La Cina moderna, una creazione di Wall Street ? (L’agenda mondialista )

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DI KERRY BOLTON

katehon

La Cina si appresta infine a dichiarare il suo assenso alla mondializzazione. Il presidente Xi Jinping farà questa dichiarazione nel corso del Forum economico mondiale di Davos, tra il 17 e il 20 gennaio. Si è detto che l’incontro di Davos si concentrerà sull’incremento delle reazioni antimondialiste incarnate dall’elezione di Trump. Probabilmente si occuperà anche del problema sempre più crescente del «populismo». La riunione di Davos rappresenterà il giubileo dei plutocrati statunitensi e dei loro prestanome, gli USA saranno rappresentati dal vicepresidente Biden e dal segretario di Stato John Kerry, probabilmente saranno i loro ultimi atti in questi ruoli.

Pare che il presidente Xi si farà cantore di una «mondializzazione inclusiva», denunciando nel contempo il populismo come fattore di «guerra e povertà». La sua agenda mondialista per Davos è stata annunciata da Jiang Jianguo, alla testa dell’Ufficio d’informazione del Consiglio di Stato, che ha dichiarato, nel corso di un convegno ospitato dall’Organizzazione mondiale del commercio a Ginevra, che il presidente Xi si sarebbe recato a Davos per raccomandare lo sviluppo, la cooperazione e la mondializzazione economica, con lo scopo di «una comunità umana che condivida un destino comune». Jiang ha spiegato:

«Con il crescere del populismo, del protezionismo e del nazionalismo, il mondo è arrivato a una svolta storica in cui una ruota conduce alla guerra, alla povertà, allo scontro e alla dominazione mentre l’altra conduce alla pace, allo sviluppo, alla cooperazione e a soluzioni benefiche per tutti.» (1)

Il viceministro degli affari esteri stranieri Li Baodong, nel corso della conferenza stampa a Davos, ha dichiarato che «la Cina risponderà alle inquietudini della comunità internazionale riguardo alla mondializzazione, presentando le disposizioni di Pechino sul modo di indirizzare la mondializzazione verso una più ampia inclusione». Li ha affermato che le critiche nei confronti del protezionismo commerciale rivolte alla Cina erano ingiuste. « Il protezionismo commerciale non è nell’interesse di nessuno e condurrà all’isolamento» ha aggiunto.

È la retorica elementare che i mondialisti adottano da molto tempo. Le richieste presunte e quelle attese di una «comunità internazionale» sono un eufemismo per designare la «comunità internazionale» degli oligarchi così come «l’opinione pubblica» è quella prodotta dai loro mass media. Invocare «la pace, lo sviluppo e la cooperazione» è indicatore di come la Cina abbia fatto proprio il linguaggio dei politici occidentali a partire dai 14 punti di Woodrow Wilson che hanno garantito la promozione del «libero mercato» in nome di un «nuovo ordine mondiale». Le esperienze imperiali dopo Alessandro Magno sono state giustificate in nome della pace e della cooperazione, e spesso dei «diritti dell’uomo». Gli Stati Uniti hanno partecipato alla seconda guerra mondiale negli interessi – una volta di più – del libero scambio mondiale (la mondializzazione), come la Carta Atlantica di Roosevelt ha stabilito apertamente. La distruzione della Serbia con l’obiettivo di far man bassa delle ricchezze minerarie del Kosovo fu intrapresa nel nome della «pace e della cooperazione». Esiste ormai un dipartimento kosovaro della privatizzazione. Pertanto, se la storia insegna, le esperienze imperiali, le guerre e le rivoluzioni che sono state condotte in nome della «pace» dovrebbero proseguire. La Cina ha aderito al mondialismo e svelato il suo vero volto, proprio ora che si trova un presidente statunitense che ha rilasciato dichiarazioni inquietanti e fatto intendere che il commercio e le politiche straniere mondialiste degli Stati Uniti potrebbero cambiare.

Adesso che gli interessi si sono definiti all’interno di contorni più definiti, la Cina è obbligata a giocare a carte scoperte in quanto massimo sostenitore del mondialismo. In effetti, se Trump riduce effettivamente il mondialismo, a dispetto del peso considerevole che i vertici di Goldman Sachs hanno tra i suoi consiglieri economici, la Cina apparirà come lo Stato principale promotore del mondialismo, con Soros, Goldman Sachs e Rockefeller a tenergli lo strascico.

