LA IV FLOTTA AFFONDO’ L’IMPERO

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DI ATILIO A. BORON
Rebelion

Si, la IV flotta ha colato a picco Impero, il libro di Michael Hardt e Antonio Negri (nella foto), dimostrando una volta di più, che le repliche della storia sono impietose con le mode intellettuali che al loro tempo brillavano com indiscutibili o inespugnabili. La tesi nefasta che quegli autori proponevano: pensare che esistesse “un impero senza imperialismo” è rimasta sepolta sotto i fatti. Che riposi in pace.

Un po’ di storia

Si potrebbe sostenere: a chi importa della morte del delirio di due intellettuali? Risposta: a molta gente, e in special modo alle forze sociali che lottano per la costruzione di un mondo migliore, per una società socialista: per comprendere meglio il perché di questa risposta conviene rifare un po’ di storia. Precisamente quando il neoliberismo ha cominciato a subire i colpi di una resistenza che all’inizio del nostro secolo si estendeva per le più diverse latitudini, apparve il libro di Hardt e Negri. Subito l’opera fu salutata da tutta la stampa imperialista mondiale come il nuovo “Manifesto comunista” del secolo ventunesimo: un manifesto che, a differenza del suo predecessore scritto da Marx e Engels un secolo e mezzo prima, dimostrava la sua sensatezza fulminando senza attenuanti i dinosauri che ancora parlavano di imperialismo, credevano che le multinazionali si appoggiavano alla forza degli stati nazionali, e che questi, lungi dall’essere in via di estinzione, si rafforzavano nel capitalismo metropolitano mentre si indebolivano nella periferia del sistema. Un curioso manifesto comunista nelle cui pagine brillavano per assenza le contraddizioni di classe, la dialettica e la rivoluzione; e che erigeva come modello di lotta contro il fantasmagorico impero… il buon San Francesco di Assisi! (del quale si diceva ammansisse i lupi affamati con il suono del suo violino [Sic — ndt]), e relegando nel museo degli arcaismi rivoluzionari figure come Che Guevara, Fidel, Lenin, Mao e Ho Chi Min, tra tanti altri. Per varie ragioni che ora non è il caso di esporre, l’influenza di queste assurdità nelle prime riunioni del Foro Sociale Mondiale di Porto Alegre fu enorme, a e quanti di noi obiettavano alle tesi di Hardt e Negri toccava remare controcorrente per riuscire ad essere ascoltati. Molti di quanti impedirono un dibattito a fondo su questo argomento finirono per essere i rappresentanti ideologici dei governi anguilliformi di centro-sinistra che, poco dopo, si consolidavano nella regione.

Non era facile muovere obiezioni alle idee di un pensatore padrone di una traiettoria marxista tanto dilatata come Toni Negri. Impero, scritto insieme allo statunitense Michael Hardt – un professore di Teoria Letteraria dell’Università di Duke – è un libro voluminoso, involuto e a momento criptico (o confuso, se non si vuole essere troppo benevoli) la cui tesi centrale: “l’impero non è imperialista” suonò come musica celestiale per gli imperialisti. Non causò pertanto sorpresa l’alluvione di elogi con cui il libro fu ricevuto dal mondo “benpensante” e l’industria culturale dell’impero: non è cosa di tutti i giorni che due autori che si autodefiniscono “comunisti” sostengano una tesi tanto gradita e tanto coerente con i desideri e gli interessi degli imperialisti di tutto il mondo, e specialmente con quelli della “Roma americana”, come diceva José Martí, che apporta i fondamenti materiali, militari e ideologici sui quali riposa tutto l’imperialismo come sistema.

