Da imprenditore vi dico: il salario minimo non basta, ci vogliono stipendi più alti

Retribuzioni in rosso: ecco perchè non crescono.

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Depositata alla Camera lo scorso 4 luglio – la proposta di salario minimo a 9 euro prodotta dalle opposizioni parlamentari (ma non da Italia Viva di Matteo Renzi).

Contrari governo e Pmi. Mentre Confindustria e sinistra ultraliberista global radical chic sono favorevoli.

Dove sta il trucco?

La parola a Tiziano Tanari, da quaranta anni piccolo imprenditore.

Di Tiziano Tanari

Il salario è uno dei temi più trattati nella storia. E’ dai tempi dell’Impero Romano, quando i militari venivano pagati, in parte, con razioni di sale, allora ingrediente ritenuto molto prezioso, che nacque il termine salario. Nei secoli è sempre stato oggetto di trattative, conflitti di classe senza che mai fosse compreso appieno il suo ruolo fondamentale nell’economia di un Paese.

E’ stata depositata lo scorso 4 luglio alla Camera, da parte delle opposizioni (ma non da Italia Viva di Matteo Renzi), la proposta di legge che definisce un salario minimo di 9 euro lordi all’ora; considerando le ore mensili mediamente lavorate, corrispondono a poco più di 800 euro mensili netti (1*).

Sono contrari il Governo e le PMI, mentre Confindustria e la sinistra  ultraliberista radical chic sono sorprendentemente favorevoli; divisi i sindacati.

Ma cosa si nasconde dietro questa proposta?

Prima di approfondire il tema, è necessario comprendere il ruolo del lavoro all’interno dell’economia e della nostra vita. Come premessa iniziale, si impone la necessità di chiarire il concetto di ricchezza che si compone di due entità: la ricchezza reale e la ricchezza finanziaria.

La “ricchezza finanziaria” è rappresentata dalla moneta che nasce come strumento di scambio di beni e servizi, come riserva di valore e purtroppo, anche come strumento speculativo; in sostanza è un’unità di conto che misura il nostro lavoro in base al valore dei beni e servizi che produciamo. Per “ricchezza reale” intendiamo tutto ciò che viene prodotto e che utilizziamo per le nostre esigenze di vita.

Appare subito evidente la differenza fra i due tipi di ricchezza, dove quella finanziaria è puramente fittizia e convenzionale, completamente subordinata alla ricchezza reale: se non ci sono beni da acquistare, il valore della moneta è nullo.

Quindi dobbiamo fissare come dogma primario il concetto che, senza il lavoro umano, nulla verrebbe prodotto e che per questo il lavoro rappresenta il motore del benessere e del grado di civiltà di una nazione.

Riconosciuto il ruolo vitale del lavoro per la nostra sussistenza (e potremmo dire esistenza), viene logico pensare che un’attività così fondamentale per la nostra vita sia onorata, rispettata, sostenuta, valorizzata e incentivata. Infatti, nella nostra amatissima Costituzione, abbiamo alcuni articoli che fissano l’importanza del lavoro come strumento indispensabile per il sostegno e il benessere dell’intera comunità (Art. 4)(2*). Del resto siamo una “Repubblica fondata sul lavoro” (Art.1)(3*) dove lo Stato si assume un compito fondamentale (Art. 3)(4*), quello di “…rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che.. impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Preso atto del valore primario intrinseco del lavoro, certificato anche dalla nostra Costituzione, andiamo ad analizzare se oggi, in Italia, possiamo ritenere se sia o meno valorizzato nel modo giusto.

Torniamo al salario minimo che ci permette subito di capire come, in questa proposta, sia disattesa completamente la tutela e l’incentivo del lavoro: con uno stipendio di circa 800 €uro al mese, non si può vivere (e in molti casi, neanche sopravvivere). L’Art. 36 (5*) della Costituzione Italiana dichiara che: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa….”. E qui dobbiamo necessariamente prendere atto che questa norma non viene decisamente rispettata.

Naturalmente, nel mondo dell’impresa si usano quantificare i costi di produzione di un bene e si ricaricano di un utile che possa permettere all’azienda di vendere il prodotto, di mantenere la propria attività nel tempo e di ricavare il giusto guadagno; il salario non deve dipendere dalla ricerca di una massimizzazione dei profitti esasperata ma deve essere parte di un piano che permetta di sostenere l’intero impianto dell’economia reale, perciò regolamentato dallo Stato con contratti nazionali. Una soddisfacente domanda aggregata, adeguata all’offerta che le imprese possono garantire, la si può ottenere solo se i salari la possono alimentare con un buon potere di acquisto. Ce lo ricorda John Ford, da più di novant’anni, con la sua famosa frase: ”Dobbiamo costruire macchine che i nostri dipendenti possano comprare”. I consumi interni “pesano” sull’intera economia per oltre un 70% del Pil, e questo ci fa capire l’importanza del potere d’acquisto dei salari nel più generale contesto macroeconomico.

A questo punto si impone un’analisi a più ampio raggio per definire la reale consistenza dei salari italiani, prospettive e limiti a cui sono sottoposti. In un contesto globale, dobbiamo tenere conto delle leggi di mercato improntate su una filosofia liberista basata su una concorrenza estrema che porta il mercato stesso a scavalcare le varie leggi volte alla tutela del lavoro e al sostegno delle piccole e medie imprese a livello nazionale. E’ compito primario di uno stato attuare un’accurata politica monetaria e fiscale che le permetta di governare, sostenere e regolare l’economia del Paese.