Dietro gli slogan teorici, la Cina, come sempre, cela il proprio interesse. Sempre applicando i principi dell’economia pianificata, lei esige che gli altri stati mantengano le loro frontiere aperte allo smaltimento dei suoi prodotti a prezzo ridotto. In Nuova Zelanda, per esempio, è stato recentemente importato dell’acciaio cinese di scadente qualità. Un’inchiesta è tuttora in corso sul dumping dell’acciaio, ma ogni volta che vengono sollevate certe questioni, si accompagnano timori per il commercio con la Cina, per paura di possibili rappresaglie da parte di quest’ultima. È il «partenariato» e la «cooperazione» alla cinese; l’altro «partner» deve essere sempre subalterno. Questa esigenza di subordinazione fa parte della mentalità plurimillenaria della Cina, quando l’imperatore era designato dai cieli a guidare il mondo. Questa mentalità imperiale ha sostituito lo Stato all’imperatore. Il dumping dell’acciaio costituisce un esempio concreto di ciò che la Cina intende per «mondializzazione». (2)

L’onnipotente Henry Kissinger

Il viceministro degli affari esteri Li ha assicurato nel corso del forum che, tra la Cina e la squadra di transizione di Trump, “i canali di comunicazione sono aperti”, ma ha avvertito che programmare un incontro potrebbe essere difficile. Una volta di più, si intravede la loro attitudine dominatrice e il loro disprezzo a dispetto dei sorrisi, delle strette di mano e dei costumi all’occidentale. Comunque sia, indipendentemente dalla politica di Trump, l’oligarchia statunitense ha sempre garantito un contatto influente alla Cina grazie all’intervento dell’inamovibile Henry Kissinger. L’ex segretario di Stato, vicino agli interessi oligarchici e soprattutto a quelli dei Rockefeller, coi i quali ha rapporti decennali, non ha perso tempo offrendo garanzie, indipendentemente dal parere di Trump; le relazioni della Cina con i mondialisti saranno mantenute. Perché la Cina avrebbe bisogno di intrattenere relazioni diplomatiche con un governo Trump, quando gli affari continueranno a seguire il loro corso abituale grazie alle frequentazioni di Kissinger nelle più alte sfere degli ambienti affaristici statunitensi e cinesi?

Kissinger, grazie alla «diplomazia del ping-pong», ha introdotto la Cina nel sistema del commercio mondiale nel corso degli anni Settanta soddisfacendo uno degli obiettivi maggiori dei mondialisti, e in particolare gli interessi di Rockefeller, collegati alla commissione trilaterale e al Consiglio sulle relazioni estere. Bloomberg News riporta che Kissinger si trovava a Pechino poco dopo l’elezione di Trump. Dopo aver avuto discussioni private con Trump il 18 novembre. Kissinger ha confidato alla CNN che «le persone dovrebbero smetterla di prendere in giro Trump per le posizioni assunte nel corso della campagna dato che nemmeno lui ne parla più». (3)

Se preservare le attività del movimento mondialista, che Trump ha chiaramente identificato con la Cina, non è l’obiettivo principale del presidente eletto, poco importa. È preoccupante che Trump abbia rivelato a Kissinger che le sue osservazioni sulla Cina e la mondializzazione non erano che della retorica elettorale. I nominati al Gabinetto scelti tra le file di Goldman Sachs non invitano certo alla fiducia.

Kissinger ha incontrato nuovamente il presidente Xi, ringraziandolo per «la natura del suo pensiero e degli obiettivi della sua politica a lungo termine»; Xi, dal canto suo, ha risposto che era «tutto orecchi» riguardo ciò che Kissinger ha «da dire sull’attuale situazione mondiale e sullo sviluppo futuro delle relazioni cino-statunitensi». «Nessuno potrebbe sostituirlo» ha affermato Gao. «Nessuno negli Stati Uniti potrebbe godere del rispetto che lui gode tra i dirigenti cinesi e avere scambi così onesti come con lui».

