DI MASSIMO FINI
Il Gazzettino
Sono patetici coloro che si oppongono all’acquisto di Telecom, la più grande azienda di telecomunicazioni italiana, da parte dell’americana At&t o della messicana America Movil, in nome della «sovranità nazionale e dell’identità nazionale’.
Proprio l’altro ieri Eni-Enel hanno acquistato la Yukos, il colosso petrolifero russo (“colpo di reni del ‘made in italy'” gongolava il Corriere). Aeroflot sta per acquisire Alitalia, o parte di essa, con l’appoggio di Texas Pacific Group e Matlin. Enel ha messo le mani sulla spagnola Endesa.
“E’ il libero mercato” ha commentato laconicamente Berlusconi. Sono gli effetti della globalizzazione. E chi è a favore della globalizzazione non può poi lamentarsi delle sue inevitabili conseguenze. E’ evidente che noi stiamo andando a gran velocità verso un’epoca in cui gli Stati nazionali, in quanto tali, conteranno sempre meno fino a fondersi in un unico Stato mondiale, con un unico Governo mondiale, un’unica Polizia mondiale (ruolo che, al momento, è ricoperto dagli americani e dalla Nato), un unico, immenso, mercato mondiale e un unico tipo d’uomo: il Grande Consumatore.
Questo è il progetto in marcia alla cui guida ci sono gli Stati Uniti ma il cui propellente più vero e potente è il modello di sviluppo occidentale e un meccanismo produzione-consumo che, liberatosi di ogni pastoia, è ormai sfuggito di mano anche ai suoi apprendisti stregoni e a coloro che pretendono e credono di governarlo.
Resta da vedere se questo ‘Unicum’, al di là dei colossali interessi economici che mette in gioco, fa bene all’uomo. La risposta è no. L’utopia illuminista e voltairiana dell’ ‘uomo cittadino del mondo’ che si trova a proprio agio in ogni parte del pianeta, da New York a Ulan Bator, da Milano a Vladivostock, si è rivelata un’illusione. L’uomo ha bisogno di radici, di tradizioni, di punti di riferimento vicini e comprensibili. Altrimenti si smarrisce. Può darsi che ci sia qualcuno che si diverte a giostrare per il globo, ma ciò non vale per la generalità delle persone cui questa perdita d’identità provoca un disagio acutissimo.
Se già abbiamo grandissima difficoltà a controllare i nostri governanti nazionali, che possibilità abbiamo mai di incidere su decisioni che, in un mondo globalizzato, vengono prese in sedi sempre più lontane da noi e praticamente sconosciute?
Ma soprattutto, la globalizzazione passa sul massacro delle popolazioni del Primo e del Terzo Mondo. Nella sua estrema essenza la globalizzazione è infatti una spietata competizione fra Stati (o piuttosto fra quei loro sostituti che sono diventate le multinazionali) che per essere all’altezza dovranno chiedere sacrifici sempre maggiori ai cittadini. Se gli Stati Uniti o la Cina non hanno welfare anche noi, in Europa, dovremo sacrificare il nostro. Se a Taiwan pagano la gente un pugno di riso, prima o poi, anche noi dovremo adeguarci. Integrate nel meccanismo economico mondiale le popolazioni del Terzo Mondo, dopo essere state costrette ad abbandonare le economie di sussistenza, non possono reggere la competizione, di qui gli enormi flussi migratori, che sono destinati ad aumentare in modo esponenziale.
Ha un senso tutto questo? Dico: un senso umano? No. Ma sia la destra che la sinistra, sia i liberali che quel che resta dei marxisti, sono convinti che la globalizzazione sia un processo inarrestabile e irreversibile. “La mondializzazione è un fatto e non una scelta politica” dichiarò Bill Clinton, nel 1998, a un Forum del WTO. E in quello stesso Forum Fidel Castro affermò: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”.
Ma le leggi fisiche sono leggi di natura, contro cui nulla si può fare. Quelle economiche sono costruzioni umane. E possono essere prese a calci, come l’uomo ha fatto per millenni prima di precipitarsi in questo inferno che, animale stupido se ce n’è mai stato uno, si è costruito con le sue stesse mani.
Massimo Fini (www.massimofini.it)
Fonte: http://gazzettino.quinordest.it
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06.04.2007