DI MAURIZIO BLONDET
I lettori dovrebbero ormai avere abbastanza elementi per formarsi un giudizio sull’attentato islamista di Londra.
Ricordiamoli: i quattro giovani attentatori hanno preso a nolo due auto per arrivare dalle loro abitazioni (Leeds, per tre di loro) fino a Luton, estremo sobborgo a nord di Londra.
Qui, hanno preso il treno suburbano Thameslink, che li ha portati nel centro della capitale (a King’s Cross).
Ebbene: hanno acquistato un biglietto di “andata e ritorno”.
E non hanno abbandonato le due auto: le hanno parcheggiate regolarmente nel parking della stazione ferroviaria, pagando civilmente il pedaggio per la giornata ed esponendo dietro il parabrezza il regolamentare ticket.
Insomma, si sono comportati come se si aspettassero non di morire, “ma di tornare a casa” una volta compiuta la loro impresa. Nessuno di loro (e due vivevano coi genitori, in famiglia: strano modus operandi per dei terroristi) ha lasciato nemmeno un biglietto d’addio ai familiari.
Men che meno un video del tipo che i terroristi suicidi islamici sogliono lasciare come testamento spirituale.
Nessuno di loro si era rasato, come usano fare i suicidi islamisti.
Nessuno di loro ha gridato, nel momento fatale, “Allah U-Khbar!”.
Né portavano l’esplosivo sul corpo, ma dentro gli zaini.
E zaini enormi: perché, se dovevano portare ciascuno 5 chili di esplosivo?
Zaini così grossi non possono essere abbandonati in metrò senza suscitare sospetti. Perché non si sono muniti di semplici anonime borse da ginnastica?
E a quanto pare, l’esplosivo era fornito di timer.
A che scopo, se i quattro erano consapevolmente votati alla morte?
In quel caso, avrebbero dovuto innescare loro gli ordigni, uccidendosi: erano loro i detonatori umani.
Non serve alcun timer, per un’operazione suicida.
La chiave decisiva credo che stia nella misteriosa “esercitazione anti-terrorismo” che era in corso in quel giorno, alla stessa ora e nelle stesse stazioni dell’underground di Londra.
Lo disse a caldo, nell’emozione del momento, parlando tutto eccitato alla radio della BBC (la BBC 5) Peter Power, capo di una ditta di “gestione dei rischi” londinese che si chiama “Visor Consultants”.
Era lui che conduceva la “simulazione di un attacco bio-terroristico”, su richiesta di un “cliente” di cui non ha voluto fare il nome.
Peter Power (che è un ex funzionario di Scotland Yard) disse che “un migliaio di persone” partecipavano alla simulazione.
Ora, un’esercitazione è un modo perfetto per coprire l’attentato reale in vari modi. Anzitutto, il sovrapporsi di eventi genera una confusione che è utilissima ai cervelli dell’attentato vero: in USA, l’11 settembre, erano in corso almeno cinque esercitazioni aeree che simulavano vari attacchi dall’esterno, dirottamenti e attentati: ciò rese impossibile alle torri di controllo distinguere immediatamente il vero dal falso; e molti dei caccia che avrebbero dovuto inseguire e abbattere i quattro Boeing dirottati si trovavano a sicura distanza da New York (alcuni in Alaska, a fingere di affrontare un attacco sovietico) e impossibilitati a intervenire.
A Londra, l’esercitazione è servita allo stesso scopo.
Un individuo che, partecipando al vero attentato, suscitasse l’attenzione o il sospetto di un poliziotto, poteva rispondergli: “stiamo facendo un’esercitazione, ed io ne faccio parte”.
Ma soprattutto, è pensabile che i quattro islamici terroristi fossero stati reclutati nel quadro dell’esercitazione.
Ecco perché hanno preso il biglietto di andata e ritorno, convinti di tornare a casa la sera.
Può essere andata così: i quattro possono essere stati avvicinati da qualcuno che ha detto loro: “volete guadagnarvi 100 sterline? Prendete questi zaini e portateli alle fermate del metrò…”.
Convinti di partecipare ad una simulazione, eccoli suicidi veri – ma involontari.
Il timer li ha fatti saltare.
O qualcuno con un radiocomando ha innescato le esplosioni.
Per questo è così cruciale capire che cosa ha fatto nella sua ultima ora di vita il quarto, Husib Husein, di 19 anni nemmeno compiuti: quello che si è fatto saltare sull’autobus n. 30 a Tavistock Square.
Perché il giovanotto era con gli altri tre a King’s Cross.
E Tavistock Square, la piazza in cui è esploso, si trova a 700 metri da King’s Cross. A piedi, la distanza si copre in pochi minuti.
Come mai Husein ci ha messo 81 minuti?
Dov’è stato?
