AMY GOODMAN (Democracy Now!) intervista ALI FADHIL (Reporter iracheno indipendente, autore del documentario “Falluja – The Real Story”)
“Hanno usato esplosivi ed hanno sparato in casa mia”
Ci occuperemo della storia del giornalista e dottore Ali Fadhil, che è stato detenuto in Iraq dalle forze statunitensi. L’8 gennaio, a Baghdad, i soldati hanno usato degli esplosivi nella casa di Ali, giornalista che lavora per il London Daily, il Guardian e Channel 4. Fadhil ci ha raggiunto nei nostri Firehouse Studios per descriverci la sua straziante esperienza.
Trascrizione:
AMY GOODMAN: Non c’è ancora nessuna notizia su Jill Carrol, la giornalista statunitense rapita. Lunedì, suo padre Jim è apparso sulla CNN esortando i rapitori a rilasciarla viva. L’ultima volta è stata vista a Baghdad il 7 Gennaio. Nel frattempo, la Commissione per la Protezione dei Giornalisti ha pregato le truppe Usa di liberare due reporter, uno trattenuto senza accusa in Iraq e l’altro detenuto a Guantanamo. La Commissione ha anche chiesto spiegazioni alle forze Usa riguardo ad un cameraman dell’agenzia di stampa Reuters detenuto senza accuse per otto mesi fino al suo rilascio avvenuto domenica.Oggi vi parleremo della storia di un altro giornalista che è stato anch’egli trattenuto dalle truppe Usa in Iraq: Ali Fadhil. L’8 gennaio dei soldati americani a Baghdad hanno fatto esplodere la casa di Ali Fadhil, giornalista iracheno che lavora per il London Daily, il Guardian ed Channel 4 in Gran Bretagna. Secondo quanto riferito, i soldati sono entrati in casa sua ed hanno sparato proiettili nella stanza da letto dove lui, sua moglie ed i suoi bambini stavano dormendo. Fadhil è stato incappucciato ed interrogato per parecchie ore. Egli afferma che le forze Usa gli hanno dato 1500 dollari per il risarcimento dei danni alla sua casa e lo hanno abbandonato da solo in una pericolosa zona di Baghdad.
A novembre Fadhil ha vinto il premio della Foreign Press Association per il miglior giovane giornalista dell’anno. Attualmente sta lavorando ad un documentario sullo spreco dei fondi per la ricostruzione dell’Iraq da parte dei governi inglese e statunitense.
Fadhil afferma che i soldati non gli hanno restituito numerose videocassette che gli avevano sequestrato. Il regista del documentario, Callum Macrae, dichiara “Il tempismo e la natura di questa irruzione è estremamente fastidioso. Infatti è avvenuto solo pochi giorni dopo da quando ci siamo rivolti alle autorità statunitensi per informarli dell’indagine che Ali stava conducendo e per chieder loro di concederci un intervista riguardo alle nostre scoperte”.
Leggi il resoconto di Ali Fadhil sull’assalto delle forze Usa alla sua casa.
INTERVISTA
AMY GOODMAN: Ali Fadhil ci ha raggiunto nei nostri Firehouse Studios per la prima volta da quando è arrivato ieri negli Stati Uniti. Oltre ad essere un premiato giornalista, Ali è un medico generico. E’ giunto negli Stati Uniti da Baghdad questa settimana. Benvenuto a Democracy Now! E’ fantastico averti qui con noi.
ALI FADHIL: Grazie.
AMY GOODMAN: Ok, prima di tutto descrivici cosa ti è accaduto l’8 di gennaio. Era proprio il giorno in cui la giornalista americana Jill Carrol fu rapita.
ALI FADHIL: Si esattamente. Penso proprio si tratti di un [inudibile] sequestro di persona. Le truppe statunitensi sono arrivate intorno alla mezzanotte e mezza ed hanno fatto irruzione in casa mia. Hanno usato esplosivi sulle tre porte di casa.
AMY GOODAMN: Che ora era?
ALI FADHIL: Le 24 e 30, comunque dopo mezzanotte.
AMY GOODAMAN: Stavate dormendo?
