HOLLYWOOD E IL PASSATO (SPIELBERG VS TARANTINO)

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DI GILAD ATZMON

counterpunch.org

Si pensa comunemente che la storia sia un tentativo di produrre un racconto strutturato del passato. La storia ha il compito di trasmetterci fatti realmente accaduti, ma nella maggior parte dei casi non lo porta a termine. In realtà, tale disciplina è concepita per celare la nostra vergogna, per adombrare i vari elementi, eventi, incidenti e avvenimenti che non abbiamo saputo affrontare in passato. La storia, quindi, può essere considerata come un meccanismo di dissimulazione.
Di conseguenza, il ruolo dello storico vero e proprio è simile a quello dello psicoterapeuta: entrambi mirano a svelare ciò che è represso. Lo psicoterapeuta agisce sull’inconscio. Lo storico, invece, si occupa del nostro disonore collettivo.
Eppure, quanti storici eseguono tale compito? Quanti storici sono abbastanza coraggiosi da aprire il Vaso di Pandora? Quanti storici sono abbastanza impavidi da affrontare veramente la storia ebraica? E quanti osano chiedere perché proprio gli ebrei? Perché sono gli ebrei che soffrono di volta in volta? Sono forse i goyim che hanno un innato istinto omicida o la cultura e il collettivismo ebrei li scombussolano?

Tuttavia, la storia ebraica è ovviamente lungi dall’essere la sola ad avere un passato burrascoso: chiunque ha avuto vicissitudini alquanto problematiche. Dopo un decennio di lotte i palestinesi possono dare una spiegazione al fatto che, improvvisamente, la loro capitale è diventata un porto di ONG finanziate principalmente dalla società aperta di George Soros? I britannici non possono guardarsi allo specchio, una volta per tutte, e dire a loro stessi come mai, nei loro Musei Imperiali della Guerra, hanno allestito una mostra dell’Olocausto dedicata alla distruzione degli ebrei? Non è che i britannici dovrebbero essere un tantino più coraggiosi e farsi un esame di coscienza per tutte le Shoah che hanno inflitto agli altri? Casomai non trovassero alcuna ispirazione, hanno a disposizione una lista mostruosamente lunga.

Il «The Guardian» contro Atene

Il passato è come un oceano burrascoso, poiché può riportare alla luce storie scomode. Solo per questo si può spiegare il fatto che lo storico vero e proprio viene spesso presentato in veste di nemico pubblico. Tuttavia, la Sinistra ha messo a punto un metodo accademico per arginare il problema. Lo storico “progressista” redige un racconto “politicamente corretto” e “inoffensivo” del passato. Zigzagando con maestria, si fa largo tra i concetti, seppur pagando i propri debiti ai fatti che cela e producendo infinite deviazioni ad hoc che lasciano intatti gli avvenimenti “omessi”. Il soggetto progressista presenta un resoconto del passato privo di “oltraggi” e di “essenza”, a spese del cosiddetto “reazionario”. Il «The Guardian» è un emblema di questo tipo di approccio: da sempre proibisce qualsiasi critica alla cultura ebraica o all’ebraismo, eppure mette a disposizione una piattaforma televisiva a due rabbini sionisti, cosicché questi possano discutere della cultura araba e dell’islamismo. Al «The Guardian» non importa affatto se va contro gli ideali degli “islamici” o dei “nazionalisti” britannici, seppur presti sempre molta attenzione a non ferire la sensibilità degli ebrei. Una tale versione della politica o del passato non lascia penetrare nessuno spiraglio di verità, coerenza, consistenza o integrità. L’approccio progressista è infatti lungi dall’essere “il guardiano della realtà”, ma è concepito per essere il “guardiano del discorso”, e qui mi riferisco, in particolare, a quello della Sinistra.

Tuttavia, vi è senz’altro un’alternativa all’approccio del passato di tipo “progressista”. Il vero storico è, in realtà, un filosofo, un seguace dell’essenzialismo, un pensatore che si pone la domanda: “che cosa significa vivere nel mondo e cosa implica vivere tra le altre persone?”. Il vero storico va al di là del singolo, dello specifico e del personale. Questo, o questa, è alla ricerca delle condizioni di possibilità di ciò che determina il nostro passato, presente e futuro. Il vero storico scava nei concetti di Essere e Tempo, cercando di estrarne una lezione umanistica e un discernimento etico seppur esaminando la poesia, l’arte, la bellezza, la ragione ma anche la paura. Il vero storico è un essenzialista che riporta alla luce ciò che era celato, poiché egli sa che il nucleo della verità è ciò che è stato omesso.

Leo Strauss ci fornisce una prospettiva molto utile a riguardo. Egli sostiene che la civiltà occidentale oscilli tra due poli intellettuali e spirituali: Atene e Gerusalemme. Atene: culla della democrazia, della ragione, filosofia, arte e scienza. Gerusalemme: patria di Dio e luogo in cui prevale la legge divina. Il filosofo, o per meglio dire il vero storico o l’essenzialista, peraltro, è ovviamente l’ateniese. Il gerosolimitano, in questo caso, è il “guardiano del discorso”, fa il portinaio solo per mantenere l’ordine pubblico a spese della poesia, dell’estasi, della bellezza e della verità.

