Di Rachele Foschi
Nella prima metà del secolo scorso si stavano delineando i presupposti per un capitalismo “moderato”, in cui era centrale un benessere che fosse diffuso e che costituisse l’aspirazione di chi ancora non vi accedeva, ma il profitto di singoli pochi privati non era sfrenato e deregolamentato (come all’inizio e come sta tornando ad essere ora). Lo scorso secolo ha visto l’unico periodo storico in cui il popolo non fosse esclusivamente una massa sfruttata, senza coscienza, istruzione e condannata ad una vita di stenti. Quella che, soprattutto in questo periodo, abbiamo chiamato “normalità”, è stata una parentesi di pochi decenni nel corso di millenni di storia umana.
Probabilmente, se si fosse mantenuta questa moderazione del capitalismo, senza portare all’esasperazione bisogni e consumi, una forma economica del genere avrebbe prosperato per altri secoli, continuando anche a generare benessere collettivo.
La durata di un sistema basato su bisogni e consumi, non avrebbe comunque potuto essere infinita. Già da decenni erano presenti i segnali di una accelerazione della dinamica e quindi di una forzatura verso il crollo, segnali che si possono identificare nell’ostilità, con conseguente pacifica eliminazione, della classe “media”; avversione alla staticità del denaro, quindi al risparmio, soprattutto delle famiglie, e alla famiglia stessa; riconversione del sistema di istruzione, da istituzione che crea cittadini autonomi e consapevoli, in struttura di propaganda, indottrinamento e addestramento a mansioni specifiche (la scuola che deve preparare al lavoro).
La classe media, demonizzata e diffamata, è in realtà un volano economico e sociale della nazione. Uno Stato che agevolasse la classe media si avvicinerebbe al paradigma di Stato fichtiano (adoperarsi per rendersi inutile), rendendo i cittadini indipendenti da aiuti ed elemosine di stato, ma in grado di dare e trovare lavoro e migliorare la propria posizione sociale, non più vincolato a classi chiuse (di fatto, se è troppo difficile uscirne). La classe media, in uno stato migliore di quella bassa, ma non chiusa e inarrivabile come quella alta, unitamente ad una scuola selettiva aperta a tutti e all’istituzione della famiglia, è il motore che permette la realizzazione dell’ascesa sociale, intesa come miglioramento delle condizioni di vita. Che si tratti di piccoli imprenditori o dipendenti con uno stipendio più elevato di quello necessario alla sussistenza, la classe media crea lavoro: il piccolo imprenditore assume dipendenti, ma anche chi ha un surplus di stipendio può impiegarlo per “assumere” (donna delle pulizie, babysitter,…), per acquistare beni o beneficiare di servizi non essenziali, che vanno a retribuire il lavoro di qualcun altro (libri, musei, palestra,…). Assume anche il ruolo di motore (sia come modello a cui si aspira, sia per la diffusione di ricchezza) per il miglioramento delle condizioni di vita delle classi più basse da una generazione all’altra. Nel secolo scorso il risparmio delle famiglie e una scuola ancora somigliante a quella voluta dalla riforma Gentile, aperta a ogni ceto sociale al fine di selezionare i capaci e meritevoli nell’ambito di tutta la popolazione e non solo della classe agiata, hanno permesso l’accesso dei figli della classe più bassa a gradi di istruzione via via superiori e a posti di lavoro migliori e meglio retribuiti, innescando un circolo virtuoso, sia sociale (maggior diffusione della cultura), sia economico.
L’economia incentrata sulla classe media è stata boicottata nell’ultimo mezzo secolo. Un’idea distorta di vicinanza ai lavoratori ha sempre premiato politicamente chi proclamasse di voler aiutare con assistenzialismi ed elemosine di stato (gravanti sulle tasse dei lavoratori) la classe più disagiata, rendendo l’aspirazione alla ricerca di un “lavoro migliore” sempre più debole, sia per la differenza di retribuzione sempre più sottile, sia per la tassazione sempre più elevata di reddito e risparmio.