Il reportage di Bloomberg ha stabilito che Kissinger ha visitato la Cina ottanta volte dal suo viaggio segreto nel 1971 (secondo l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua) con l’obiettivo di restaurare le relazioni diplomatiche, e abbia incontrato ogni dirigente cinese da Mao in avanti. «La stampa di Stato lo ricopre di lodi a ogni sua visita, descrivendolo come un vecchio amico del popolo cinese».

«Kissinger compariva tra gli esperti statunitensi – tra questi anche l’ex segretario al tesoro Hank Paulson e Elaine Chao, indicata da Trump per diventare il segretario di Stato ai trasporti – che Xi ha incontrato nel febbraio del 2012, prima di assumere il potere. Il gruppo, secondo quanto è stato riportato da una persona presente all’incontro ma che preferisce restare anonima per via del carattere segreto di queste discussioni, ha fatto sapere a Xi che una comunicazione frequente con i suoi omologhi americani era più importante delle ripetute visite ufficiali.»

Ciò mostra come funziona la diplomazia mondiale: al di sopra delle formali e ufficiali relazioni governative, tra gli oligarchi e i loro ambasciatori, come Kissinger. Potremmo aggiungere che il mondialista repubblicano Paulson, sostenitore di Hillary Clinton, ha condannato il «populismo» di Trump, ma ha salutato con favore la scelta di Steven Mnuchin come segretario al Tesoro, dopo aver occupato il posto di direttore generale della Goldman Sachs. (4)

Brzezinski

Russofobo di lunga data, consigliere alla sicurezza nazionale sotto Jimmy Carter e, come Kissinger, vicino, per gran parte della sua vita, agli interessi dei Rockefeller, Zbigniew Brzezinski è figura di spicco per quanto riguarda la creazione delle relazioni tra gli Usa e la Cina. Brzezinski ha lavorato come direttore della commissione trilaterale, ideata da David Rockefeller con l’obiettivo di promuovere le relazioni tra la Cina e le oligarchie mondiali. In una recente intervista rilasciata a Huffington Post, Brzezinski ha ricordato l’agenda mondialista, non dimenticando di dare l’allarme contro la propaganda del «populismo» e la vittoria di Trump. Al pari di Kissinger, Brzezinski resta un attore di primo piano nella diplomazia internazionale. Le sue posizioni rivelano che le oligarchie del mondo occidentale e la Cina sono tra loro in sintonia. Brzezinski è tanto anti-russo quanto è pro-cinese, quando ripete la versione abbondantemente trasmessa dai mass media, secondo la quale la Russia interferisca nelle politiche interne degli altri paesi, quando lo stesso National Endowment for Democracy è finanziato dagli Stati Uniti con questo scopo preciso. In virtù del suo ruolo di negoziatore della politica statunitense della «Cina unica», Brzezinski fu invitato a dire la sua quando Trump accettò le felicitazioni telefoniche rivoltegli dal presidente di Taiwan, suscitando l’indignazione della Cina. Come all’epoca della guerra fredda, gli strateghi statunitensi continuano a considerare la Cina un elemento importante per arginare la Russia:

«Il pericolo che percepisco è quello di creare incomprensioni in questa relazione fondamentale per la politica estera statunitense, senza che si arrivi a dei risultati significativi. Non è nel nostro interesse metterci Pechino sulle spalle. È nettamente preferibile per gli interessi statunitensi che i cinesi lavorino a stretto contatto con noi, forzando anche i russi a seguire l’esempio se non vogliono essere lasciati da parte. Questa connessione conferisce agli Stati Uniti la capacità eccezionale di toccare il mondo intero attraverso un’influenza politica collettiva. (…) Un mondo nel quale America e Cina cooperino è un mondo nel quale l’influenza statunitense è ottimizzata. Se mettiamo in pericolo tutto questo a causa di stupidi malumori, cosa avremmo realizzato?

Brzezinski considera l’intesa cino-statunitense come «un’ottimizzazione» del potere degli Stati Uniti. Gli è stato chiesto se i segnali inviati da Trump alla Russia saranno utili per arginare la Cina, come rivale degli Stati Uniti. La sua risposta è un fermo «no». Gli Usa e la Cina sono, per lui, le uniche grandi potenze che lavorando in tandem potranno costituire un «insieme predominante », mentre alla Russia non resterà che un ruolo subalterno.

