E se la Guerra Fosse l’Unica Soluzione?

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Zory Petzova

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Le elezioni presidenziali USA del 03 Novembre 2020 rappresentano non solo l’evento dell’anno che influenzerà per riflesso tutta la comunità mondiale, ma l’evento dell’epoca che verrà, perché determineranno il corso della storia- in una o in altra direzione, con una o con altra prospettiva geopolitica (da intendersi anche bellica), ma ciò che è quasi certo come conseguenza di queste elezioni sono gli scontri interni alla società americana, che probabilmente sfoceranno in una guerra civile. Entrambi i candidati hanno dichiarato che non intendono a riconoscere la vittoria elettorale dell’avversario; Biden e i democratici sono stati i primi a dichiarare durante i disordini sociali di giugno che un secondo mandato di Trump è inammissibile, inimmaginabile, mentre Trump ha espresso preventivamente la sentenza di elezioni truccate in caso di vittoria per il leader del partito democratico.

I due candidati rappresentano in modo trasversale le due Americhe sempre più antitetiche tra di loro per interessi, valori e visione del mondo- quella progressista e multiculturale, da un lato, assuefatta alle oligarchie tecno-finanziarie, la cui agenda mondialista riconosce come propria, e quella tradizionale e conservatrice, dall’altro, che fonda la propria ragion d’essere nell’economia reale, nei principi di meritocrazia e di ordine e giustizia sociali. I due modelli di società, incompatibili per tanti versi, hanno quasi esaurito la possibilità di compromesso, ma questo vale a maggior ragione per le rispettive élite politiche, le quali investono uno scontro escatologico, che va oltre i programmi politici, uno scontro che sarà questione di vita o di morte, con effetti difficilmente prevedibili.

In primo luogo bisogna far notare che anche questa volta, come alle elezioni di 4 anni fa, gli strateghi del caos, che solitamente usano i democratici come strumento politico, hanno cercato di destabilizzare alcune regioni di valore strategico per mettere in difficoltà gli avversari politici. Con l’ascesa di Trump al potere, sostenuto dalla parte più ragionevole del Pentagono, non è più appropriato parlare di una geopolitica a stelle e strisce unificata, in quanto l’agenda di Trump non coincide con quella del Deepstate e i suoi adepti di vecchio stampo. Un’eventuale guerra civile interna assorbirà le energie politiche e renderà difficile su piano estero una qualsiasi operazione tempestiva da parte del Pentagono, lasciando in questo modo terreno libero ad altri protagonisti, pronti a loro volta a rivendicare ambizioni di preminenza geopolitica, altri invece commissionati a incendiare nuovi conflitti per conto di terzi. La formula dei vecchi esportatori di democrazia è ancora la stessa: quella di destabilizzare paesi strategici e ricchi di risorse per trarre beneficio dalla gestione del caos, subentrando in un secondo momento con basi militari e truppe armate in funzione di ‘peacekeepers’.

Accertato il comportamento moderato e tendenzialmente passivo della Russia, il primo geo-protagonista emergente dopo gli Usa è senz’altro la Cina, già in mobilitazione militare su diverse fronti: nel Mar cinese, dove è in tensione non solo con Taiwan, ma anche con Vietnam e le Filippine, nonché sul confine con l’India, dove lo scontro fra le due potenze nucleari è già in corso. La Cina è dichiarata competitor principale degli USA da entrambi gli schieramenti politici, ma l’inderogabilità del suo affronto militare è maggiormente scandita dall’agenda repubblicana. L’ultimo rapporto del ministero della Difesa Usa illustra un Pechino in preoccupante fusione di obiettivi egemonici che, insieme all’espansione economica, punta sempre di più sulla strategia della hard power, contando non solo su testate nucleari e missilistica di raggio intercontinentale, ma sulla Marina attualmente più grande al mondo, con la recente produzione di portaerei “made in China”. La fervida mobilitazione della Cina su tutte le fronti- fra cielo e terra, non può essere interpretata solo come un detraente di eventuali attacchi altrui, per cui la costituzione di un’Alleanza anti cinese nel Pacifico sarà la priorità della geopolitica dei repubblicani in caso di vittoria presidenziale. In questo scontro la Russia, alla quale spetta senz’altro il terzo polo della multipolarità globale, resterà inizialmente neutrale, avendo già bloccato previdentemente l’export di armamenti militari verso la Cina, non solo perché adatta al ruolo di arbitro, ma perché costretta a focalizzarsi su una crisi economica interna difficile da contenere, nonostante sia stata avvantaggiata in campo di oleo-e gasdotti.

