UN VIDEO DELLA DONNA E’ ARRIVATO NEL GIUGNO DELLO SCORSO ANNO, POI IL SILENZIO
In Colombia il rapimento record della Betancourt, ex candidata alla presidenza
SI soffre a raccontarlo. Nel parco del Sud di Bogotà dove Yolanda Pulecio ha dato appuntamento a chi, piantando un albero, voleva dimostrare che non ha dimenticato sua figlia, rapita da mille giorni dalla narcoguerriglia, c’era la miseria di cinquanta persone. Qualche ostinato amico di famiglia dei Betancourt, che pure in Colombia sono stati ministri e presidenti; irriducibili militanti del movimento «Ossigeno», la formazione futurista di ecologia politica con cui Ingrid Betancour ha sfidato la ghenga dispotica della mafia politica e i mitra dei Cartelli della droga; bambini ingenuamente annoiati ai quali le madri facevano volenterosamente ripetere un ritornello: «Sì a un accordo umanitario, liberate i prigionieri». Mestizie, rassegnati imbarazzi. Il mondo, da Dublino a Washington a Bruxelles, si mobilita, manifesta, si commuove per questa donna inghiottita dalle fauci di una guerra indecente. Il suo Paese no. In Colombia i sequestrati sono tra tremila e cinquemila. Un’industria losca che ha inghiottito industriali, giornalisti, un paio di mercenari nordamericani; ci sono due ex ministri, ex governatori, una sessantina di deputati regionali, poliziotti, ufficiali dell’esercito.Migliaia di famiglie ogni notte tra il sabato e la domenica si riuniscono, staffilate dall’angoscia, davanti alla radio. «Caracol» è diventata una emittente popolare, la trasmissione «voce dei rapiti» ha una audience atroce. Trasmette gli appelli disperati di figli mogli madri e, ogni tanto, anche le risposte dei rapitori che pongono condizioni, chiedono soldi, danno appuntamenti in codice per recuperare videocassette balbettanti e scolorite, dove appaiono uomini a capo chino assottigliati, rinsecchiti, consunti dalla prigionia nelle foreste. Forse non c’è tempo davvero per occuparsi di Ingrid Betancourt, forse si pensa che una donna che è stata candidata alla presidenza, che ha scelto di gettar via una comoda vita da ricca borghese, un marito diplomatico e due figli, per dichiarare guerra ai traffici luciferini della narcopolitica in fondo se l’è meritata, questa lunga prigionia. Qui nessuno ricorre allo Stato per trattare, bisogna arrangiarsi, pagare. La notte recapita messaggi, labili boe di speranza.
Talvolta qualcuno torna a casa. Per Ingrid, invece, solo silenzio; da quel 30 agosto dello scorso anno quando, le mani giunte in un enigmatico sguardo di infinita stanchezza, comparve in una video cassetta per dire «va bene, sono viva» e chiedere una trattativa politica tra il governo del presidente Uribe e gli ultimi discepoli del «Che», gente per cui i soldi hanno avuto la meglio su Marx. Poi, soltanto il martirio delle voci: un ex guerrigliero pentito che racconta che è moribonda per gli scioperi della fame, contadini che sostengono di averla vista nella foresta alla frontiera del Venezuela. E’ difficile riempire mille giorni di silenzio. Le cifre sono astrazioni scarnificate che a stento trattengono la nostra attenzione: l’angoscia, il dolore di tre anni rubati, bisogna inventarseli.
Ingrid Betancourt non attrae, anzi talvolta irrita, non è una pasionaria soddisfatta, ha invece dolcezze di acciaio, il suo motto è la dismisura, ha una incorreggibile passione per le cause perse, agisce spesso per orgoglio, ambizione. Mescola una disciplina ferrea con la nonchalance che solo i veri ricchi possiedono. Ma paga di persona, non indietreggia. E’ diversa dagli altri politici di questo Paese, tipi che si smontano e si montano meccanicamente, che per raccontarli obbligano a discendere come palombari nel fango della corruzione e dei compromessi. In questi mille giorni in tanti hanno tentato di spiumare la causa di Ingrid, e ognuno se ne voleva mettere le penne sul cappello. Il presidente Uribe, per esempio. «Mano dura e Corazon grande», pugno di ferro e cuore d’oro, ripete nei comizi, accanito come Catone nel proclamare la necessità di distruggere l’ultima guerriglia del continente. E’ uno prodigo nel gettar via le vite umane, vuole scuoiare le Farc. Bush, che ha spedito i commandos per dargli una mano, è più che il suo alleato, è il suo idolo.
Si intenerisce quando pronuncia il nome di Ingrid Betancourt, inveisce contro i terroristi che la tengono prigioniera. Ma, chissà!, forse preferisce che resti nella foresta. Cresimato dalle vittorie conquistate con le armi americane, le sacocce piene della nuova manna petrolifera, sogna di farsi rieleggere e teme le impertinenze di quella donna irriducibile come la cattiva coscienza. E le Forze Armate Rivoluzionarie? Si decorano il petto come una bacheca di gioielliere con «le riforme economiche e sociali», ma intanto incadaveriscono in un presente ingombro di campi di coca, banditismo, una gragnuola di massacri indiscriminati di povera gente. Ingrid Betancourt denunciava questi tempi luridi. Anche per loro è meglio se tace.
Fonte:www.lastampa.it
23.11.04