Quasi sicuramente, non è riuscito ad entrare nel metrò; il blocco dell’intera rete, lo sgomento e l’orrore della folla, la voce che qualcosa di tremendo era successo nei tunnel, deve averli appresi così.
Deve essersi spaventato.
Un sopravvissuto del bus n.30 ha notato un ragazzo “molto agitato”, che frugava dentro quel suo zaino; si alzava, poi si risiedeva a tornava a frugare.
Stava cercando di capire che cosa gli avevano messo dentro quel sacco?
Stava cercando di disinnescare l’ordigno?
O invece di innescarlo, per morire da eroico martire di Allah, come i suoi amici già arrivati nel paradiso delle Urì?
Scotland Yard ha lanciato un appello al pubblico: chi ha visto Husein in quegli 81 minuti fra le tre esplosioni e la quarta (la sua), si faccia avanti, parli, racconti.
E infatti è importantissimo ricostruire ognuno di quegli 81 minuti.
Anche perché la polizia inglese non è l’FBI (che sull’11 settembre non ha quasi indagato, anzi ha tacitato o intimidito testimoni), e la magistratura inglese non è quella americana (che non ha aperto un’indagine indipendente sull’11 settembre, anzi resiste a discutere le innumerevoli cause intentate dai familiari delle vittime, che vogliono la verità).
I magistrati inglesi non si contentano di indizi, di “fumus”; vogliono prove indiscusse. Alla loro orgogliosa indipendenza è affidata la speranza migliore.
Da notare: Peter Power, dopo la sua rivelazione alla BBC 5 sull’esercitazione in corso, subissato da telefonate, risponde a tutti con una e-mail circolare, in cui nega che l’esercitazione somigliasse all’attentato reale (come aveva invece detto a caldo), e che sia parte di un complotto.
E continua a non comunicare il nome del “cliente”.
Il cliente, se non è il governo britannico o una sua emanazione, chi sarà? Probabilmente una compagnia di sicurezza privata: dopo l’11 settembre ne sono nate come funghi, e fanno buoni affari come consulenti di grandi imprese che vogliono aumentare la loro sicurezza contro attacchi terroristici.
Queste agenzie private sono spesso formate da ex poliziotti o agenti di altri servizi.
E molte, a Londra, sono israeliane, create da ex agenti del Mossad (ammesso che esistano “ex” agenti) e si avvantaggiano dell’insuperabile know how di sorveglianza, repressione e sicurezza messo a punto in Israele contro i palestinesi.
Alcune, l’ha scritto qualche giornale, sono filiali di una ditta, l’ICTS, registrata in Olanda ma di cui è capo un israeliano, Ezra Harel.
Il quale vanta che quasi tutto il suo personale è “formato da agenti dello Shin Beth” (1).
E’ la ICTS che aveva il controllo di sicurezza dei passeggeri al Boston Logan airport da cui, l’11 settembre, sono partiti gli aerei dirottati; e che aveva (e forse ha ancora) la sorveglianza dell’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi il giorno in cui salì su un aereo diretto in USA l’estremista islamico (un giamaicano convertito) Richard Reid, che cercò di far scoppiare – con un fiammifero! – l’esplosivo che aveva nascosto in una scarpa (2).
Strano: sembra che proprio là dove l’ICTS “sorveglia”, gli attentati avvengano con particolare frequenza.
I terroristi più pasticcioni e dilettanti, come Reid, passano tranquilli sotto il naso degli espertissimi ex agenti dello Shin Beth.
Mai una volta che l’ICTS blocchi gli attentati che è pagata per sventare.
Ma la fama della ditta non sembra patirne, visto che riceve sempre nuove consulenze e lavori di “sicurezza”.
D’altra parte, il Mossad è stato subito citato in connessione con l’attentato di Londra; e nonostante le smentite, il nome continua a rimbalzare qua e là.
Il ministro israeliano Netanyahu era a Londra quel giorno, e fu avvertito – da Scotland Yard, si è scritto – di non uscire dall’albergo.
Poco prima degli attentati, hanno detto i giornali inglesi.
Poi la rettifica: poco “dopo” gli attentati.
Alla fine, un agente del Mossad ha raccontato a un giornale tedesco (Welt am Sonntag, il domenicale di Die Welt) che sì, il Mossad aveva ricevuto informazioni sull’imminente quadruplice attentato, ma solo “sei minuti prima” dello scoppio degli zaini nell’underground; “troppo tardi per fare qualsiasi cosa”.
Perché troppo tardi?
Sei minuti non sono pochi: bastano per esempio a fermare i treni, o a farli esplodere nelle stazioni – da cui i superstiti possono facilmente fuggire – anziché nel mezzo di profonde gallerie, quasi irraggiungibili dai soccorritori.
Poteva almeno tentare, l’insuperabile Mossad.
