“Finchè la santa legge tiene tutti segregati in catene e galere sta più sicuro lo stato e la proprietà”
(parole incise all’entrata dell’Ergastolo di S. Stefano)
La democrazia si caratterizza per essere una forma di potere inclusivo e nel medesimo tempo esclusivo. Inclusivo giacché i suoi esecutori legislativi e polizieschi, in nome di una sua fideistica “equità” e “imparzialità”, la applicano ad ogni individuo, indipendentemente dalla sua storia e natura; esclusiva perché i suoi mandanti politici rappresentano un élite borghese o borghesizzata. Ecco cosa scriveva Sorel a proposito dei sindacalisti inglesi dei primi del Novecento: ” …i capi delle Trade Unions diventano rapidamente dei gentleman senza che nessuno abbia a ridirne. Ho letto un articolo di Jacques Bardoux che segnalava che un carpentiere e un minatore sono stati fatti cavalieri da Edoardo VII…”. Se nell’antica Grecia la discriminante per l’accesso alla sfera politica era la nascita plurigenerazionale nei confini della “polis”, ovvero l’appartenenza etnica, nell’età moderna e contemporanea la discriminante è divenuto il possesso, sia materiale che immateriale.I rappresentanti delle classi padronali possono contare sul valore della proprietà finanziaria; gli pseudoesponenti della massa degli sfruttati contano invece sul possesso immateriale del loro consenso, si prestano cioè, in cambio della salita di rango (vedi lo stipendio medio parlamentare e le esenzioni di vario genere, dall’aereo al ristorante, di cui godono tutti i parlamentari) all’opera di burattinai pro regime. Così si costituisce la classe politica che legifera pieni diritti decisionali a tutti i possidenti ed esclude dal diritto succitato i non possidenti. L’esclusione è del resto matematica: l’esistenza di una classe parassitaria, l’esistenza del ricco epulone, presuppone il suo opposto.
Non si tratta di un’affermazione manichea. La mediazione, così come si configura agli occhi dei vedenti, ha sempre previsto l’esistenza di una parte prevalente, non importa se maggioritaria o minoritaria. Le concessioni fatte ai lavoratori dal XIX sec. a oggi non hanno certo controbilanciato o messo in discussione l’esistenza di una società-galera che trova nella fabbrica un luogo privilegiato di irregimentamento. Il ruolo padronale e la divisione del lavoro alienato sono elementi indiscussi della democrazia.
La classe padronale parassitaria, benché improduttiva nel concreto e umanamente aberrante, in quanto centro di diffusione dell’ideologia darwinista sociale, si è da sempre vista riconoscere una superiorità di diritti, in primo luogo il diritto di ricavare profitto dal lavoro altrui mantenendo in una condizione di inferiorità generalizzata i suoi fautori. Non v’è alcuna giustificazione plausibile nel riconoscere più diritti e capacità di espropriare denaro a chi dimostra maggiore spirito sopraffattorio. Non ci sono miti che reggano. Chi accetta questa situazione si giustifica accusando la natura umana di egoismo negativo e ricade nel hobbesismo, invocando mostri e lacci a difesa del vivere generale. Lo stato di natura, la libertà, deve essere controllata e ristretta in confini stabiliti, ma stabiliti da chi? Dagli stessi Leviatani che fanno da spauracchio alla socialità diffusa e incondizionata basata sull’individuo completo e non alienato da altri individui. Dall’altra parte della barricata troviamo tutti coloro i cui possessi sono irrisori o inutili al fine della manipolazione mentale o della gestione delle masse. A costoro in origine non fu destinato alcun diritto, erano gli “iloti”. In seguito, per buona convenienza della pace sociale venne loro elargito il diritto di esistere e sopravvivere, ma il divieto di parificazione con i possessori reali permane. Oggi più che mai la rivendicazione di pari possibilità di partenza risulta obsoleta, le democrazie stanno infatti smantellando le reti sociali fondamentali costituite grazie alla lotta economica di coloro che vengono denominati deboli. La crescita economica, ovvero il benessere parassitario spacciato per interesse collettivo, si pone come ago della bilancia di un’atavica divisione su cui poggia la società democratica.
Il concepimento di un mondo privo di divisioni non è concesso. L’unica lotta riconosciuta è la lotta politica, chi non l’ammette è un nemico sovversivo da spazzare via. Il dubbio non deve insinuarsi. Distribuzione equa della ricchezza e uguaglianza sostanziale non sono che pure chimere in un regime democratico. La democrazia si poggia su un’etica costruita ad uopo dai detentori della divisione. Così come ogni altra costruzione etica, nasconde dietro a cotanta magnificenza un utile soggettivo e elitario. La democrazia è un cerchio concluso e perfetto, nulla può operare al suo esterno: un mondo diverso non è possibile. E’ un grande carcere che tutto incasella e divide, si nutre dell’esproprio di coscienze individuali e chiama cittadini elettori le larve così generate, sopravvive elargendo briciole e sperperando nelle piazze come nel terzo mondo sangue inutile di schiavo. Le cosiddette dittature non sono che fasi di apogeo del sotterraneo lavorio disgregatorio compiuto dalla democrazia nei secoli moderni. La dinamica politica si restringe verso il centro originario del cerchio, il suo nucleo puro e veritiero. Quando il grande parassita trova la strada spianata dagli eventi della storia srotola la sua lingua appiccicaticcia su tutto ciò che sta al di fuori del cerchio per trarlo a sé e fagocitarlo.
Giudicate voi se accusare la democrazia di essere un equilibrio squilibrato dalla parte dei prepotenti è follia, valutando anche solo le condizioni attuali del mondo del lavoro. E spiegatemi com’è possibile poter cambiare il mondo all’interno di questa logica.
Fonte: www.anarcotico.net
27.12.05
Visto su: http://utenti.lycos.it/eurasiaprogetto/novita.htm