L’interminabile successione di errori e confusioni che si sgranavano nel corso del testo – spruzzati, è vero, con qualche osservazione più o meno razionale – fu oggetto di numerose critiche. Pensatori marxisti delle più diverse correnti posero in questione e confutarono quest’opera. Da parte nostra, assumemmo come un’esigenza della militanza antimperialista dedicare del tempo prezioso a scrivere un piccolo libro destinato a ribattere alle tesi centrali di Impero, e a cercare di contribuire a neutralizzare la profonda confusione ideologica nella quale, a causa delle stesse, erano caduti i movimenti dell’alterglobalizzazione. Il fatto è che, in linea con il discorso predominante del neoliberismo, e sotto una retorica di sinistra, il libro di Hardt e Negri andava contro, con una insopportabile mescola di ignoranza e superbia, tutta l’evidenza empirica prodotta da numerosi studi sulla dominazione imperialista e le sue conseguenze. A parte l’assurda tesi centrale: un impero senza relazioni imperialiste di dominazione, saccheggio e sfruttamento, si affermava anche che l’impero manca di un centro, non ha un “quartier generale” né un posto di comando, e neanche si fissa su alcuna base territoriale; ancor meno si può dire che conti sull’appoggio dello stato-nazione. Per Hardt e Negri l’impero è una benevola costellazione di poteri multipli sintetizzati in un regime globale di sovranità, permanentemente messa in scacco da una fantasmagorica “moltitudine”: una vaporosa o liquida, per dirla con Zigmunt Bauman, aggregazione altamente instabile e cangiante di soggetti che, per un incomprensibile paradosso, erano i veri creatori dell’impero e potevano essere i suoi finali seppellitori se per miracolo riuscivano a guarire dalla schizofrenia che li aveva condotti a costruire qualcosa che li opprimeva e che, al tempo stesso, volevano distruggere.

Per tutto ciò poche immagini potrebbero essere altrettanto gradite al governo degli Stati Uniti e alle classi dominanti di questo paese e dei suoi alleati in tutto il mondo che questa visione abbellita delle sue quotidiane aggressioni, crimini, abusi e il genocidio che lentamente e silenziosamente praticano giorno dopo giorno nei quattri angoli della terra, e specialmente nel terzo mondo. Poche, inoltre, avrebbero potuto essere più opportune in momenti in cui gli Stati Uniti si erano trasformati nella potenza imperialista più aggressiva e poderosa della storia dell’umanità, e nello stato nazione imprescindibile e insostituibile per sostenere con la sua formidabile macchina militare, la sua enorme gravitazione economico-finanziaria e il fenomenale potere della sua industria culturale (da Holliwood alle sue università, passando per i suoi think tank e i mezzi di comunicazione di massa e, last but not least, i suo controllo strategico di Internet, non condiviso neanche dalla UE e dal Giappone) tutta l’architettura del sistema imperialista mondiale.

La IV Flotta entra in scena

Ora: se mancava qualche prova per invalidare irreparabilmente le tesi centrali di Impero (e per convinvere i più refrattari del carattere insanabilmente erroneo di questo libro) la riattivazione ordinata dal governo degli Stati Uniti della IV Flotta ha apportato l’evidenza necessaria per chiudere definitivamente il caso. Ferito a morte dall’invasione e dall’occupazione statunitense dell’Irak, dove fu uno stato nazione che produsse la zampata che, alla vecchia maniera imperialista, avrebbe raso al suolo questo paese per appropriarsi della sua ricchezza petrolifera e favorire le “sue multinazionali”, Impero soccombette definitivamente di fronte alla nuova iniziativa ordinata dal Dipartimento di Difesa nell’aprile del 2008.

Disattivata dal 1950, la IV Flotta (degli Stati Uniti, non di un potere “globale e astratto” o delle Nazioni Unite, come Hardt e Negri ci indurrebbero a credere) fu tratta fuori dal letargo con il mandato specifico di pattugliare la regione e monitorare gli avvenimenti che si possono produrre nel vasto spazio formato da America Latina e Caribe. Non si tratta solo di controllare il litorale marittimo nell’Atlantico e nel Pacifico ma anche – come imprudentemente sfuggì – di navigare nei fiumi di grande portata del continente con il proposito di perseguire narcotrafficanti, acciuffare terroristi e sviluppare azioni umanitarie che avrebbero mosso a invidia Madre Teresa di Calcutta. Non occorre essere troppo perspicaci per afferrare che la penetrazione della IV Flotta nel Rio delle Amazzoni e il suo finale stabilirsi in queste acque darebbe un solido appoggio militare alla pretesa nordamericana di trasformare questa regione in un “patrimonio dell’umanità sotto la supervisione delle Nazioni Unite”. Neanche si richiede una grande immaginazione per capacitarsi di ciò che potrebbe significare la navigazione della IV Flotta nei grandi fiumi sudamericani (da sola o con l’ausilio delle forze locali alleate all’imperialismo) per legare le mani e soggiogare quella che, in un lavoro recente, Perry Anderson qualificava come la regione più ribelle e resistente al dominio neoliberista del pianeta.