ALI FADHIL: Si, stavamo dormendo, tutti noi, perché in Iraq non c’è l’elettricità e così andiamo a letto presto. Stavamo dormendo io, mia moglie e i bambini in un unico letto nella nostra stanza ed anche al piano di sotto stavano tutti dormendo. Appena abbiamo sentito l’esplosione le finestre sono venute giù. Abbiamo pensato che un colpo di mortaio od un qualche razzo avesse colpito la nostra casa. Dopo un po’ mia moglie mi ha pregato di andare a vedere di sotto ma io gli ho detto “Aspettiamo un attimo”. Pochi secondi dopo vedemmo un fucile affacciarsi alla porta e sparare un paio di proiettili dentro la stanza. Non sapevamo dove ma quello stava proprio sparando, così riparai mia moglie e i miei bambini, mia figlia Sarah e Adam.
AMY GOODMAN: Quanti anni hanno?
ALI FADHIL: Beh, Sarah ha 3 anni e Adam 7 mesi. E, come puoi immaginare, piangevano ed urlavano ed anche mia moglie piangeva e, pochi secondi dopo, abbiamo visto soldati statunitensi circondare il letto. Uno di loro mi ha tirato fuori dal letto, mi ha scaraventato per terra e mi ha legato le mani dopo avermi perquisito. Mia figlia Sarah stava piangendo perché era veramente impaurita dagli Statunitensi già in precedenza. Ogni volta che li vede per strada è terribilmente preoccupata. Persino i soldati iracheni lei li chiama americani. Non è in grado di fare distinzione. Così mi stava gridando “Papà! Papà! Gli americani ti stanno portando via!!!” come diceva sempre. Alla fine ho cercato di chiedere loro la ragione per cui avessero fatto irruzione in casa mia, che cosa stessero cercando.
AMY GOODMAN: E tu potevi parlargli. Sai parlare inglese.
ALI FADHIL: Sì, esattamente. Ho cercato di spiegar loro che sono un giornalista. A loro non fregava assolutamente e mi dissero di stare zitto. Pochi minuti dopo, mi hanno portato di sotto facendomi camminare con le mani legate. Intanto davo un occhiata alla casa. C’erano almeno 20 soldati all’interno. Stavano sfasciando i mobili, guardando dappertutto ma allora non sapevo ancora cosa cercassero. Dopo un po’ mi condussero in salotto dove continuarono a cercare. Mi dissero di sedermi su una sedia e uno di loro si diresse verso di me e mi incappucciò. Quindi portarono un cane che abbaiava contro di me e mi minacciarono che se avessi detto una sola parola il cane mi avrebbe morso.
AMY GOODAMN: Ti hanno messo un cappuccio in testa?
[Un prigioniero iracheno]
ALI FADHIL: Sì, un cappuccio in testa. E subito dopo il cane mi stava abbaiando contro. In seguito uno dei soldati o forse un capitano – non so esattamente – venne verso di me con una videocamera portatile che di solito uso per lavoro con un nastro che girava all’interno e mi disse:
“Guarda questo e spiegami perché ce l’hai?”. Lo guardai. Era un mio nastro dal balcone del Palestine Hotel, riprendevo e parlavo alla telecamera. E dissi “sì, sono io che ho fatto questa cassetta. Mi pare due giorni fa all’Hotel Palestine”. Ed il soldato mi disse “Lo sai che questi posti sono stati presi di mira recentemente?” Io risposi “No, non è così perché ieri mi trovavo all’interno della Zona Verde per l’anniversario dell’esercito iracheno e c’erano delle riprese, di cui non c’è nulla in quel nastro”.
Quindi mi lasciò lì e fece ritorno dopo qualche minuto chiedendomi “Sei un giornalista?” Io risposi
“Sì, lo sono” e gli spiegai per chi lavorassi, ovvero i giornali e la TV britannica Channel 4. Egli mi disse “Questa casa appartiene a qualcuno il cui nome è Ali Mahmoud al-Mashhadani”. Risposi “No, è impossibile. Questa casa appartiene a mio suocero. Il suo nome è Abdul Karim Abbas Hamoudi. Ha vissuto qui per 8 anni. L’ha costruita lui. E poi la Masshadani è una casa sunnita mentre questa è una casa sciita. Se andate nell’altra stanza potrete vedere un grande quadro dell’Imam Ali che indica chiaramente che si tratta di una casa sciita”.