«La Russia non sarà un rivale per gli Stati Uniti, se guardiamo a ciò che lei può offrire alla Cina. I cinesi sanno molto bene che quand’anche indebolita, impoverita e confusa, l’America è sempre la prima potenza nel mondo e i cinesi sono di poco dietro. Di conseguenza, la Cina deve fare una scelta. Se lei sceglie di schierarsi contro gli Stati Uniti, finirà per perdere. È nel loro interesse appartenere al gruppo predominate. Lo stesso vale anche per gli Stati Uniti se rifiutano la Cina». (5)

Brzezinski ricorre alla stessa logica per giustificare l’egemonia mondiale dei sostenitori della mondializzazione, celebrata dal presidente Xi a Davos; solo questa supremazia cino-statunitense potrebbe garantire la stabilità del mondo. La Russia non conta nulla e può essere tenuta a bada dalle due superpotenze egemoni. La Cina riprende dal canto suo lo scenario presentato da Kissinger e Brzezinski. Quest’ultimo prosegue:

«Ribadisco che gli Usa e la Cina sono le due sole grandi potenze. Nel corso degli anni che sono seguiti alla normalizzazione delle nostre relazioni e durante i quali abbiamo lavorato congiuntamente, abbiamo operato senza fini ostili di guerra o di conquista, ma con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza e la stabilità necessarie a ciascuno per la persecuzione dei propri interessi. Nel mondo di oggi la Cina non può dominare da sola. E così gli Stati Uniti. Per dirla in maniera più precisa, benché possa sembrare paradossale, se gli Stati Uniti tenteranno di farsi cavalieri solitari nel mondo lasciando ai margini la Cina, non saranno in grado di mantenersi. Se noi teniamo presente quando detto, potremmo cominciare a plasmare, progressivamente, un mondo più equilibrato di quello attuale, troppo instabile e imprevedibile. Gli interessi a lungo termine degli Stati Uniti si reggono fondamentalmente sul rafforzamento dei legami che noi abbiamo con la Cina, e non sulla brutale rottura con questi ultimi per conseguire un’eventuale vittoria a breve termine.»

Come i mondialisti hanno creato la Cina moderna

La «rivoluzione popolare» in Cina era tanto fasulla quanto le «rivolte spontanee» finanziate da Soros e dalla NED in Europa dell’est e in Africa del Nord. Non è questo il luogo per analizzare in quale maniera gli USA abbiano mandato in rovina Chiang Kai-Shek, né in quale maniera Taiwan abbia mantenuto nel corso dei decenni un sistema economico autenticamente autarchico sotto il regime di Chiang, esaminiamo brevemente attraverso quale mezzo le oligarchie si sono assicurate la partecipazione della Cina al sistema economico mondiale. In un racconto storico ufficiale del Consiglio sulle relazioni estere ( Council on Foreign Relations), Peter Grose spiega:

«Il Consiglio si è seriamente interrogato sul problema rappresentato dalla Cina comunista degli anni Sessanta. Diverse pubblicazioni del Consiglio avevano cominciato a sviluppare l’idea di una politica «delle due Cine » – il riconoscimento congiunto del governo nazionalista di Taiwan e del governo comunista sul continente. Gli autori del Consiglio hanno suggerito che questa strategia non poteva funzionare. Il professore A. Doak Barnett ha pubblicato un libro precursore per il Consiglio nel 1960, La Cina comunista e l’Asia. Uno studio maggiore del Consiglio riguardante le relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina esce nel 1964, l’anno in cui la Cina fece esplodere la sua prima bomba nucleare; il gruppo si riunì in maniera sistematiche nel corso dei quattro anni successivi. “Accontentarsi di avere con i cinesi relazioni che sono a un punto morto non è dare prova di senso politico”, dichiarò Robert Blum dell’Asia Society, primo direttore del progetto. «L’impazienza statunitense e l’incandescente emotività politica impediscono spesso di meglio pianificare la nostra politica in maniera perserverante ma flessibile”. (6)

Robert Blum, analista per la Cina del CFR, è stato menzionato come un eminente rappresentante dell’Asia Society. Questa fu fondata nel 1956 da John D. Rockefeller III e rimane un punto di riferimento fondamentale per ciò che riguarda il mantenimento delle relazioni economiche e diplomatiche tra la Cina e le grandi aziende.