Con questa iniziativa gli Stati Uniti, il centro indiscusso dell’Impero e il sito del suo quartier generale, viene a completare nei mari e nei fiumi ciò che aveva parzialmente ottenuto mediante il dispiegamento nella nostra geografia di una serie di basi e “missioni militari” e per il suo predominio aereo e dello spazio esterno, specialmente nel terreno satellitale: il controllo integrale di ciò che gli esperti di geopolitica negli Stati Uniti chiamano la grande isola americana. Grazie al Plan Colombia (e in minore misura al Plan Puebla-Panamá) e alle numerose basi militari su cui Washington conta nella regione, detiene un decisivo e monopolistico controllo territoriale che si estende dal Messico, nel nord, e giunge fino alla Tripla Frontiera, con la Base Mariscal Estigarribia in Paraguay, e persino alla stessa Terra del Fuoco, nell’estremo sud dell’Argentina dove pure vi è personale militare nordamericano.

Una nota prodotta pochi mesi fa da Stella Calloni rivela che nella Terra del Fuoco il governo di questa provincia argentina ha emesso un decreto che cede terre “per l’installazione di una base statunitense che si presume realizzerà studi nucleari con fini pacifici”. Questa decisione del governo provinciale si basa su una legge approvata nel 1998 dalla Camera dei Deputati della nazione, durante la presidenza di Carlos S. Menem, nei cui allegati si contempla che “si potranno realizzare esplosioni nucleari sotterranee con fini pacifici”. Il decreto dell’esecutivo fuegino autorizza l’installazione di una base del Sistema Internazionale di Vigilanza per la Prevenzione e la Probizione di Test Nucleari… e abilita per il personale di questa base il libero transito nella provincia, se è richiesto dai loro studi”. Per ultimo, annota la Calloni, esiste il pericoloso precedente della “immunità totale” che il Paraguay ha concesso, nel 2005, alle truppe statunitensi di stanza in questo paese, e che suscitò la condanna unanime degli organismi di difesa dei diritti umani.

Riassumendo: attualmente il controllo che gli Stati Uniti detengono dello spazio aereo latinoamericano è assoluto e inespugnabile, per via della sua enorme superiorità tecnologica che, tra le altre cose, gli ha permesso di organizzare e aiutare ad eseguire, passo passo, l’enigmatica “operazione liberazione” di Ingrid Betancourt e degli altri “prigionieri d’oro”, che le FARC avevano in loro potere. A ciò si aggiunga la loro presenza territoriale e, ora, il dominio dei mari, con il quale il circolo si chiude sull’America Latina e il Caribe. Circolo che si stringe sempre più per i quattro governi nella nostra regione che stanno sostenendo una battaglia quotidiana e senza quartiere contro l’imperialismo: Cuba, Venezuela, Bolivia e Ecuador.

Missioni manifeste e latenti

Una versione zuccherata della missione della IV Flotta (buona per il consumo delle anime buone incapaci di vedere il male) fu offerta alcune settimane fa dall’ammiraglio James Stavridis. In una nota, riprodotta nei principali periodici dell’America Latina, questo militare sostiene che “il ridispiegamento della IV Flotta” è un riconoscimento all'”eccellente cooperazione, amicizia e mutuo interesse nelle Americhe tra la nostra marina e tutte le altre marine della regione”. Dopo aver assicurato che “non ci sono navi permanentemente assegnate alla IV Flotta… e non ci sarà alcuna portaereri”, sottolinea che tra le principali operazioni marittime che potrebbero essere svolte con gli eseciti della regione vi sono (a quanto pare in primo luogo) “l’assistenza umanitaria…, il sostegno alle operazioni di pace, l’assistenza nelle situazioni di disastro e le operazioni di aiuto, nelle operazioni antinarcotici e …in quelle di cooperazione regionale e di addestramento interoperazionale.

