/

Traduzione di Costantino Ceoldo

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