Più tardi, dopo avermi lasciato solo per una mezz’ora, ritornò con in mano un foglio di carta, un documento e mi mostrò la foto di una donna. Non avevo idea di chi fosse all’epoca, indossava grossi occhiali da sole. Mi resi conto che poteva essere la giornalista rapita vicino alla mia zona. Io dissi “Non so. Forse è una giornalista”. Egli rispose “Si lo è. Come fai a saperlo?” Risposi: “Non lo so. Ne ho solo sentito le notizie. Quindi egli mi disse” Sai dove si trova?” Risposi “No”. Egli disse “Si trova in questa casa” e risposi ancora “No, non c’è qui”. Quindi mi mostrò una foto di un uomo con la barba e mi chiese di nuovo “Conosci questo ragazzo?” Ribattei “Si lo conosco” e “Come lo conosci?” – “Beh perché la sua foto è all’interno della Zona Verde nella sala convegni dove andiamo sempre noi giornalisti ed addetti ai lavori e so che è ricercato dalle forze statunitensi. E quello continuò “Vive in questa casa?” io ribattei ancora “No, assolutamente”.
[Jill Carrol, rapita in Iraq]
Quindi mi lasciò per un po’. Tornò con un altro capitano, un ufficiale. Mi parlarono gentilmente questa volta. Mi dissero “Abbiamo bisogno di interrogarti. Ci servono delle informazioni. Ma qui non possiamo farlo in maniera appropriata. Dobbiamo portarti da qualche altra parte per fare l’interrogatorio per poi rilasciarti dopo circa un ora”, io risposi “Va bene se prendete me, solo me e nessun altro nella casa”. Essi risposero “Sì, prenderemo solo te ma dobbiamo tenerti le mani legate ed incappucciarti il viso. Tutto questo è sia per te che per noi, è per la sicurezza”. E così mi misero su veicolo corazzato con cui viaggiammo per circa una mezz’ora o forse anche di più, non so dire esattamente, comunque per un lungo tragitto”.
Alla fine mi sono ritrovato in una piccola stanzetta con le pareti di legno, un tavolo ovale nel centro, un frigorifero ed un letto sul pavimento. C’era un soldato con una pistola che mi sorvegliava. Pochi secondi più tardi due civili americani entrarono nella stanza; indossavano semplici magliette. Poi dissero. “Signor Fadhil, Lei sa perché si trova qui?”. Risposi “Sì, per interrogarmi”. Egli disse “No, c’è stato un errore e ci scusiamo per ciò che è avvenuto. Stiamo per rilasciarla non appena sarà terminato il coprifuoco della mattina”. Io replicai “Così non siete venuti per la giornalista?”. Egli ribatté “Non possiamo dirle nulla. Quello che potevamo dire glielo abbiamo detto ed è tutto”. A quel punto incalzai, “E cosa mi dite dei danni alla casa e dei risarcimenti?”. Egli rispose “Naturalmente in mattinata verranno delle persone per trattare con lei l’entità dei risarcimenti”.
Mi offrirono l’opportunità di dormire e tentai di farlo ma, immaginate, a causa dello shock fu molto difficile per me prendere sonno. Pensavo a cosa era successo precedentemente a casa mia. Le finestre, come sapete, sono state divelte e sarà freddo e la casa è danneggiata. E mia figlia. Non sapevo cosa stesse facendo in quel momento. Dopo di che mi svegliai la mattina e due uomini, due altri civili, statunitensi, che indossavano magliette ed abiti simili alla polizia privata di Baghdad, mi dissero “Signor Fadhil, ci scusi, vogliamo parlare con lei ed ora possiamo rilasciarla” risposi “Ok”.
Uno di loro tirò fuori una busta dalla tasca. C’era del denaro, denaro contante, 100 banconote e mi disse “Questo è il denaro che le offriamo per i risarcimenti. Sono 1000 dollari per i danni alla casa e 500 per il tempo che hai trascorso con noi in stato di fermo.”
Io dissi “Va bene”. Non negoziai nulla, non dissi nemmeno nulla. Volevo solo uscire e vedere la mia famiglia perché pensavo che per me sarebbe stata più lunga la durata del fermo. Mi sentivo bene ormai. Voglio dire, si era trattato di un errore ovviamente. Presi il denaro e firmai tre documenti. Dopo che ero stato incappucciato e con le mani legate finalmente mi liberarono almeno le mani in quei momenti.