” E’ evidente che non è un caso che il linguaggio usato da Stavridis ha sufficiente ambiguità per occultare le vere intenzioni che si nascondono dietro una decisione così significativa. E’ concepibile che gli Stati Uniti riattivino la IV Flotta per offrire “assistenza umanitaria” all’America Latina e al Caribe? Non può crederlo nessuno, perché per questo non è necessaria una flotta navale, e inoltre perché un simile impulso di altruismo non ha mai figurato nell’agenda della politica estera statunitense. Questa è sempre fedele al vecchio detto di John Quincey Adams, sesto presidente degli Stati Uniti, quando diceva che questo paese “non ha amici permanenti, ma interessi permanenti”.

Questa politica, pertanto, ha poco di novità. La Dottrina Monroe, formulata nel 1823 – cioè un anno prima della battaglia di Ayacucho, che completava la prima fase della lotta per l’indipendenza dei nostri popoli! – puntava in questa direzione e riaffermava l'”interesse permanente” degli Stati Uniti a controllare e dominare l’America Latina. Come dice lo storico Horacio López, alla fine del secolo XIX un ufficiale della marina statunitense, Alfred Thayes Mahan, perfezionava a livello di geopolica le raccomandazioni contenute nella Dottrina Monroe. La preoccupazione di Mahan sorse come risposta alla problematica posta dalla guerra ispano-americana che culminò, nel Caribe, con l’incorporazione di Cuba e Porto Rico alla loro egemonia (sebbene sotto differenti condizioni), e la strategia che gli Stati Uniti dovevano porre in pratica per assicurarsi un indiscusso dominio nel Caribe, definito da allora il Mare Nostrum statunitense. Contro le interpretazioni dei suoi tempi Mahan sostiene che l’estensione del potere territoriale degli Stati Uniti passava per il controllo globale degli oceani e delle linee di comunicazione marittime, ciò che esigeva la formazione di una poderosa flotta militare e mercantile. A partire da queste premesse Mahan, osserva López, sostenne la necessità di costruire un canale in Centroamerica per risolvere, in caso di conflitti, il rapido trasferimento della flotta da guerra statunitense da una costa all’altra, dato che la rotta per lo Stretto di Magellano richiedeva a quei tempi più di sessanta giorni di navigazione. Una volta costruito il canale, sorgeva il problema della sua difesa per evitare che cadesse in mani nemiche. López cita il sociologo portoricano Ramón Grosfoguel che afferma che “come modo di assicurare la difesa del futuro canale, Mahan raccomandò che prima di costruirlo gli Stati Uniti acquisissero le Haway e assumessero il controllo militare delle quattro rotte caraibiche al nordest del canale: il Paso de Yucatán (tra Cuba y México); il Paso de los Vientos (la rotta principale nordamericana di accesso al canale tra Cuba e Haití ); il Paso de la Mona (tra Porto Rico e la Repubblica Dominicana) e il Paso de Anegada (vicino a St. Thomas nelle acque orientali di Porto Rico). Mahan raccomandò alle elites nordamericane la costruzione di basi navali in queste zone come passo preliminare alla costruzione di un canale e come passo indispensabile per trasformare gli Stati Uniti in una superpotenza”.

Se si esamina l’itinerario della politica estra di questo paese si potrà comprovare che le raccomandazioni di Mahan non caddero in un sacco rotto: gli Stati Uniti si impadronirono di Cuba e Porto Rico e, indirettamente, delle piccole nazioni del Caribe e del Centroamerica; lo stesso fecero con l’arcipelago delle Haway nel 1898 e in breve si appropriarono delle Filippine, le isole Marianne e altri possedimenti nel Pacifico Occidentale. Tutto questo sforzo si vide coronato dalla attentamente pianificata secessione della provincia settentrionale colombiana di Panama, nel 1903, e la firma del trattato che avrebbe permesso la costruzione del canale, che sarebbe stato inaugurato nel 1914. In questa evenienza le autorità ” indipendenti” di Panama concessero agli Stati Uniti il canale in via perpetua insieme a un’ampia zona di otto chilometri su ognuna delle due rive in cambio di una cifra di dieci milioni di dollari, e una rendita annuale di 250.000 dollari. Questa situazione sarebbe stata modificata grazie al Trattato Torrijos-Carter, firmato nel 1977, che restituiva il canale alla sovranità panamense il 31 dicembre del 1999.