L’altra potenza nazionale che sta dimostrando una crescente attività geopolitica su vasta scala regionale è la Turchia che, dopo gli interventi militari in Siria e in Iraq su fronte anti curda (oltre che per accaparrarsi materie prime), è impegnata in manovre petrolifero-militari anche nelle acque territoriali di Cipro, in Libia e da poco in Azerbaijan, mostrando delle ambizioni geopolitiche decisamente superiori alle sue reali capacità economico-militari, e rischiando di scontrarsi con le altre alleanze nel Mediterraneo- sia quella europea che quella di Israele e della Lega araba, contro cui non ha alcuna chance di prevalere. Il suo intervento nel territorio conteso fra Azerbaijan e Armenia -Nagorno Karabakh, è una netta provocazione verso la Russia, ma più profondamente fa parte del vecchio piano anglosassone di controllo sul Caucaso meridionale, trapelato dalla dichiarazione del ex segretario di stato John Kerry che 4 anni fa, prima della elezione di Trump, aveva dichiarato al presidente turco di sostenerlo in Azerbaijan contro l’Armenia, in sintonia con la posizione delle istituzioni dell’UE. Per quanto riguarda il Mediterraneo, un’eventuale scontro fra la Grecia e la Turchia potrà essere il primo scontro fra due membri della Nato, un caso senza precedenti, per cui non è facile prevedere quale potrebbe essere la reazione da parte degli Usa. Possiamo solo prognosticare che, una volta rieletto, Trump continuerà a smantellare la Nato, svuotandolo della sua importanza, per concentrare la geopolitica americana nel Pacifico, lasciando provvisoriamente il Mediterraneo ad arbitrarie configurazioni locali.

Al netto dei disordini interni che interesseranno la società americana, in caso di una vincita per Biden è facilmente prevedibile che egli porterà avanti come priorità l’agenda geopolitica anti Russia, coerente sia con l’intensiva attività del governo Obama in Ucraina (protratta con ostinazione fino agli ultimi giorni del suo mandato, durante il quale per la strategia anti russa sono stati spesi circa 5 miliardi di $, e dove Biden ha contratto grossi conflitti d’interesse), che con le recenti ingerenze e disordini generate in Bielorussia secondo l’ormai logoro fino alla nausea espediente delle rivoluzioni colorate, cercando di colpire uno dei pochi alleati consolidati della Russia, nonché uno dei pochi governi sovrani non allineati al modello del lock down pandemico imposto dalla Cina e dalla direzione Oms. Sono strategie non certo ascrivibili all’agenda di Trump, tanto è che egli è stato sempre molto chiaro a rispondere a ogni domanda riguardante l’Ucraina con il “chiedetelo a Obama”, dando a capire l’ingombrante e deleteria eredità geopolitica che si è trovato a gestire, mentre per quanto riguarda gli eventi in Bielorussia, essi hanno la solita fonte di finanziamenti che è superfluo nominare. In prospettiva di creare meno sicurezza regionale e destabilizzazione dei territori post sovietici va interpretato anche il recente colpo di stato in Kirghizistan, territorio strategico e ricco di minerali, che contribuisce ad aumentare lo stress geopolitico per il Cremlino.

L’accerchiamento della Russia da Tallinn a Tbilisi è un proseguimento non tanto della Guerra fredda, quanto di una fixed idea dei due principali consulenti della vecchia élite progressista americana- Brzezinski e Kissinger, all’interno della quale si svolge anche il patto con la Cina comunista. La Cina che conosciamo oggi è una creazione della politica estera statunitense che negli anni 70 decide di trasformarla in un alleato economicamente solido contro la Russia (l’URSS), arginando in questo modo il pericolo di espansione sovietica nell’Asia centrale (il Heartland), dove secondo i vecchi strateghi si trova la leva dell’egemonia sul mondo. Come tanti sapranno, Kissinger è quello che ancora nei primi anni 70 prepara il terreno diplomatico per il successivo patto di cooperazione economica fra Nixon e Deng Xiaoping, il nuovo leader del PCC. In tale seguito nel 1982 viene modificata fondamentalmente anche la Costituzione della Repubblica popolare cinese in modo da offrire una base giuridica per i profondi cambiamenti socio-economici in avvenire. La nuova Costituzione espunge quasi tutta la retorica della Rivoluzione culturale, ridimensiona la lotta di classe e stabilisce come maggiori priorità lo sviluppo, l’arricchimento individuale e la recezione di contributi e interessi di gruppi apolitici che possono giocare un ruolo centrale nel processo di ammodernamento del paese.