Taiwan rappresentava un problema per i mondialisti, dato che gli USA avevano garantito la sicurezza della Repubblica.

Di conseguenza il CFR elabora une soluzione facendosi promotore della «politica delle due Cine» che in pratica significava abbandonare Taiwan senza che questo risulti troppo evidente. Questa «politica delle due Cine», progettata gli anni precedenti in seno al CFR con l’obiettivo di assicurarsi l’ammissione della Cina rossa tra le Nazioni Uniti e di mettere Taiwan in panchina. La strategia del CFR consisteva in una promozione graduale del regime Mao, andando di pari passo con il raffreddamento di quelle «ebollizioni emotive» che favorisse il collegamento con la Cina. Grose ha spiegato l’atteggiamento del CFR nei riguardi della Cina:

«Questo era lo stallo politico che il CFR, libero da vincoli elettorali o di parte, doveva risolvere. A metà cammino del progetto, il Consiglio pubblicò uno studio sull’opinione pubblica intitolata Il popolo americano e la Cina di A.T. Stelle, che arrivava alla conclusione inattesa che gli statunitensi erano più inclini dei loro rappresentanti ad avere nuove relazioni con la Cina. Questo studio sosteneva che era solo in seguito a un’ondata continua di dichiarazioni ostili che gli statunitensi erano «disposti a credere il peggio sulla Cina comunista e loro il peggio di noi».

Il CFR ha ribattezzato la cosiddetta «opinione pubblica» in «comunità internazionale». Il resoconto del CFR indica che erano convinti che così il pubblico sarebbe stato più bendisposto verso una politica procinese e all’abbandono di Taiwan. Grose prosegue :

« Nel 1969 il Consiglio fece un compendio del progetto con il titolo Gli Stati Uniti e la Cina negli affari del mondo, la pubblicazione arrivò proprio mentre Richard Nixon, nemico dichiarato e di lunga data, diventava presidente degli USA. (Qualche mese più tardi, Nixon stesso avrebbe scelto Foreign Affairs per fare il suo forum dedicato allo studio approfondito per uno sguardo nuovo dell’Asia in generale e della Cina in particolare). Dovendo affrontare lo stallo, il progetto del Consiglio tracciò i contorni della politica delle due Cine. Questa politica raccomandava il consenso sull’appartenenza della Cina continentale alle Nazioni Uniti e affermava che gli Stati Uniti dovevano “rinunciare alla chimera di un regime nazionalista come governo ufficiale della Cina.” »

Grose conclude citando Kissinger e Cyrus Vance per il lavoro svolto in favore dell’apertura della Cina rossa che ha potuto iniziare così il processo che l’ha portata a diventare una potenza mondiale:

«Kissinger, come consigliere di Nixon in materia di sicurezza nazionale, partì per una missione segreta verso Pechino nel 1971, al fine di stabilire un contatto ufficiale di natura esplorativa con il regime comunista. Nixon in persona prese lo stesso cammino nel 1972. Il delicato processo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e la Cina approdò nel 1978, attraverso l’intervento del successore di Kissinger alla carica di segretario di Stato, Cyrus R.Vance, membro di primo piano del Consiglio prima e dopo il suo passaggio agli affari di Stato.»

Ora, è giunto il tempo che i mondialisti paghino il conto. Xi si è recato a Davos con la sua buona novella mondialista, ma una linea di demarcazione è stata tracciata dalle allusioni di Trump nei confronti della Cina e della mondializzazione. Il signor Xi ribadisce la sua approvazione affinché la Cina prenda il suo posto alla testa del processo di mondializzazione. È la situazione che i Rockefeller, i Soros e Goldman Sachs e i circoli trilaterali hanno a lungo auspicato in America, Asia ed Europa.