Da questa sommaria descrizione emerge con sufficiente chiarezza la coerenza della politica estera della Casa Bianca verso l’America Latina, il ruolo importantissimo giocato dalla marina e, di conseguenza, l’assai fondato sospetto che la riattivazione della IV Flotta è chiamata a giocare un ruolo molto più importante di quello annunciato dalla propaganda ufficiale. In altre parole, che la sua vera missione ha poco a che vedere con quella dichiarata ufficialmente.

Conosciamo per esperienza i problemi di definizione nei quali si imbatte chi pretenda di decifrare il significato di ” sicurezza regionale”, “terrorismo” e “narcotraffico”, quando queste espressioni vengono proposte nei discorsi o documenti ufficiali del governo degli Stati Uniti. Chiunque si opponga ai disegni imperiali può essere fulminato con la qualificazione di terrorista o narcotrafficante o, con ancor più facilità, come “complice” di quelli. L’argomento della lotta contro il narcotraffico non è solo falso; è comico. L’Afganistan e la Colombia, due paesi dove la presenza nordamericana è stupefacente (si potrebbe addirittura dire che, soprattutto nel primo caso, sono paesi “occupati” militarmente da Washington) non a caso registrano negli ultimi anni una vigorosa espansione delle coltivazioni di oppio e coca e, inoltre, del traffico di sostanze proibite, una cosa insolita se accade sotto lo sguardo geloso di quanti si arrogano la responsabilità di combattere il narcotraffico in America Latina. Uno studio recente conculde che l’invasione e l’occupazone dell’Afganistan dall’ottobre del 2001 “non distrusse l’economia della droga in questo paese. Anzi, l’Afganistan è diventato il maggior produttore mondiale di oppio… e la coltivazione del papavero si è estesa in tutte le provincie del paese, e il suo raccolto costituisce il 92% dell’oppio prodotto in tutto il mondo, e approssimativamente il 90% di tutta l’eroina consumata”. E per ciò che riguarda il caso colombiano gli autori sostengono che “a dispetto di anni di campagne per lo sradicamento, la produzione e la distribuzione di droghe illegali permangono stabili nella regione”. Il rapporto delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC) del 2008 rivela che nel 2007 il raccolto di papavero in Afganistan fu il maggiore da che si raccolgono statistiche, e che la produzione di oppio si è duplicata tra il 2005 e il 2007. Si segnala anche che in questo paese si verifica una impetuosa espansione della coltivazione di marihuana, e in Colombia si stima che nell’ultimo anno la superficie seminata di coca si è incrementata del 27%, nonostante le campagne di fumigazione, la presenza di truppe nordamericane e le politiche di lotta al narcotraffico progettate dal governo colombiano gomito a gomito con la Casa Bianca. Di fronte al peso di questi fatti, chi potrebbe essere tanto ingenuo da credere che la IV Flotta leverebbe le ancore per dare la caccia ai narcotrafficanti, quando sotto la protezione delle truppe nordamericane la coltivazione e il traffico degli stupefacenti sono fioriti in Afganistan e Colombia? Quello che l’esperienza suggerisce è che quasi con sicurezza una delle principali missioni sarà organizzare il traffico di droghe nel mondo in modo tale che i proventi vengano canalizzati verso le banche nordamericane per il riciclaggio del denaro.