Da lì in poi la storia è conosciuta: con la caduta del Muro di Berlino e l’entrata ufficiale della Cina nella WTO nel 2001 il processo della globalizzazione come sinergia a doppio motore fra i capitali occidentali e la poderosa produttività cinese diventa un fattore di forte impatto sui ceti produttivi dei paesi occidentali, omologando a ribasso stipendi, welfare e tenore di vita, e cambiando profondamente gli assetti economico-sociali. L’export su scala globale e il know how delle imprese occidentali favorisce la crescita dell’economia cinese e la sua espansione geopolitica in modo esponenziale, oltre il previsto, il che costringe l’attuale presidente americano a rivedere i rapporti commerciali con il Drago e a intraprendere delle misure di restrizioni commerciali, rimpatrio di attività produttive e difesa tecnologica delle reti di comunicazione. Trump viene al potere come emanazione della ragionevole e saggia controtendenza di una globalizzazione forsennata, affrontando in modo virtuoso l’impoverimento della società americana con una crescita economica stabile di 3,5% e disoccupazione ai minimi storici, prima dell’evento della pandemia.

In un tale contesto, rappresentato da un’America in ripresa economica e da una Cina sempre più pompata sia economicamente che militarmente, sorge la Covid-pandemia, un fenomeno senza precedenti per il suo carattere mistificatorio- sia dal punto di vista epidemiologico che da quello puramente biologico, dato che è ancora impossibile stabilire le modalità di diffusione della pandemia, le origini e l’identità del virus che ne è la causa e le ragioni degli innumerevoli errori, commessi per di più in mala fede, nella gestione dei protocolli sanitari- numerosi aspetti di perplessità e disappunto, oltre che in netta contraddizione con tutti i modelli scientifici in vigore fino ad ora; incongruenze che non dovrebbero verificarsi in una comunità scientifica che da anni non fa che annunciare il pericolo di epidemie, il che fa suppore che sia maggiormente pronta a monitorare, intercettare e gestire tali fenomeni. O forse non doveva esserlo. C’è da dire che i ripetuti annunci di esperti del rango di Fauci del pericolo di grandi pandemie in arrivo, finora non si erano avverati, in quanto le epidemie sorte nell’ultimo ventennio sono state di dimensioni contenute, ma anche lo stesso avvertimento di crescente pericolo, volto piuttosto a creare un alibi, non è scientificamente provato. Anzi, esiste uno studio scientifico che prova la tesi opposta: si tratta dello studio della epidemiologa dell’Università di Oxford Sunetra Gupta che sostiene che la globalizzazione e la più intensificata circolazione delle persone rafforza l’immunità collettiva e rende l’esistenza molto più sicura nei confronti di patogeni, rispetto al passato.

Nella ricostruzione critica della pandemia, aumentano i sospetti che la Cina abbia creato volutamente il modello del lock down di Wuhan perché esso possa essere esportato e applicato da tutti gli altri governi, sotto la sapiente guida della Oms. Senza ritornare sui dettagli già largamente discussi, sembra che la Cina abbia creato l’intero pacchetto di misure anti Covid, comprensivo anche dei protocolli sbagliati, nonché della categoria degli asintomatici positivi (replicata in Italia dallo studio pseudo scientifico di A. Crisanti) e l’accanimento del testing di massa con il tampone a Pcr, nonostante uno studio cinese ne dichiari per primo la fallibilità diagnostica. I sospetti si fanno sempre più fondati sapendo che il governo cinese abbia abolito da 4 mesi (dal 1 di giugno) l’obbligo della mascherina all’aperto, da due mesi il presidio è fortemente sconsigliato (certamente consapevoli dei danni che la maschera causa alla salute), ripristinando già in agosto e proprio a Wuhan i grandi assembramenti e movida notturna senza alcuna protezione facciale, mentre in Italia le ordinanze dei dpcm governativi stanno andando nella direzione opposta. Se il lock down cinese ha portato all’emarginazione dell’epidemia, dichiarati dallo stesso governo cinese, perché tali benefici non si sono verificati anche in Italia, che è stata la prima ad applicare il lock down di Wuhan in modo molto più totalizzante, su tutto il territorio del paese, rendendosi a sua volta un esempio da emulare dagli altri paesi del mondo? Quale è il ruolo ‘strategico’ dell’ Italia nelle dinamiche poco trasparenti di questa pandemia, viste le relazioni di amicizia fra il governo attuale e il Pechino?