Mi fecero salire su una macchina civile, un normale veicolo a 4 ruote, girarono a destra ed a sinistra e così via – non potevo immaginare dove mi trovassi all’inizio – e poi mi rilasciarono in un posto. Quando mi sfilai il cappuccio dalla testa vidi delle barricate, lunghe barricate, barricate alte circa tre metri su entrambe i lati. Non sapevo dove mi trovassi esattamente. Mi diedero i soldi per il taxi. Uscii fuori dalle barricate. Mi trovai al varco sud della Green Zone, un area molto, molto pericolosa, famosa per le autobomba e gli assassini perché è il varco dove transitano gli iracheni che lavorano per gli Statunitensi.
Presi un cab e tornai a casa. Trovai la casa in condizioni peggiori di come mi aspettavo. La nostra macchina, una BMW, era danneggiata, le finestre erano rotte ed i mobili sfasciati. Mia moglie si mise a piangere quando mi vide. Mi abbraccio non potendo credere che mi avessero rilasciato. Ho scoperto che mio cognato è stato pestato dai soldati, perché non parlava l’inglese. Non poteva comprendere cosa volessero da lui. Anche mio suocero è stato picchiato ed aveva qualche ferita sul petto causata dal vetro. Lo hanno preso a bastonate per terra e c’era del vetro. Questo è ciò che ho ritrovato.
AMY GOODMAN: Alhi Fadhil è un giornalista iracheno che ha girato un documentario che sarà diffuso per la prima volta nel paese. Ma la videocassetta che ti hanno mostrato, nella tua telecamera, ce l’hai adesso?
ALI FADHIL: No, veramente no. Ho perso quel nastro. Non l’ho più trovato quando sono tornato a casa. Non sono riuscito a trovare quel nastro. E’ solo un nastro che mostra me sul balcone ed alcune riprese che stiamo pensando di utilizzare nel film per Channel 4 a cui stiamo lavorando proprio ora.
AMY GOODMAN: L’hai chiesta indietro?
ALI FADHIL: Sì, naturalmente l’ho chiesta. Anche Channel 4 l’ha richiesta attraverso l’ambasciata e recentemente, pochi giorni fa, abbiamo ricevuto una lettera da Zalmay Khalilzad, l’ambasciatore statunitense a Baghdad, in cui si scusava per quanto accaduto e si negava che un qualsiasi nastro sia stato preso da casa mia.
AMY GOODMAN: Cosa mi dici del fatto che Channel 4 abbia parlato con le forze Usa, prima che la tua casa fosse assalita e che tu fossi portato via, quando tu dissi loro che stavi girando questo film e che volevi intervistarli?
ALI FADHIL: Sì, come puoi vedere, il film a cui stiamo lavorando è sulla ricostruzione. E’ abbastanza pericoloso il fatto che sto lavorando a questo film mentre mi muovo attraverso diverse città, perché è [inudbile] come la sicurezza, è [inudibile] per il film a cui stavamo lavorando, perché non abbiamo potuto trovare nulla. Recentemente lo staff di Channel 4 ha contattato quello delle forze Usa in modo da avere i permessi per l’intervista alle persone responsabili della ricostruzione in Iraq. Ecco perché lo staff di Channel 4 nutre dei dubbi riguardo il tempismo del raid. Per quanto mi riguardo è stato solo un errore di identità. Questo è ciò che credo.
AMY GOODMAN: Ali Fadhil è nostro ospite ed è per la prima volta negli Stati Uniti. Sta girando un documentario ed è stato arrestato nel bel mezzo del periodo di riprese. Quando torneremo dalla pausa vi mostreremo un estratto dal film che ha terminato per Channel 4 intitolato “Fallujah: la vera storia”.
Amy Goodman intervista Ali Fadhil
25.01.2006
Fonte: http://www.democracynow.org
Link: http://www.democracynow.org/article.pl?sid=06/01/25/155221
Traduzione dall’inglese a cura di FRANCESCO SCURCI per www.comedonchisciotte.org
VEDI ANCHE: AMY GOODMAN INTERVISTA ALI FADHIL (PARTE II)