In ogni caso, forse i magistrati britannici dovrebbero ascoltare come testimoni quei bravi agenti israeliani che hanno saputo “solo sei minuti prima”.
Da chi?
Come?
Non avverrà: quella direzione d’indagine è un senso vietato, anche nella libera Inghilterra.
Nessun poliziotto ha voglia di rovinarsi la carriera e di farsi bollare come antisemita, come negatore dell’olocausto.
Invece, si sono buttati a capofitto nel senso unico consentito: il chimico egiziano Al-Nashar.
Un candidato ideale ad essere dipinto come “la mente del complotto”.
Seguiva a Leeds un corso (dottorato di ricerca) in biochimica.
In casa sua a Leeds (o meglio: in una casa che aveva in subaffitto) hanno trovato chili di perossido di acetone, che stava evaporando nella vasca da bagno.
Inoltre, Al –Nashar è uscito dall’Inghilterra un paio di settimane prima.
E’ andato al Cairo.
A casa dei genitori, dove è stato prontamente arrestato.
Ora, possiamo credere che un terrorista con conoscenze così preziose per Al-Qaeda, il loro artificiere, non venga protetto dall’organizzazione?
Che vada ad abitare a casa dei genitori, pronto a lasciarsi beccare?
In genere, i terroristi non vivono con mamma e papà.
E dopo aver messo a segno un attentato, stanno ben alla larga dalle case di familiari, fratelli, amici in cui la polizia può bussare alla porta.
Per di più, la famiglia di Al-Nashar è poverissima.
Il giovane (33 anni) s’è mantenuto agli studi superiori a forza di borse di studio.
E usava gran parte della sua ultima borsa di studio, ottenuta dagli inglesi, in parte per mantenere i genitori.
Sono 33 mila sterline, e sono tante: ma certo non tante, per pagarsi vitto e alloggio durante cinque anni di corso.
Al punto che Al-Nashar ha ripudiato la giovane moglie egiziana, per dedicare tutte le sue magre risorse economiche a mantenere padre e madre.
Un buon figlio, alla musulmana: tra la moglie e i genitori, sceglie i genitori.
Difatti, pare, siano stati i capi del suo programma di ricerca a Leeds, gli inglesi, a consigliarlo: rientra al Cairo per cercare “qualche forma di finanziamento, e poi torna alla base”.
Lui infatti era stato “presentato” all’Università di Leeds da un ente statale di ricerca egiziano: era il loro fiore all’occhiello, un genio, uno studioso di cui il regime egiziano era orgoglioso.
Ecco perché – ed è un fatto senza precedenti – a difesa di Al-Nashar si è speso il ministro degli Interni egiziano.
Con un comunicato ufficiale, ha dichiarato che “Al-Nashar non ha alcuna connessione con Al-Qaeda”.
Al-Nashar non si nascondeva: l’hanno fermato mentre usciva dalla moschea del quartiere dove abitano i genitori.
Aveva lasciato il grosso dei suoi effetti personali a Leeds, perché contava di tornarci. Se voleva, con le sue qualifiche, poteva fabbricare esplosivo molto più sofisticato del perossido di acetone.
Ma soprattutto, per i servizi egiziani, il suo profilo non è quello di un terrorista: e i servizi egiziani se ne intendono.
Hanno subìto i più duri attentati (l’assassinio di Sadat, l’uccisione di turisti svizzeri a Luxor): hanno finito per prendere tutti, hanno mappe precise dei gruppi pericolosi. Non c’è nemico peggiore del “terrorismo islamico” per il regime di Mubarak, nessuno ha più interesse a liquidare le reti del terrore.
Ma per Mubarak (il suo ministro degli Interni è ovviamente un suo fido) Al-Nashar non c’entra.
E chiudiamo con la Fallaci.
Molti lettori mi hanno inviato “il bellissimo articolo” della Oriana, come a dirmi: tie’, senti questa.
Molti cattolici.
L’articolo di Oriana Fallaci rivela soprattutto la paranoia di Oriana Fallaci: una paranoia che condivide con gli americani dopo l’11 settembre, condita però della volgarità e cialtroneria italiota: che è l’ingrediente primo del suo successo.
La Fallaci accusa i magistrati italiani: qui ha ragione.
La magistratura da noi non è la soluzione, è il problema.
La cosca giurisdizionale, da noi, è una malattia morale.
Ogni cittadino onesto sa che il magistrato è sempre, per principio, contro di lui, e dalla parte del pregiudicato.
Per ragioni professionali: il pregiudicato ha pratica di aule giudiziarie, conosce il codice, sa come rivolgersi al giudice e come difendersi – specialmente dagli onesti che lo accusano.
Per esempio: accusate un pregiudicato di avervi rubato il portafoglio?