Il ruolo geopolitico dell’Italia non può essere definito al di fuori della cappa dell’Unione Europea, essendo Italia totalmente priva di ogni autonomia e ruolo strategico: un fatto che stride paradossalmente con la sua invidiabile posizione geografica. E’ risaputo che l’UE non ha una sua soggettività politica e geopolitica, per cui essa è considerata dalle grandi potenze come un territorio passivo da usare a seconda dei loro interessi. Se è vero che il mercato unico europeo sia una creazione delle corporazioni sovranazionali statunitensi, perché in questo modo possano gestire più facilmente i rapporti commerciali con l’Europa, è altrettanto vero che l’America di Trump e la Russia hanno una predilezione a stringere relazioni e alleanze con ogni paese europeo singolarmente, quindi un interesse alla sovranità degli stati, a differenza della Cina che conta su un’Europa formalmente unificata e inerte per sostituirla al mercato americano.

Vista la non casuale presidenza tedesca della Commissione europea, in caso di una vittoria di Trump, la Germania, e anche la Francia, non tarderanno a favorire i rapporti con la Cina anche in chiave geopolitica, oltre che commerciale, dato gli enormi investimenti di entrambi i paesi in Cina, mentre un’eventuale vincita di Biden le costringerà verso una politica anti russa, mettendole contro i loro propri interessi. Ma l’UE non teme la mancanza di coerenza esterna, in quanto le élite tecnocratiche europee sono molto più impegnate a portare al compimento la redistribuzione degli attivi interni, cercando appositamente non l’unificazione, ma la contrapposizione fra i paesi europei- una logica ancora più evidente alla luce della pandemia, dove i paesi centrali, come la Germania, l’Austria e il gruppo di Visegrad, nonché i paesi scandinavi, hanno gestito in modo molto più libero, con competenza ed economicamente ragionevole la pandemia, mentre in Italia, Spagna e Francia sono state applicate misure inspiegabilmente severe, procurando dei danni economici oltre l’ammissibile, portando l’economia ai minimi vitali, ma contribuendo ad arricchire ulteriormente i 5 settori favoriti dalla pandemia (che in questa sede è superfluo elencare).

Italia si configura come il primo paese dopo la Cina colpito gravemente dalla pandemia, quasi come se costituisse un epicentro per conto proprio, e anche uno dei pochi paesi candidati al Recovery fund e al Mes a condizioni a dir poco sfavorevoli. Questa situazione, in cui il paese si trova, è stata resa possibile grazie a un’accurata de-selezione dei quadri politici degli ultimi governi in direzione di incompetenza e mediocrità, in modo da permettere la gestione esterna della pandemia e di altre crisi. Questo paradigma di paese non sovrano, che possiamo chiamare “modello Italia”, contiene tre punti fondamentali richiesti dall’agenda europeista/mondialista: 1) il governo, senza differenza di colore politico, non deve prendere iniziative geopolitiche, cambiando strategie e alleanze, ma oltre tutto non deve entrare in relazioni con la Russia; 2) deve cedere i propri territori per i progetti terzi- progetti economici (privatizzazioni, svendita attivi di stato), infrastrutturali (il 5G di Huawei, cessione porti, adesione BRI) e geopolitici; 3) deve garantire risorse appetibili (turismo) e manodopera a basso costo (l’emigrazione subsahariana come esercito lavorativo di riserva), spingendo allo stesso tempo alla migrazione verso i paesi industrializzati i giovani laureati, causando l’inevitabile deterioramento della qualità sociale. Alla luce di questo modello è più che comprensibile che il governo attuale, con la sua quasi criminale gestione della pandemia, non è un equivoco o un errore nel sistema Italia, ma in perfetta coerenza con gli interessi di clientele esterne.

