di Tonino Bucci
Una critica all’ideologia del consumo nell’ultimo studio dell’antropologo francese Marc Augé Perché viviamo?
Dal volume “Perché viviamo?”:
“Ciò che è sparito, nel linguaggio politico, ciò che non è più oggetto di nessuna proposta né di dibattito, è il problema dei fini, delle finalità. A mio avviso, è proprio questa scomparsa, questa assenza, il nodo fondamentale dello “smarrimento attuale”: nella misura in cui siamo continuamente invitati a vivere il presente, ne avvertiamo quotidianamente l’appiattimento, l’oppressione, la mancanza di sbocchi. Come la mosca o l’uccello che sbattono sul vetro della finestra chiusa, siamo presi in trappola dall’apparenza e dalla trasparenza; rischiamo lo sfinimento per nervosismo da surplace”.
Perché viviamo? La domanda sembrerebbe senza senso in una società come quella contemporanea che ha decretato la fine delle ideologie, la morte della storia e l’elevazione del presente a tempo assoluto e unico. Ma proprio quando sono il consumismo e la vita privata a fornire il modello di felicità dell’individuo contemporaneo, al fondo di questa immagine complessiva del mondo si cela la più insidiosa delle ideologie.
Perché viviamo? (Meltemi editore) è anche il titolo dell’ultimo studio di Marc Augé, l’antropologo francese approdato nel corso delle sue ricerche dall’etnologia dei villaggi africani all’antropologia dei mondi contemporanei. Un capovolgimento di prospettiva che il noto direttore della Ecole des Hautes Etudes di Parigi analizza nei primi due capitoli del volume, dove elenca le implicazioni teoriche del passaggio da un atteggiamento di studio di culture estranee all’osservazione di se stesso e della propria cultura.
Oggi, in qualche misura, la distinzione tra interno ed esterno è superata dalla globalizzazione del mondo – prova ne è l’indistinzione, ad esempio, tra politica interna e politica estera degli Usa e la presunzione dell’ingerenza. Al posto della coppia esterno/ interno emerge, invece, a giudizio di Augé, l’opposizione tra globale e locale. Va da sé che nel mondo globalizzato l’antropologia non può che essere “generalizzata”: il “più piccolo accampamento amazzonico o africano” può essere descritto solo a partire dalla relazione con il resto del mondo “attraverso il turismo, le immagini, la radio, l’assistenza alimentare”.
Qual è dunque l’immagine di felicità – il modello di vita prevalente nelle società sviluppate – in questo mondo urbanizzato, unificato dal dominio del mercato capitalistico e dalle reti tecnologiche della comunicazione?
“L’individuo è libero di consumare ciò che vuole, ma da una parte la sua scelta si limita alla gamma di prodotti apparentemente diversi che gli vengono proposti – apparentemente diversi poiché la loro diversità risiede solo nell’immagine delle rispettive marche -, dall’altra egli non è completamente libero di non consumare: la pubblicità, le diverse forme di credito, la fragilità e il rapido rinnovamento degli stessi prodotti lo costringono a esercitare la sua libertà di scelta… In breve, l’individuo non è libero di non essere ciò che l’epoca vuole che sia”.
Se ogni società trasmette agli individui un modello di felicità, un senso complessivo dell’universo, una lettura interpretante del mondo, l’ideologia dominante della nostra epoca è la “cosmo-tecnologia”.
“Tutti i gruppi umani hanno cosmologie, rappresentazioni dell’universo, del mondo e della società che propongono ai loro membri dei riferimenti per conoscere il proprio posto, sapere cosa è possibile e impossibile, quello che è permesso e vietato”. Questi riferimenti possono “materialmente inscriversi nello spazio” in forma di statue, santuari, luoghi naturali, utensili, azioni rituali, oppure realizzarsi nei miti e nelle religioni. Quanto più forte è l’adesione a questi modelli, “tanta meno libertà è presente, mentre è presente tanto più senso; gli individui non hanno voglia di fare altro da quello che gli è imposto o consentito: sanno cosa devono fare e anzi sanno meglio ancora quello che non devono fare. Il loro mondo è senza libertà ma impregnato di senso”.
Finite le religioni che oggi sopravvivono in forme privatizzate, personalmente interpretate, non resta che la scienza, ultima avventura della conoscenza umana. Tuttavia, la scienza “ci impone il confronto con l’ignoto, i suoi progressi ne spostano i confini”, “non è rassicurante, ci riconduce continuamente di fronte ai nostri limiti, ai misteri inscindibili dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo”. Sono le applicazioni della scienza, le tecnologie, invece a fornire la cosmologia più adatta al modello di vita contemporaneo, l’individualismo consumistico. Ci circondano di “facili certezze e di artifici”, hanno effetto rassicurante, annullano l’imprevedibilità degli eventi. Le reti che diffondono immagini e messaggi da un capo all’altro del pianeta, anche grazie ai satelliti, “costituiscono l’equivalente di una cosmologia che potremmo chiamare cosmotecnologia”.
Viviamo in un mondo saturo di immagini e messaggi. “E’ proprio qui il loro ruolo cosmologico: raccontano tutto, rendono conto di tutto, spiegano tutto, ma questa totalità rinvia solo a se stessi, come il mito rinvia al mito. Queste tautologie, queste ridondanze sono per natura rassicuranti; ci immergono nel mondo dell’uguale, ci proteggono dall’avvenimento e dalla contingenza, ci impongono l’evidenza del presente”.
Se dal punto di vista del tempo l’organizzazione della vita è centrata sul presente, l’organizzazione dello spazio è comprensibile mediante la coppia luogo/non luogo – concetto non nuovo nelle ricerche di Augé.
“Possiamo chiamare luogo oggettivo lo spazio in cui si inscrivono segni oggettivi di identità, di relazioni e di storia (i monumenti ai caduti, le chiese, le piazze, le scuole, ecc. )”, mentre nonluoghi sarebbero oggettivi sarebbero “gli spazi della circolazione, della comunicazione e del consumo”.
L’autostrada o il supermercato sono esempi calzanti di nonluoghi materializzati.
Nell’organizzazione sociale – quale rapporto con gli altri – prevale il modello della vita privata. Le persone sono spinte “a credere che il senso che pensano di dare alla loro vita dipenda unicamente da se stessi. Ma la vita privata rischia di essere privata di relazioni, di essere insomma l’ultima illusione.
L’individuo che consuma da solo, che trasmette, comunica e riceve informazioni, che reagisce alle false certezze e alle immagini del presente, l’individuo tutto sorrisi delle immagini pubblicitarie o dei varietà televisivi non esiste, non può esistere”.
Ma “riesce difficile pensare che tutti noi non proviamo un senso di alienazione e allo stesso tempo di diffidenza nei confronti di questo sistema, perché il bisogno di avere con qualcun altro dei veri contatti, una vera relazione, il bisogno anche di immaginare la nostra vita, costruire le nostre immagini senza contentarci di consumarne di prefabbricate, mi sembrano alla fine dei conti esigenze assai condivise in grado di costituire l’abbozzo di un contro-sistema, di una resistenza”.
06/03/04 Tonino Bucci da Liberazione