Il problema dei controlli nei progetti di educazione parentale

Di Francesco Bernabei per educazioneparentale.online

Mi piacerebbe parlare brevemente di un tema che vivo frequentemente, quello dei controlli effettuati dalla Pubblica Amministrazione nei progetti di educazione parentale. Nei corsi e nelle chiacchierate fatti in pubblico e in privato ho sempre trattato di questo tema perché ho avuto modo di misurare presto quanta difficoltàproducevano i controlli ai gruppi di famiglie ed educatori, creandosoprattutto una sensazione di illegalità e di impossibilità a procedere.

Ho sempre sostenuto che la legge non è ostativa in generale verso le attività sociali –e tanto di più nei casi in cui il denaro è limitato e c’è molto volontariato – e, in particolare, nelle attività che riguardano i minori dove i servizi in realtà non coprono che la metà della  domanda da parte delle famiglie.

Il problema è che il sistema dei controlli amministrativi viene gestito come un sistema immunitario sociale dove la reazione è volta a stroncare sul nascere quello che, nella mentalità di chi interviene, è potenzialmentpericoloso per la collettività.

Praticamente mai ho trovato persone attente a non limitare la libertà delle famiglie e l’espressione dei cittadini, quasi sempre ho avuto a che fare conpubblici ufficiali alla ricerca disperata della norma di inquadramento delle attività sociali e completamente a digiuno di elementari fatti pratici del no profit. Ci sono interi capitoli della nostra vita quotidiana che non hanno un quadro normativo applicabile perché le leggi che li riguardano marginalmente sono semplicemente state pensate per fatti non proprio collimanti con le diverse attività che possono nascere intorno agli stessi argomenti. Esempi pratici?

La somministrazione dei pasti legalmente è concepita per due categorie specifiche, dentro casa e fuori casa: il “dentro casa” non ha bisogno di niente a livello di inquadramento legale, il “fuori casa” di tutto. Il problema è che il dentro casa è suscettibile di grandi interpretazioni limitative e quindi qualcuno potrebbe concludere che anche il panino che mangio al parco sia una sorta di atto somministrativo…dipende da dove ho cucinato il panino e da chi ci ha guadagnato nel farlo… pazzesco…

La presenza di denaro nei percorsi di volontariato e del no profit: quasi tutti sono convinti che, se c’è pratica non commerciale, non è possibile prendere soldi o quasi impiegare denaro, se non nella strettissima necessità del coprire le spese e la lotta qui, colpevoli icommercialisti, è quella di dimostrare, pena la scorticazione, chetutto è stato fatto nella più totale assenza di guadagno per chi era presente alle attività… così muore qualsiasi attività socialmente rilevante e vive solo quello che crea un ritorno economico, anche se a danno dei contribuenti e dei meno abbienti, per far rima…nessuno vede questo paradosso ma l’importante, nella mentalità che incontro, è che la norma sia rispettata anche quando arriviamo al paradosso del comma 22…la ricerca del senso diventa disperata quando si rimane su questi livelli.Lavorare nelle attività non commerciali è formalmente proibito?

No, fa parte delle possibilità di praticamente ogni ente non commerciale…allora viene vietato almeno ai soci…veramente sarebbe possibile a tutti purché non rappresenti un meccanismo di redistribuzione indiretta di utili…quindi sicuramente non i consiglieri dell’ente…si parla di tutti i soci e non c’è discriminazione di sorta…ma almeno il presidente sarebbe in evidente conflitto di interessi… il conflitto di interessi nel terzo settore praticamente non c’è e comunque riguarderebbe solo i casi in cui almeno un amministratore abbia votato per qualcosa che può creare danno patrimoniale ad una società altra con cui è in affari a qualche livello dimostrabile…questa è la tipica conversazione che avviene nei controlli o con i commercialisti poco versati nel no profit, cosa quest’ultima assolutamente perdonabile dal momento che non esiste un canale formativo riconoscibile per questi argomenti.

La lista si potrebbe allungare a dismisura, se continuassi, ma il mio obiettivo qui è quello di far capire la situazione in cui ci troviamo e non quella di deprimere.E’ ovvio che la legge cresce con le esperienze comuni e lo è altrettanto che non possiamo fingere che, non essendoci una norma ad hoc, siamo scioccamente “liberi” di fare tutto quello che non è formalmente vietato. Il punto però qui è che la mentalità che viene adottata non è quella di configurare il diritto per acquisirlo a favore dell’espressività sociale ma, al contrario, è quello di piegarlo per limitare qualcosa percepito come dannoso e peggio è quando questa mentalità riesce in qualche modo a tirare dalla propria parte organi decisionali di rilevanza amministrativa, togliendo qualche pezzetto di legge regionale, aggiungendo qualche parolina giusta (sbagliata) a dare spazio alle interpretazioni più favorevoli a questa mentalità.