Italia è stata selezionata per il ruolo della grande perdente europea e geopolitica a causa della mancanza di una coesione sociale, di una coscienza civile, mancanti per prima all’interno del suo ceto politico – una peculiarità sociale che ha le sue radici storico-culturali, ma che è stata ulteriormente peggiorata dalla deindustrializzazione dell’economia italiana- una condizione necessaria per la sua adesione ai trattati europei (stando alle dichiarazioni dello stesso Prodi, vistosi costretto a smantellare la Iri che lui stesso aveva contribuito a creare). L’assetto industriale è la struttura portante, il fattore primario della coesione sociale, ma il processo di indebolimento economico viene portato avanti attraverso i continui colpi inferiti al sistema della medio-e piccola impresa che ne costituiscono la linfa vitale. E’ pacifico che se la politica determini l’economia, è l’economia con la sua solidità a determinare la coesione sociale, mentre l’emissione di moneta sovrana è il sangue che circola e porta ossigeno. Non le episodiche manifestazioni di protesta fanno generare la coesione, ma il benessere economico diffuso, quel capitalismo maturo che rende possibile il superamento della democrazia rappresentativa e porta alla presa di coscienza e al processo deliberativo diretto (secondo la teoria di Habermas, il più grande sociologo di tutti i tempi).

A una società economicamente debole, che comprensibilmente tende a un comportamento gregario o/e individualista, è facile imporre qualsiasi nuova ideologia (come quella della pandemia), credenza o neo lingua, cioè sottoporla a un qualsiasi esperimento sociale, facendole credere di vivere in democrazia, propagandone etichette senza contenuto. Le libertà e i diritti costituzionali rappresentano solo dei concetti vuoti, per quanto belli, quando manca la lotta e la pretesa della loro effettuazione da parte delle istituzioni che tendono all’autoreferenzialità. Nella psicologia di massa si configurano due modelli di obbedienza- quello diretto, di adempimento schematico e acritico dei comandi calati dall’alto, verso quale tende la società cinese, e quello più raffinato e obliquo che consiste nella negazione del proprio assoggettamento, attenendosi alla rassicurante narrazione dei media ufficiali- la neo lingua che cambia le strutture mentali e quindi la stessa percezione della realtà. Dopo una tale formattazione mentale, all’Italia verrà consegnato un governo di esperti, essendo questa la formula prediletta dalle tecnocrazie con cui incassare gli attivi del potere senza dare alcun conto dei passivi, cioè degli errori e i disastri sociali che tali governi tendono a provocare.

Sarebbe un luogo comune, come la scoperta dell’acqua calda, dire che l’UE ricorda il crollo dell’Impero romano, e che Italia è fra le sue periferie più sofferenti e degradate, ragione per cui il recupero della sovranità costituzionale sarebbe l’unico piano di salvezza. In tale prospettiva, per l’Italia è di fondamentale, epocale importanza che il repubblicano Trump vinca le elezioni, collocando il paese in un nuovo piano di recupero di sovranità e di meritata rilevanza strategica nel Mediterraneo, e scagionandolo dal grigio destino riservatogli dall’agenda europeista/mondialista. E’ altrettanto auspicabile una guerra fra gli Usa e la Cina motivata dalla giusta causa della liberazione di Taiwan, che legittimerà la costituzione di una nuova élite cinese, una élite più democratica, così come il rinnovamento delle élite in tutti i paesi i cui governi negli ultimi decenni hanno operato sotto la cupola del Deepstate- la più potente e pervasiva formazione mafiosa mai esistita nella storia. Una guerra fra gli Usa e la Cina è auspicabile anche per far decadere dall’ordine del giorno e dall’ossessiva comunicazione mediatica l’annunciazione costante dei numeri farlocchi di una pandemia costruita, di un esperimento sociale che sarà ricordato come la più grande manipolazione di massa- il capolavoro di dissonanza mentale dell’agenda mondialista, oltre che fonte di enormi profitti economici e di soppressione delle libertà sociali. Una guerra magari mistificatoria e simulata, ma con conseguenze reali, come lo è, tra l’altro, l’attuale emergenza pandemica.

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