DI FRANCO CARDINI
Va subito detto — e, badate, è un parere strettamente personale — che sono rimasto sorpreso e scandalizzato per la notizia, spero falsa, secondo la quale il governo israeliano non concederebbe ad Yasser Arafat il diritto di essere sepolto a Gerusalemme, come desiderava e come era suo diritto, e avrebbe addirittura confiscato quella porzione di terra che a tal fine il Raïs aveva da tempo acquistato. La cosa, se fosse vera, aprirebbe fra l’altro un capitolo almeno in teoria molto delicato anche sotto il profilo del diritto internazionale: va di fatti ricordato che, nei confronti dell’Onu, Gerusalemme non è ancora legalmente considerata territorio dello stato di Israele. Al di là di questo, ritengo che la decisione del governo israeliano, se le notizie che abbiamo rispondono a realtà, sia moralmente riprorevole e politicamente miope. Mi rendo perfettamente conto che la morale ebraica, come del resto quella musulmana, non è simile in ciò a quella cristiana. Nel nostro mondo cristiano, e anche in quello del pensiero laico che ne è largamente dipendente sotto il profilo morale, la logica del perdono è primaria e prevalente. ‘Parce sepulto’, come si usa dire.
Ma nel mondo ebraico, come in quello musulmano, il senso della giustizia prevale su quello della misericordia: non vado oltre, perché il discorso sarebbe teologicamente complesso. Ma, al di là del problema religioso e morale, resta quello politico. E’ vero: un sepolcro di Arafat in piena Gerusalemme ormai in mano ebraica e unilateralmente proclamata capitale di Israele (e mi auguro personalmente che essa possa diventarlo a pieno titolo, anche sul piano del diritto internazionale) sarebbe stata forse una sorta di pietra dello scandalo. D’altra parte va detto che un gesto di generosità da parte dei dirigenti israeliani avrebbe costituito un passo nella direzione che tutti quanti ci auguriamo: quella, difficile, del riavvio di un dialogo tra israeliani e palestinesi e, alla fine, della pace e di una spartizione del territorio conteso quanto più equa sia ormai possibile.
Pesanti sono le responsabilità che gravano sulla immagine storica di Yasser Arafat.
Egli, almeno prima della storica rinunzia formale allo strumento terroristico avvenuta solo nel 1988, è stato senza dubbio fautore e organizzatore di atti terroristici. Ricordiamoci che anche in ciò egli non è stato l’unico: il terrorismo è uno strumento politico e militare nato nell’Europa del ’700 e in seguito largamente usato, al servizio delle cause più varie. Il terrorismo può essere condannabile in se, ma non è detto che la causa che esso crede o si illude di servire sia perciò stesso una causa sbagliata. Ci sono stati terroristi cattolici irlandesi, ci sono ancora i terroristi cattolici baschi, il terrorismo è stato utilizzato anche da molti ebrei nella laboriosa fase della costruzione dello stato di Israele, cioè nel trentennio fra 1918 e 1948. Vi sono grandi presidenti israeliani, come Beghin, che hanno un passato di terroristi. Anche Yasser Arafat ne ha avuto uno. Gli israeliani, l’attuale governo e i servizi di intelligence di quel paese, sostengono che Arafat ha continuato a guidare o a espirare occultamente i terroristi anche dopo la sua formale rinunzia al terrorismo come strumento di lotta politico-militare. Non credo che di tutto ciò vi siano prove certe e definitive: certo è comunque che Arafat si è reso responsabile, anche in tempi recenti, di molte scelte ambigue, che ne hanno profondamente minato il prestigio e la credibilità.
Ciò non toglie che fosse un capo caricato di uno straordinario valore carismatico. Forse l’Arafat uomo, l’Arafat politico, non ha meritato appieno il prestigio e la popolarità che comunque ha continuato ad avere fino agli ultimi momenti della sua vita. Gli si è rimproverato di aver respinto la mano che gli era stata tesa da Israele al tempo della presidenza Barraq: ma in fondo, anche in quegli accordi che Arafat si è assunto la responsabilità di respingere, bisogna dire che non tutto era chiaro. La continuità territoriale dell’area destinata, secondo appunto fra gli accordi, al futuro stato palestinese, mancava ad esempio di una continuità territoriale: ciò è provato non solo dalle mappe che in seguito sono state esibite e che hanno esplicitato i limiti dell’accordo, che non erano affatto chiari al tempo in cui esso fu proposto al Raïs. Ma uno degli esponenti liberal più aperti e simpatici di Israele, il laburista Schlomò Ben Ami, interrogato specificamente, ha dovuto ammettere che la continuità territoriale non c’era e che non era nelle intenzioni dello stato di Israele concederla ai palestinesi. Un elemento che, da solo costituite, se non proprio una giustificazione, perlomeno un forte attenuante nei confronti della decisione di Arafat di non accettare quell’accordo.
Parlavamo di una insufficienza di Arafat come uomo, come politico, forse perfino come personalità morale: senza dubbio, le ambiguità e le incertezze dell’anziano leader, specie negli ultimi tempi, sono state e frequenti. I suoi stessi collaboratori gliele hanno rinfacciate: probabilmente, Arafat se ne è andato, portato via dal suo male, pochi mesi prima di essere costretto ad andarsene da una caduta definitiva del suo prestigio politico. Difficilmente ci si immagina un Raïs che personalmente e spontaneamente si convince che è l’ora di voltar pagina e si sia da parte. Questo, in un certo senso, la sua malattia e la sua morte sono arrivate in un momento politicamente opportuno.
Ma opportuno in che senso? I leaders che oggi aspirano alla successione non sono, né presi uno per uno né nel loro complesso all’altezza di accogliere totalmente l’eredità pesante lasciata loro dal leader defunto. Né Abu Mazen, né Abu Ala, né gli altri capi delle fazioni più o meno «moderate» o più o meno «oltranziste» mostrano di avere programmi chiari di governo, idee precise circa il loro atteggiamento nei confronti di Israele, né infine di detenere una sufficiente carica di càrisma come viceversa Arafat, almeno fino a tempi recentissimi, mostrava di avere.
La Palestina non è riuscita a darsi una identità. Uno stato palestinese autonomo rispetto a Israele appare sempre più difficile. Il problema è, a questo punto, che gli israeliani stessi non possono fare a meno, comunque, di quello stato. E’ impensabile che essi potrebbero mai accettare di conferire comunque al popolo palestinese una cittadinanza israeliana allargata e generalizzata, come qualcuno spera possa accadere in futurto. E allora, quali prospettive potrebbero nascere? Un nuovo esodo di massa palestinese, con un inevitabile corredo di nuovo impulso a un terrorismo forse ancora più feroce di quello che conosciamo? Oppure il perpetuarsi di una Palestina-Lager, circondata da un muro che oltretutto appare in più punti illegalmente eretto al di là della cosiddetta «linea verde»? Si tratta di prospettive entrambe impraticabili. Se ci si muoverà in quel senso, la soluzione del problema apparirà ancora più lontana.
Franco Cardini
Fonte:www.quotidiano.net.
13.11.04