La differenza di retribuzione tra lavori poco qualificati e altamente qualificati non deve tener conto infatti solo del tipo di lavoro in sé, ma anche dell’investimento (anche ad alto rischio) fatto dall’individuo o dalla sua famiglia nell’impiegare degli anni in studio non retribuito. Appiattire le retribuzioni implica rendere l’ “investimento in istruzione” non redditizio e quindi non accessibile a persone che cercano di far uscire i propri figli da una condizione di sussistenza o che ne sono appena fuori.
La propaganda degli ultimi 70 anni ha lavorato molto sull’associare l’aiuto di stato alla classe più bassa a un concetto di altruismo, di carità e bene, e l’aiuto alla classe media all’egoismo di chi già ha e vuole di più, non tenendo conto del fatto che l’aiuto alla classe media tipicamente è una tantum o consisterebbe semplicemente nel non massacrare di tasse persone che comunque vivono del loro lavoro (che non sono parassiti della società, come si vorrebbe far credere), ma il benessere di tale classe trascinerebbe fisiologicamente verso il benessere anche la classe bassa; l’aiuto alla classe bassa deve essere invece sistematico, perché un aiuto una tantum non ha alcun effetto benefico di “rimessa in piedi” e va a gravare su chi lavora, innescando un circolo vizioso. Ultimo esempio di questa politica è stato il reddito c.d. di cittadinanza: un aiuto a disoccupati e poco più che nullatenenti che doveva servire a tenere alto il salario minimo e a rimettere in moto l’economia e che invece al massimo è stato impiegato dai destinatari per pagare beni di prima necessità. Chi cerca di “rimettere in moto l’economia” elargendo elemosine non è diverso da uno che cerca di spostare una macchina spingendo a mano le ruote anziché fare benzina e accendere il motore.
Anche gli attacchi a scuola (e sistema di istruzione in generale) e famiglia si sono susseguiti e compenetrati: chi volesse oggi “sostenere le famiglie”, dovrebbe imprescindibilmente agire prima drasticamente sulla scuola. Il lockdown del 2020 è stato solo il colpo di grazia a queste tre istituzioni fondamentali della società aperta: classe media (e lavoratrice), scuola, famiglia.
La distruzione della classe media è stata evidente, soprattutto per quanto riguarda commercianti e piccole aziende: lo stato ha vietato lo svolgimento dell’attività lavorativa, rimborsando cifre irrisorie (meno di un reddito di cittadinanza); anche nell’immediato il risultato è stato consegnare i piccoli imprenditori al lavoro dipendente poco qualificato e sottopagato offerto dalle grandi aziende. I dipendenti non sono stati risparmiati: seppure bersaglio dell’odio, in quanto “hanno potuto mettere tutto da parte”, il lockdown ha messo in luce quanto il potere d’acquisto di buoni stipendi fosse puramente convenzionale.
Quel che rimaneva della scuola è stato diligentemente riconvertito in una fabbrica di automi. Roccaforte del pensiero unico lo era già, ma al suo interno vi si trovavano ancora spazi per acculturarsi, per allenarsi al pensiero autonomo, al dibattito, al conseguente isolamento che ne derivava, senza dover temere per la propria incolumità fisica. La famiglia è stata ridefinita come “focolaio” anziché “focolare”, sempre più divisa, dal momento che durante il lockdown era vietato addirittura andare a trovare fratelli o genitori, anziani, soli e magari in difficoltà: per la prima volta abbiamo visto l’obbedienza alle regole dello stato passare avanti alle leggi naturali della devozione filiale. Quando fu dato il permesso a nonni e nipoti di rivedersi, politica di tante famiglie fu di non abbracciarsi e tenere la mascherina, praticamente di non riconoscersi più.
Tutto questo porta a chiedersi se la “pandemia”, sicuramente premeditata e non evento esogeno rispetto alle dinamiche economiche, si collochi in un continuo, che nell’occasione del lockdown ha raggiunto una “soglia di percezione”, oppure interrompa bruscamente la costanza dei provvedimenti presi fino ad allora, per accelerare il crollo in maniera discontinua.
Di Rachele Foschi
Professore Associato presso il Dipartimento di Economia e Management
Università di Pisa
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Pubblicato da Jacopo Brogi, ComeDonChisciotte.org