Ciò può avvenire in molti Paesi ma non in quelli dell’Eurozona, e in particolare dell’Italia, poiché non avendo una moneta nazionale, viene impedita loro qualsiasi decisione autonoma di politica monetaria e fiscale (con alcune eccezioni per la Germania e Paesi satelliti). Questa situazione di mancanza totale di autonomia diventa cronica anche per la nostra sudditanza al cosiddetto “vincolo esterno”, ovvero l’insieme di regole recessive e inappellabili imposte da Bruxelles, con particolare cura nei confronti dell’Italia per il suo alto debito pubblico. Esiste un pensiero distorto e falso sul concetto di debito pubblico: molti economisti considerano erroneamente che, oltre un certo limite indicato dal rapporto Debito/Pil, il debito diventi insostenibile. Questo rischio diventa inesistente se si ha una Banca Centrale che fa da garante, ma la BCE non svolge normalmente questo ruolo, cioè quello di “prestatrice di ultima istanza”. Questa mancanza di garanzia ci rende particolarmente suscettibili all’imposizione di regole di austerità le quali hanno, come ineluttabile conseguenza, un impoverimento costante dell’economia reale. In questi processi recessivi, si creano squilibri con gli altri Paesi dell’Eurozona e per compensarli, per tornare ad essere competitivi, la prima regola imposta è la deflazione salariale. Un Paese dotato di una propria valuta, per riacquistare competitività nel mercato internazionale, può tranquillamente svalutare la sua moneta e ritornare ad essere competitivo nell’ambito degli scambi commerciali. Quando però non si ha una propria valuta nazionale, l’unica svalutazione che le è concessa è quella salariale, ovvero ridurre i salari. E’ interessante sapere che l’Italia è l’unico Paese dell’Unione Europea che negli ultimi 30 anni ha visto diminuire i suoi salari del 3% quando gli altri Paesi hanno avuto aumenti di decine in percentuale.

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Questo ci fa comprendere due concetti di primaria importanza:

  • Il primo è che se un Paese non è dotato di sovranità monetaria, non ha nessun potere decisionale sulla propria politica economica e non solo;
  • Il secondo è che, stando all’interno di questa demenziale Eurozona, non potremo che vedere, crisi dopo crisi, un continuo, costante, inarrestabile calo dei salari con conseguente depauperamento del loro potere d’acquisto.

Andando avanti in questo processo recessivo, potremmo addirittura trovarci, un giorno, con un salario medio inferiore al salario minimo attualmente in discussione.

E’ importante sottolineare che il problema è globale; la natura di un mercato mondiale iper liberista che considera il lavoro un costo e non una risorsa, impone un cambio di paradigma che possa contrastare le posizioni di personaggi come il capo economista della Banca d’Inghilterra che, di recente, ha invitato le classi lavoratrici, dipendenti e imprenditori, a non pretendere aumenti dei salari o dei profitti per compensare l’aumento dei prodotti energetici perché avrebbero aumentato ulteriormente l’inflazione già in atto; affermazione incredibilmente sbagliata che dimostra come molti personaggi che hanno poteri decisionali non capiscano nulla di macroeconomia o siano pietosamente asserviti a interessi di parte.(6*)

Anche a casa nostra abbiamo i cultori del contenimento dei salari, fra questi spicca l’economista ex Ministra del lavoro Elsa Fornero che di recente ha definito i 9 euro lordi come salario minimo “un po’ tanti, meglio 8 o 7 euro”, ovvero 6/700 euro netti al mese (7*). Non sorprende che con queste idee e complice del “distruttore della domanda interna” Mario Monti, abbia contribuito a causare all’Italia la peggiore recessione degli ultimi trent’anni.

Io, come piccolo imprenditore presente sul mercato da oltre quarant’anni, posso certificare il dissesto economico operato dal governo Monti e i successi prodotti nel periodo d’oro della “Liretta” che arriva fino ai primi anni 2000 dove salari alti convivevano con ottimi profitti delle imprese. Nonostante periodi di alta inflazione a due cifre (anni ’70) causata dall’aumento dei costi dei prodotti petroliferi e dei prodotti energetici in genere, grazie alla scala mobile, si è potuto salvaguardare il potere di acquisto dei salari riallineandoli ai nuovi prezzi di mercato: ha  funzionato. Con l’entrata nell’€uro, si è invertita la politica del lavoro, si è eliminata la scala mobile, l’Art.18, si è aumentata la precarizzazione del lavoro e, oggi, gli economisti asserviti a questo moribondo europeismo neoliberista ci impongono la deflazione salariale e la rinuncia a qualsiasi forma di rivalsa sulla tutela del salario; i risultati sono sotto i nostri occhi. Si impone un improcrastinabile cambiamento di rotta, bisogna liberarsi dai soffocanti vincoli europei e tornare ai tempi gloriosi della nostra amata “Liretta”, simbolo di libertà e di benessere diffuso per tutto il nostro Paese.

Di Tiziano Tanari

09.07.2023

NOTE

1* – Il testo integrale della proposta di legge:  p1_la-proposta-di-legge-disposizioni-per-l-istituzione-del-salario-minimo-a-9-euro

2* https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/principi-fondamentali/articolo-4

3* https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/principi-fondamentali/articolo-1

4* https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/principi-fondamentali/articolo-3

5* https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/parte-i/titolo-iii/articolo-36

6* https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2023/04/26/accettate-di-essere-piu-poveri-e-bufera-su-banca-centrale-gb_541d7a62-9280-4794-a118-fe65be68c6cb.html  

7* https://youtu.be/g3C62kXhN8E

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