Il pretesto della lotta antiterrorista contro il radicalismo islamico è altrettanto poco persuasivo: a parte gli attentati all’ambasciata di Israele a all’AMIA, avvenuti a Buenos Aires agli inizi degli anni novanta (e la cui genesi, i responsabili e gli esecutori si trovano ancora nelle ombre della meravigliosa inefficienza, o la corrotta complicità di alcuni funzionari dello stato argentino nei suoi differenti rami) non esiste nella regione attività alcuna comprovata di cellule vincolate a al Qaeda o altra organizzazione similare. La lotta contro il terrorismo internazionale dovrebbe essere combattuta a Washington, dato che lì si trovano i suoi principali responsabili; la scandalosa protezione ufficiale offerta al terrorista provato e confesso Luis Posada carriles e la non meno scandalosa detenzione, in condizioni inumane, che non si applicano neanche al delincuente più incallito, dei cinque giovani cubani che si infiltrarono nelle organizzazioni terroriste con base a Miami, tolgono ogni pretesa di verosimiglianza al proclamato obiettivo della casa Bianca di combattere il terrorismo. Quanto alle intenzioni umanitarie della IV Flotta, non cessano di essere un semplice pretesto per coprire le sue vere ed inconfessabili intenzioni: posizionarsi nella regione per essere pronta ad intervenire quando gli imperativi della congiuntura lo esigano.

Smentendo le pietose dichiarazioni di Stavridis un comunicato ufficiale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha espresso che la IV Flotta conterà su tutte le classi di navi, sommergibili e aerei, e che il suo punto di attracco (Mayport, nello stato della Florida) è una base navale con un vasto arsenale nucleare. Secondo questo comunicato l’obiettivo perseguito dalla riattivazione della IV Flotta è “rispondere al crescente ruolo delle forze di mare nell’area di operazioni del Comando Sud (degli Stati Uniti) e dimostrare l’impegno di Washington con i suoi soci regionali”. Non è necessario far lavorare troppo l’immaginazione per sapere chi è che definiscono “soci regionali” e chi, come Cuba, Venezuela, Ecuador e Bolivia, sono considerati come “nemici globali” che destabilizzano la regione e attentano alla “sicurezza marittima” della regione. La dichiarazione ufficiale del Pentagono non potrebbe essere più vaga: questa forza avrebbe come suo compito varie missioni, in un raggio che va da “operazioni contingenti, la lotta contro il narco-terrorismo”, fino a certe attività in relazione alla sicurezza del teatro dell operazioni. Come si può osservare, la IV Flotta ha un mandato per fare praticamente qualsiasi cosa, e non è un caso che la sua riattivazione abbia coinciso con il bombardamento da parte dell’aviazione della Colombia di un accampamento delle FARC precariamente installato in territorio ecuadoriano e a pochi chilometri dalla frontiera, operazione questa che, al pari della “liberazione” dei quindici prigionieri in potere delle FARC, non sarebbe stata possibile senza l’appoggio informatico e satellitale degli Stati Uniti. Non è neanche casuale che abbia avuto luogo quando gli sforzi per destabilizzare i governi del Venezuela, Ecuador e Bolivia posero in evidenza i loro limiti, e i governanti di questi paesi riuscirono a superare, almeno fino a ora, tutti gli ostacoli e le trappole interposte dalla Casa Bianca e dai suoi luogotenenti nella regione. La schiacciante vittoria di Evo MOrales al recente referendum revocatorio del 10 agosto deve aver gettato molti nella disperazione, a Washington e nella Mezza Luna in Bolivia.

Per riassumere: quello che è certo è che il Pentagono prevede di dotare la IV Flotta di un equipaggiamento simile a quello della Quinta Flotta, che opera nel Golfo Persico, e della Sesta, stazionata nel Mediterraneo. In successive dichiarazioni del Pentagono si ammette che almeno una portaerei e vari sottomarini faranno parte della flotta incaricata di pattugliare le acque latinoamricane. In questo stesso servizio da Washington – e pubblicato da La Nacion con la firma del suo corrispondente in questa città Hugo Alconada Mon – si dice che “nell’orbita del Comando Sud operano oggi undici navi, un numero che potrebbe aumentare in futuro. Che tipo di navi verranno dispiegate, è questione del momento, in base alle missioni specifiche… ma i primi indizi puntano alla nuovissima portaerei George H. W. Bush, che sarà operativa alla fine di quest’anno, come possibile nucleo della IV Flotta”