Il sogno di chi incontro sembra essere quello di trasformare tutto in un colossale “diritto della strada” dove ad ogni infrazione si dà un nome e si procede a sanzionare senza reale possibilità di appello e di ragionamento alternativo: una sorta di legge primitiva dove esiste solo un diritto unico ed inequivocabile più il resto che è “tabù”, cioè indiscutibile, intrattabile, impresentabile e unicamente da rigettare. Così la finezza del diritto viene sacrificata all’ordine del bastone, dove vale di più impedire che aiutare e, dove è meglio stare fermi, piuttosto che darsi da fare.

Ma c’è di più.Il sistema della nostra giurisprudenza è al collasso, ci sono processi che non saranno mai celebrati perché non c’è spazio e tempo per trattarli, ce ne sono altri che sono stati svolti con un percorso talmente tortuoso da non essere più riconoscibile, tutto sembra normale, in questo contesto, e semplicemente non lo è e così succede che, anche quando abbiamo delle ragioni, dobbiamo temere di esporle e/o di essere coinvolti in quei meccanismi che sono veramente inintellegibili ai più e i pochi che si sanno muovere in questi meccanismi oscuri sembrano a proprio agio in mezzo allo strazio delle menti e degli animi, giustificando questa situazione per mezzo di una semplice normalizzazione… basta conoscere le leggi e sei a posto,sembrano suggerire…

L’aver prodotto un complesso normativo che ammonta a oltre 160mila norme e l’aver creato un sistema di riconoscibilità del diritto che può passare solo attraverso un bel processo che ovviamente toccherà interessi personali e diretti di qualcuno, hanno reso questa risorsa sociale praticamente inutile per noi comuni cittadini e da temere e fruibile solo per chi è dotato di grandi risorse economiche, potendo sostenere percorsi legali in cui viene sospeso il giudizio automatico destinato ai più e ripensato in modo almeno formalmente più favorevole.

Io non invito nessuno ad affrontare frontalmente questo moloch del diritto costituito ma a tenerne conto e il lavoro che ci attende è quello che attende chiunque voglia davvero partecipare responsabilmente ad un cambiamento collettivo degno di questo nome: dobbiamo elaborare un sistema di smontaggio che, pezzo a pezzo, ci ridia il senso della socialità, ben consapevoli che, se siamo animati da buone intenzioni, buon senso, amorevolezza e capacità umane, non potremo incontrare una forza contraria che ci ostacola ma solo una cattiva rappresentazione dei fatti e allora partiamo da questo ed elaboriamo per tutto quello che facciamo una pratica ben condita di senso civile. Non potrà essere illegale, né da temere da parte di chiunque e tanto meno da ridimensionare se si vuole evitare di generare sofferenze sociali inutili.

Di questi tempi si parla tanto di fascismo e di antifascismo, si discute ancora di cosa sia genuinamente qualificabile come “fascista” e cosa non lo sia; trovo che il vero fascismo, quello di cui non ci siamo liberati ma che sottilmente è presente in ogni democrazia, anche se formalmente evoluta, stia in almeno tre fatti: la mancanza di rispetto per le diversità e la propensione per un modello unico di sviluppo omologante, la credenza che la competizione sia il meccanismo selettivo più adeguato a sostenere l’evoluzione sociale e non la promozione della partecipazione sociale di tutti, l’idea per la quale l’ordine viene prima del senso e che allo scopo di ottenere “ordine” tutto diventa sacrificabile.

Noi, armati di un semplice diritto di esistenza e innamorati del desiderio di stare evivere meglio, non potremo evitare di rappresentare con le nostre vicende un pezzo di diritto all’agire sociale per costruire megliola società nella quale abitiamo.

Questo sì, è proprio un nostro diritto.

Di Francesco Bernabei per educazioneparentale.online

04.06.2024

Francesco Bernabei si occupa di sviluppo sociale con lo specifico scopo di avviare e partecipare a processi per la prima ideazione e la promozione di idee, pratiche e percorsi di interesse collettivo. In passato ha collaborato a processi che hanno riguardato l’obiezione di coscienza e il servizio civile, la finanza etica, l’economia, l’europeismo, la responsabilità d’impresa. Attualmente è impegnato nel contesto dell’educazione e dell’istruzione parentale, del diritto naturale e delle pratiche per il migliore utilizzo delle risorse ambientali.

Fonte: https://educazioneparentale.online/2024/06/04/il-problema-dei-controlli-nei-progetti-di-educazione-parentale/


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