DI FABRIZIO MOTTIRONI
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C’è il solito polverone emotivo e manipolativo rispetto alla tristissima vicenda di Giuseppina Ghersi, la tredicenne seviziata e uccisa a guerra finita da un gruppo di partigiani comunisti.
Ma c’è almeno una considerazione che vale la pena affrontare filosoficamente, la risposta che il partito di Rifondazione comunista ha ritenuto giusto presentare in questa vicenda citando, a sproposito, Italo Calvino:
«Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’ Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono».
Innanzitutto una considerazione banale ma autoevidente, i partigiani comunisti non hanno mai combattuto per una società democratica, per una società libera, per come noi la intendiamo e per come aveva già compreso proprio in quel periodo Mao Zedong: «loro vogliono la libertà, noi vogliamo il comunismo».
E il comunismo di riferimento di quei partigiani era quello di Stalin e di Berija, era quello della picconata a Trockij, quello delle fucilazioni di massa degli anarchici in Spagna, per tacere di quello che succedeva in Unione sovietica che ormai conosciamo bene tutti.
Certamente i partigiani comunisti possono parlare di antifascismo e antinazismo (ma solo da dopo l’invasione dell’Unione sovietica da parte dei tedeschi visto che prima i loro compagni sovietici consegnavano volentieri ai nazisti gli stessi comunisti tedeschi nelle loro mani), ma non credo che abbiano alcun diritto di parlare di libertà e di democrazia. Questo almeno per coerenza e onestà intellettuale.
Archiviato l’argomento della democrazia e della libertà, almeno per quanto li riguarda, qui non si tratta nemmeno di spietatezza, di uccisioni sbrigative di militi fascisti, di furti ai danni dei padroni che simpatizzavano per il fascio, perché in quel caso può valere l’osservazione di Calvino, qui si parla di una tredicenne stuprata e seviziata per giorni davanti ai genitori e infine uccisa con un colpo alla nuca. Che senso ha tirare fuori l’osservazione di Calvino? Ha senso?
Non credo, c’è un limite infatti che divide la spietatezza, l’abuso, il crimine comune da qualcosa di efferato, inumano e inconcepibile e che tale resta in qualsiasi epoca, condizione storica, tragedia umana e che mai può essere giustificato. Dai tempi della civiltà, della Grecia antica a oggi. E tale resta anche a fronte di terribili regimi che dividevano gli uomini secondo una presunta “razza”, preferenza sessuale, opinione politica o semplicemente culturale, inviandone alcuni per questo a morte certa.
La tredicenne Giuseppina Ghersi non sapeva nulla di Auschwitz, era solo nata e cresciuta in un mondo tutto “nero”, Dio, Patria, Famiglia; dove financo il Papa aveva dichiarato il duce “uomo della Provvidenza”… non ha avuto il tempo, l’età e la furbizia di altri di cambiare casacca al momento opportuno… e per questo a tredici anni poteva essere stuprata e uccisa?
Che senso ha tirar fuori la considerazione di Italo Calvino se non per giustificare delle “bestie”, che in quanto a bestialità nulla avevano di diverso da altre “bestie”, che pure ci sono state, ma in camicia nera?
La bestialità non si copre con il colore delle camicie.
Ecco… giustificare delle “bestie” questo è quello che hanno compiuto quelli di Rifondazione comunista in questa occasione.
Fabrizio Mottironi
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15.09.2017