E lui, pronto (ha già l’avvocato di fiducia) vi denuncia per calunnia.
Ora, di fronte al giudice italiano, siete voi contro lui, il pregiudicato.
E per il giudice, siete alla pari: voi incensurato, lui il pregiudicato con pesanti precedenti penali.
Qui la Fallaci ha ragione.
Non vorrei che avesse ragione troppo.
Quando fa la Cassandra, la profetessa: “Troia brucia!”.
Nel “bellissimo” articolo sul Corriere, profetizza che in Italia i musulmani spregevoli e rozzi faranno attentati contro le nostre bellezze artistiche, simbolo della nostra cristianità: faranno saltare la Torre di Pisa, Santa Maria del Fiore…
Se accade, bisogna che in Italia si trovi un magistrato.
Il quale convochi la Fallaci a testimoniare: da dove ha avuto questa premonizione? Mostri la palla di vetro in cui ficca gli occhi per vedere il futuro.
Sono quasi sicuro che queste profezie le sono state suggerite, in USA dove abita, da qualcuno.
Da chi?
Naturalmente non si troverà nessun magistrato così coraggioso.
Meglio pestare su Previti e Berlusconi, è più facile, c’è la copertura politica delle sinistre.
Non sia mai che nella sfera di cristallo della Oriana si legga “Mossad”.
Chi vuole rovinarsi la carriera?
Solo chi non è più in carriera ha avuto il coraggio di dire qualcosa: come quel Galloni che ha rivelato, il 3 luglio, che le Brigate Rosse che rapirono Moro e lo uccisero erano infiltrate dai servizi USA e israeliani.
Splendido coraggio: 30 anni dopo (3).
Così, anche noi siamo indotti a credere alla sfera di cristallo della Oriana.
I “terroristi islamici”, se colpiranno l’Italia, non faranno stragi: il che porterebbe la popolazione a chiedere il ritiro immediato dall’Iraq.
Colpiranno qualche monumento storico e artistico, per infiammarci contro di loro, i rozzi incivili islamisti, e chiede misure draconiane contro il panettiere egiziano, il pescatore algerino, il pizzaiolo eritreo, il mullah di periferia.
La Torre di Pisa, Santa Maria del Fiore, scherziamo?
Beh, quando succederà, ricordate che la distruzione e il vilipendio dei tesori d’arte italiana non sono cosa nuova.
Sono già avvenuti, nella storia recente.
Gli anglo-americani, durante la seconda guerra mondiale, hanno deliberatamente distrutto Montecassino; solo a Milano hanno ridotto a macerie Sant’Ambrogio, Santa Maria Segreta, il Duomo.
I danni li abbiamo già avuti: dai paladini della “civiltà occidentale” secondo Oriana. Ciò non ci ha impedito di amarli, questi barbari malvagi, di abbracciare le loro ginocchia; e di leccargli il didietro.
E di imitare come scimmie, come servi, il loro “modo di vita”, l’american way of life.
Maurizio Blondet
Fonte:www.effedieffe.com
18.07.05
Note
1) Lo Shin Beth è il servizio di sicurezza interna di Israele, come il Mossad è lo spionaggio estero. Sulla ICTS, cfr. il mio “11 settembre, colpo di Stato in Usa”, Effedieffe, 2002, p.66.
2) L’esplosivo nella scarpa di Reid era perossido di acetone, lo stesso usato – pare – dai terroristi di Londra; in ogni caso è lo stesso esplosivo trovato in grandi quantità in una villetta di Leeds che risulta affittata dal super-chimico egiziano Magdi Al-Nashar. Si tratta di un composto fatto in casa, con acetone e acqua ossigenata; il composto, fatto evaporare, produce dei sali che esplodono facilmente. Anche troppo: il perossido di acetone è sensibilissimo alle scosse, al calore e alla frizione. Un chimico con dottorato di ricerca come Al-Nashar era sicuramente in grado di procurarsi il materiale per esplosivi più sofisticati, potenti e stabili.
3) La cosa è ampiamente nota agli addetti ai lavori. Il corpo di Moro fu fatto trovare a fianco di Palazzo Caetani, dove sono ancor oggi uffici e saloni di rappresentanza affittati dall’ambasciata USA a Roma. E la polizia scientifica stabilì che la R4 rossa in cui era il cadavere di Moro, non poteva aver fatto che pochi metri. Probabilmente l’ultimo carcere di Moro era stato Palazzo Caetani, nel centro di Roma. E padrone del palazzo era il marito della principessa Caetani, il direttore d’orchestra Igor Markewitz, russo, bisessuale, agente triplo (USA, Mossad, URSS) durante la seconda guerra mondiale; e nella sua ultima fase quasi certamente “controllore” delle BR per conto dei tre servizi. Cfr. Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, “Il misterioso intermediario”, Einaudi, 2003.