DI MARCO CESARIO
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“Nessuno può essere trattenuto in vita contro la propria volontà; è possibile calpestare la necessità stessa” diceva seccamente Seneca commentando Epicuro per il quale era una sventura vivere nella necessità ma vivere nella necessità non era affatto necessario. In tempi di sordida crisi che miete vittime in tutta la civile Europa e in tutto l’Occidente, ci si chiede se calpestare la necessità ed optare per il suicidio non costituisca forse la scandalosa ed inammissibile sconfitta della società in cui viviamo, la sconfitta delle istituzioni, dello stato come forma di associazione che, come voleva Rousseau, “difende e protegge, mediante tutta la forza comune, la persona ed i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a sé stesso e rimanga libero come prima”.A fronte di una crescente erosione dello stato sociale e del definitivo tramonto di una qualunque idea di Europa basata sul principio di solidarietà perde anche valore il senso più antico del termine di ‘stato’, ovvero ciò che permane, resiste, sopravvive come collettività di vite federate per il bene comune.
Che si tratti delle derive dell’offensiva neoliberista fagocitata dalla crisi economica globale o della volubilità di un mercato che segue leggi imperscrutabili una cosa è certa: i suicidi aumentano man mano che ci si inabissa nella peggiore crisi economica mondiale dal crack del ’29. Il dato è particolarmente allarmante in Europa, come ha indicato qualche tempo fa David Stuckler – sociologo presso l’Università di Cambridge – in uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet. La curva dei suicidi infatti è aumentata in maniera vertiginosa soprattutto in quei paesi colpiti maggiormente dalla crisi ovvero, dal 2007, Grecia, Irlanda e Italia (mancano i dati della Spagna). Il tasso di suicidi in Grecia è aumentato del 24% nel biennio 2007-2009. In Irlanda, nello stesso periodo, i suicidi dettati da ristrettezze economiche e condizioni di vita proibitive sono aumentati del 16%. In Italia la situazione è più che allarmante. Secondo l’ultimo Rapporto Eures dal titolo ‘Il suicidio in Italia al tempo della crisi’ nel solo 2010 ben 362 persone si sono date la morte perché impossibilitate a far fronte ad una condizione economica avversa a fronte dei 357 del 2009 e della media di 270 tra il 2006 ed il 2009. In questo funesto anno di grazia 2012 si sono già suicidati 23 imprenditori, di cui nove solo in Veneto.
Ma ciò che più preoccupa non è solo la triste corrispondenza tra il peggioramento della situazione economica d’un paese e l’impennata del tasso di suicidi ma soprattutto le decisioni politiche di tagli al welfare state e ad altri ‘scudi sociali’ che fino ad ora avevano protetto il cittadino dal cadere nel baratro di un’esistenza grama e indegna d’essere vissuta.
A questo proposito, nelle orecchie di tutti dovrebbero risuonare le ultime parole di Dimitris Chistoulas, il pensionato greco di 77 anni che si è dato la morte nel cuore di quella che fu la culla della democrazia e della civiltà occidentale, Atene: “Non vedo altra soluzione che una fine onorevole prima di iniziare a rovistare i cassonetti in cerca di cibo”. Una fine onorevole non è forse meglio di una vita vissuta nel segno delle umiliazioni? Lo scandalo della povertà e la minaccia diretta alla nostra sopravvivenza materiale – fantasma sempre scacciato ai margini dell’Occidente e del pensiero – non ci ricorda, oltre la mera precarietà dell’esistenza, anche l’irrisorietà delle nostre politiche sociali?
La caduta dei simboli che facevano dello stato il garante della sopravvivenza materiale dei propri cittadini indicherebbe che anche lo stato, nella sua concezione moderna, è in profonda crisi e che forse si dovrebbero rivedere i concetti di bene comune. Se il bene comune coincide con il benessere (materiale e spirituale) di una collettività come interpretare ad esempio quel suicidio di un’anziana di 78 anni a Gela perché l’Inps le aveva tolto 200 euro dalla pensione? Non è forse il simbolo del fallimento di uno stato o del fatto che quest’ultimo non si faccia più garante del benessere della collettività ma si sia trasformato oramai in un attore economico che privilegia gli interessi particolari (delle banche e della finanza mondiale)? Uno stato simile è degno di rappresentare il corpo dei cittadini? La decisione di modificare l’articolo 81 della Costituzione inserendo il vincolo del pareggio di bilancio va a nostro avviso in questo senso, nel senso di una dissoluzione del concetto classico di stato. La priorità non è più il benessere collettivo nazionale ma interessi economici particolari e sovranazionali.
La terribile ondata di suicidi che attraversa l’Europa e l’Italia ha messo in luce un altro fenomeno, inquietante, strettamente connesso con quello precedentemente analizzato. Ovvero la desacralizzazione dell’esistenza, la perdita di valore della vita umana, ora non più considerata necessaria se non contestuale al processo globale della produzione che non vede limiti se non in se stessa e che vede la morte dell’essere umano come una necessaria e inevitabile fatalità. In questo fosco scenario la vita, nel suo senso biologico e storico, può e deve essere sacrificata sull’altare del feticcio-mercato per permettere al sistema stesso di sopravvivere. Siamo cioè in un sistema che il filosofo Jean-Luc Nancy definiva “dell’autoproduzione come regime generale della civiltà” in cui però è l’uomo stesso, in quanto produttore di civiltà, a produrre la propria morte.
Di fronte ad una prospettiva simile il suicidio come forma di resistenza, il suicidio come atto politico o d’insubordinazione non appare forse come l’ultima ed estrema forma di lotta dell’individuo contro una società desolidarizzata, disumanizzata, alienata, che non mette più al centro delle sue preoccupazioni l’uomo ma la produzione, l’accumulazione della ricchezza, lo sfruttamento delle risorse naturali per creare più produzione e non più benessere collettivo? Vedendo poi i propri concittadini morire sotto i colpi della crisi, la politica non dovrebbe forse ripensare sé stessa ed agire immediatamente per prevenire un fenomeno tanto drammatico? Ma se la politica non è più capace di pensare l’uomo come può dirsi umana e come possono dirsi umane le nostre società? Lungi dal voler fare l’apoteosi del suicidio e a difesa di coloro che hanno scelto questa estrema possibilità, ci si può solo chiedere se, filosoficamente, di fronte all’impossibilità di sottrarsi ad una vita indegna, fatta di umiliazioni e costantemente minacciata dal punto di vista materiale, l’atto di decretare la fine della propria esistenza non riveli non solo il vuoto sociale, istituzionale e di solidarietà delle nostre società ma anche l’ultimo ed estremo atto di libertà e di dignità dell’essere umano.
Marco Cesario
Fonte: http://temi.repubblica.it
Link: http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-suicidio-ai-tempi-della-crisi-atto-disperato-o-gesto-politico/
30.04.2012