Secondo lo stesso inviato a Washington, “l’ammiraglio Gary Roughead, gestore intellettuale della rinascita dell’unità” ha come meta “assicurare la sicurezza in questo mondo globalizzato”. Richiesto sul significato di questa espressione Roughead si è limitato a dire che la IV Flotta sarà “pronta in ogni momento per fronteggiare qualunque sfida. Per questo siamo una marina globale”. Se si ricorda la straordinaria ampiezza della nuova dottrina strategica nordamericana annunciata nel settembre del 2002 – la guerra infinita e globale contro il “terrorismo” e il fatto che la paranoia ufficiale regnante a Washington consideri come “terrorista” tutto ciò che resiste alle aggressioni dell’imperialismo – rimangono pochi dubbi sul ruolo reale che dovrà svolgere la IV Flotta: essere un elemento di ricatto e dissuasione per i governi della regione che si oppongono agli imperialisti e un significativo appoggio “fuori dalle mura” per i suoi alleati tra le classi dominanti locali.

Il documento del Comando Sud degli Stati Uniti denominato “US Southern Command Strategy: 2016 Partnership for the Americas” è classificato dallo specialista in relazioni internazionali Juan Gabriel Tokatlian come “il piano più ambizioso che sia stato concepito negli anni da un’agenzia ufficiale statunitense nella regione”. Secondo questo documento nella nuova conformazione della politica statunitense verso la nostra regione non giocano alcun ruolo né i tradizionali strumenti di predominio militare, come la Giunta Interamericana di Difesa o il già defunto Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca, passato a miglior vita ai tempi della guerra delle Malvine nel 1982; né organismi multilaterali come la OEA o le Nazioni Unite. Analogamente dice che “le istanze politiche interne (i dipartimenti di stato, della giustizia, e del Tesoro) di interazione con l’emisfero sono evaporati nel documento. Il Comando Sud annuncia il suo ruolo e la proiezione nell’area per i seguenti dieci anni come farebbe un proconsole continentale”. E questo a dispetto di che nella regione “non esistono tiranni con armi di distruzione di massa, né vi sono forme di terrorismo transnazionale di portata globale”. La militarizzazione della politica internazionale è una delle conseguenze della nuova dottrina strategica annunciata al mondo nel settembre 2002 e ratifica ora dal Pentagono attraverso il suo strumento regionale: il Comando Sud. Si noti che dietro questa concezione che militarizza la scena internazionale vi è la criminalizzazione della protesta sociale sul piano interno, verso la quale punta la già riferita legislazione antiterrorista approvata, sotto forte pressione statunitense, in quasi tutti i paesi dell’area. E per combattere su entrambe i terreni, l’internazionale e il nazionale, l’impero fa appello all’efficacia dissuasiva della armi. Questo e nessun altro è il vero ruolo che la IV Flotta è chiamata a svolgere in America Latina e Caribe.