La Cina ha applicato il modello liberale dello sviluppo economico dell’Occidente. Non c’è alcuna contraddizione tra il liberismo e l’autoritarismo politico. Si è visto con l’avvento della Francia giacobina del 1789 con quale alacrità le democrazie liberali siano ricorse alle bombe e alle armi in nome dei «diritti dell’uomo». Ciò che conta per i mondialisti occidentali è che la Cina si «riformi». Questa riforma è stata condotta speditamente durante i decenni, affinché la Cina potesse raggiungere gli USA al rango dell’egemonia mondialista; ecco corrispondere le parole ai fatti. Dall’altro lato, ciò che l’oligarchia vuole dalla Russia è assai differente: un «cambiamento di regime». Non è possibile lasciare la Russia tranquilla, tanto più che lei non è addomesticabile. La Cina rappresenta per la Russia una porta secondaria verso la mondializzazione. La relazione russo-cinese sembra aver avvantaggiato la Cina, a spese della Russia. Conviene tener presente che il modello dei BRICS era un’idea lanciata da Goldman Sachs.

Tutto molto importante ma poco conosciuto, il modello liberale di sviluppo economico del mondo occidentale adottato dalla Cina è il prodotto di una civiltà che si avvia alla decadenza. La Cina ha accettato una trasfusione da un organismo malato.

Il modello economico liberale si accompagna a elementi di degenerazione morale e culturale. Il carattere politicamente autoritario della Cina ha tentato di minimizzare queste ripercussioni. Gli imperatori, attraverso i millenni, hanno tentato di accomodare le influenze straniere alla complessità della cultura cinese. Sono stati capaci di preservare il nocciolo della tradizione cinese, a dispetto dei cambi dinastici, la civiltà cinese si è perpetuata. Mao ha schierato le Guardie rosse nel corso della Rivoluzione culturale, in un tentativo febbrile di annientare questa consuetudine. Recentemente, il regime cinese ha cercato di ravvivare alcune tradizioni confuciane e taoiste della Cina. Resta da sapere se si tratta di un tentativo di strumentalizzare la tradizione al fine di consolidare l’autorità del regime. La Cina di oggi deve affrontare alcuni seri problemi legati all’aumento crescente del numero dei divorzi, fatto del tutto nuovo rispetto al passato; a questo problema si aggiungono il frazionamento urbano, l’invecchiamento della popolazione e altre complicazioni proprie di una civiltà che attraversa un ciclo di decadenza. Bisogna inoltre aggiungere i problemi che comporta un’economia di mercato, quali inquinamento e impoverimento del suolo. La Cina è, per riprendere l’espressione che i maoisti si compiacevano di usare per qualificare gli Stati Uniti, «una tigre di carta».

 

Kerry Bolton

Fonte: http://lesakerfrancophone.fr

Link: http://lesakerfrancophone.fr/lagenda-mondialiste-de-la-chine

16.01.2017

 

Traduzione dal francese a cura di VOLLMOND

 

  1. China; Xi to promote globalization at Davos, not war and poverty’, Reuters, 11 January 2017; http://www.cnbc.com/2017/01/11/chinas-xi-to-promote-globalization-at-davos-not-war-and-poverty.html.
  2. MBIE launches investigation into Chinese steel dumping’, Stuff Business Day, 23 December 20156; http://www.stuff.co.nz/business/87920079/MBIE-launches-investigation-into-Chinese-steel-dumping.
  3. China, Grappling With Trump, Turns to “Old Friend” Kissinger’, Bloomberg News, 2 December 2016, https://www.bloomberg.com/news/articles/2016-12-02/china-grappling-with-trump-turns-to-old-friend-kissinger
  4. Former Hillary backer Henry Paulson hails Trump’s choice for treasury’, Newsmax, 30 November 2016; http://www.newsmax.com/John-Gizzi/john-gizzi-paulson-supports-steven-mnuchin/2016/11/30/id/761489/
  5. Nathan Gardels, ‘Brzezinski: America’s Global Influence Depends On Cooperation With China’, The World Post, Huffpost, 23 December 2016; http://www.huffingtonpost.com/entry/zbigniew-brzezinski-america-influence-china_us_585d8545e4b0d9a594584a37
  6. Peter Grose, Continuing The Inquiry: The Council on Foreign Relations from 1921 to 1996, New York, Council on Foreign Relations, 2006; ‘ ‘X’ Leads the Way’; http://www.cfr.org/about/history/cfr/index.html)
  7. R. Bolton ‘BRICS development bank an instrument for globalization’, Foreign Policy Journal, http://www.foreignpolicyjournal.com/wp-content/uploads/2015/07/150714-BRICS-Development-Bank-KR-Bolton.pdf
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