Un dibattito chiuso, un motivo di confusione in meno

Come dicevamo al principio, la messa in funzionamento della IV Flotta liquidò il dibattito attorno alla natura dell’impero. Come è affermato dal marxismo, le controversie teoriche e pratiche non si risolvono con ingegnosi giochi di parole o accese acrobazie linguistiche, ma nella vita pratica dei popoli e delle nazioni. E il dibattito sul libro di Hardt e Negri è già terminato: il primo colpo mortale la aveva dato la guerra in Iraq, che dal principio dimostrò chiaramente di essere una guerra imperialista di annessione lanciata per appropriarsi del petrolio iracheno. E il tiro di grazia lo sta sferrando la decisione di riattivare la IV Flotta. Per studiare seriamente l’imperialismo Hardt e Negri dovrebbero ispirarsi a V. I. Lenin – un autore per il quale non nascondono il proprio disprezzo – quando si propose di investigare la natura dell’imperialsimo agli inizi del secolo ventesimo: leggere tutta la letteratura importante prodotta dagli intellettuali della borghesia imperialista. Invece di questo Hardt e Negri si sono compiaciuti di transitare negli inconseguenti meandri della filosofia postmoderna francese, mentre il vero impero – non quello delle loro allucinazioni – sfilava davanti alle loro dilatate pupille senza aver nessuna consapevolezza di quanto accadeva. La loro ignoranza della densa letteratura imperialista prodotta dalla destra nordamericana da Reagan ai nostri giorni è imperdonabile. Se avessero avuto la curiosità tipica dello spirito di ricerca scientifica, e si fossero dati il distrurbo di leggere quello che scriveva uno dei più tipici portavoci del pensiero imperialista nordamericano, e principale commentatore di affari internazionali del New York Times, Thomas Friedman, avrebbero concesso a sé stessi un bagno di sobrietà e probabilmente si sarebbero resi conto che qualcosa non funzionava troppo bene nella loro teoria. Poco prima dell’apparizione di Impero Thomas Friedman scrisse una nota nella quale diceva, senza alcuno scrupolo, che “la mano invisibile del mercato globale non opera mai senza il pugno invisibile. E il pugno invisibile che mantiene sicuro il mondo per il fiorire delle tecnologie della Silicon Valley si chiama Esercito degli Stati Uniti, Marina degli Stati Uniti, Aviazione degli Stati Uniti, corpo dei Marines degli Stati Uniti (con l’aiuto, incidentalmente, delle istituzioni globali come le Nazioni Unite e il fondo monetario internazionale… per questo quando sento un manager che dice ‘non siamo una compagnia statunitense. Siamo IBM-USA, o IBM-Canada, o IBM-Australia, o IBM-Cina’, gli dico ‘ah si? bene, allora la prossima volta che avete un problema in Cina chiamate Li Peng perché vi aiuti. E la prossima volta che il Congresso liquida una base militare in Asia – e voi dite che non vi riguarda, perché non vi interessa quello che fa Washington – chiamate la marina di Microsoft perché assicuri le rotte marittime dell’Asia. E la prossima volta che un congressista repubblicano principiante chiede di chiudere più ambasciate statunitensi, chiami America-On-Line quando perde il passaporto’ “. Questo è l'”impero realmente esistente”, e lo “sceriffo solitario” di cui parla Huntington, con l’onnipresenza degli stati metropolitani, e soprattutto dello stato fondamentale per la preservazione della struttura imperialista mondiale: gli Stati Uniti; con la proliferazione delle grandi imprese “nazionali” a proiezione globale appoggiate dai loro stati (gli stessi che nella loro candida fantasticheria Hardt e Negri credevano scomparsi) e con la decisiva componente militare che caratterizza questa epoca – nella quale si dice che i popoli stanno raccogliendo i dividendi della ‘pace mondiale’, una volta implosa la vecchia URSS, causa dell’equilibrio del terrore atomico degli anni della Guerra Fredda – nella quale, paradossalmente, fiorisce la dottrina della “guerra infinita”, interminabile e contro tutti, proclamata da George W. Bush.

Se qualcosa di buono può nascere dalla disgraziata notizia dell’attivazione della IV Flotta, è che essa ci permette di lasciarci indietro l’allucinata visione sistentizzata in Impero, e che tanto ritardò la presa di conscienza delle forze di sinistra, i loro partiti e movimenti sociali, circa la vera natura del nemico imperialista. Come il bambino del racconto che gridò ‘Il re è nudo’, la recente decisione di Washington ha un valido effetto pedagogico: spazza via dal cruciale terreno delle idee le erronee interpretazioni dell’imperialismo contemporaneo, come quella di Hardt e di Negri, che è l’imprescindibile primo passo per tracciare un panorama più chiaro e realistico tanto delle sfide che l’imperialismo presenta ai nostri popoli, quanto per costruire le strategie, le tattiche, e gli strumenti politici e ideologici più appropriati per combatterlo con successo.

Versione originale:

Atilio A. Boron

Fonte:www.rebelion.org/
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=71635
21.08.08

Versione italiana

Fonte: http://achtungbanditen.splinder.com/
Link: http://achtungbanditen.splinder.com/post/18154060/La+IV+Flotta+affondò+Impero
24.0808

Traduzione a cura di GIANLUCA BIFOLCHI

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