Spielberg contro Tarantino

Hollywood ci fornisce una visione d’insieme dell’oscillazione tra Atene e Gerusalemme che si gioca tra il “guardiano del discorso” gerosolimitano e il concorrente ateniese, ossia il nemico pubblico, l’“essenzialista”. A sinistra c’è il genio “progressista”, Steven Spielberg. A destra, invece, vi è la poesis stessa, l’“essenzialista”: Quentin Tarantino.

Spielberg ci fornisce la più recente epopea storica ritoccata. Gli avvenimenti vengono scelti con la massima accuratezza solo per portare alla luce un racconto pseudo etico e premeditato che sia in grado di mantenere la virtuosità del discorso nonché l’ordine pubblico ma, cosa principale, l’importanza primaria della sofferenza ebraica (vedi Schindler’s List e Munich). Spielberg dà vita ad un’epica grandiosa con una chiara retrospettiva del passato. La tattica di Spielberg, nella maggior parte dei casi, è abbastanza semplice. Questa è l’evidente giustapposizione di contrari, vivida e semplice: nazisti contro ebrei, israeliani contro palestinesi, nord contro sud, rettitudine contro schiavitù. In qualche maniera, sappiamo sempre in anticipo quali sono i buoni e quali i cattivi. È chiaro fin da subito da che parte dobbiamo schierarci.

L’opposizione binaria è senz’altro una strada sicura. Fornisce una chiara distinzione tra il “kasher” e lo “sbagliato”. Tuttavia, Spielberg è lungi dall’essere mentalmente banale. L’oscillazione è calcolata fin nei minimi dettagli ed è frutto d’una profonda ponderazione. Concederebbe ad un solo nazista di appartenere ad una famiglia affabile. Saltuariamente, lascerebbe che nella sua storia ci fosse un palestinese che perde la vita. Tutto ciò è possibile dal momento in cui non intacca il filo rosso del discorso, del quale Spielberg è un arciguardiano. Inoltre, dato che è un maestro nella sua arte, riesce a trattenere gli occhi dei propri spettatori incollati allo schermo almeno per i novanta minuti di un cocktail cinematografico con un guazzabuglio di fatti al posto degli ingredienti. L’unica cosa da fare è seguire il racconto fino alla fine. Sarà allora che il messaggio etico predigerito verrà posto al centro dell’universo vanitoso e narcisistico dello spettatore.

Diversamente da Spielberg, Tarantino non è interessato ai fatti, anzi, ripugna la storicità. Tarantino potrebbe anche sostenere che le nozioni di “messaggio” o di moralità siano sopravvalutate. Tarantino è un essenzialista che ripone un profondo interesse nella natura umana e nell’Essere, e pare che sia particolarmente affascinato dalla vendetta e dalla sua universalità. Per ovvie ragioni, il suo improbabile film Inglorious Bastards fa luce sull’attuale sete di sangue collettiva israeliana come fosse stata scoperta al tempo dell’operazione “Piombo fuso”. La creazione cinematografica romanzata di un commando ebraico vendicativo e sanguinario del secondo conflitto mondiale serve a far luce sull’attuale realtà devastante delle lobby ebraiche con un ardente desiderio di violenza e alla continua ricerca di una guerra mondiale contro l’Iran e oltre. Tuttavia, anche Inglorious Bastards dovrebbe suscitare l’interesse del pianeta dato che, a partire dall’11 settembre, l’«occhio per occhio» del Vecchio Testamento è diventato una componente primaria della politica angloamericana.

Abele contro Django

Lo scontro tra il gerosolimitano Spielberg e l’ateniese Tarantino potrebbe sembrare spirituale, invece è evidente nelle loro ultime opere.

La storia della schiavitù americana è un tema scottante per ovvie ragioni, e moltissimi aspetti del periodo storico in questione non sono stati tuttora svelati. Ancora una volta, Spielberg e Tarantino sono riusciti a produrre due racconti totalmente differenti dello stesso avvenimento storico.

L’epopea Lincoln, l’ultima produzione di Spielberg, vede Abramo Lincoln nei panni di un neoconservatore “interventista morale” che, andando contro ogni (probabilità) politica, abolì la schiavitù. Immagino che Spielberg conosca abbastanza la storia americana per capire che il suo racconto cinematografico è un chiarissimo tentativo zigzagante, dato che la campagna politica antischiavitù era un semplice pretesto per avviare una guerra sanguinaria dettata da obiettivi chiaramente economici.

Ovviamente, Spielberg aggiunge del piccante al suo racconto con qualche genuino aneddoto storico. È così che paga i debiti necessari per nascondere la vergogna sotto il tappeto. Il suo Lincoln è apprezzato in quanto eroe della fratellanza umana guidato dalla moralità. Il racconto nella sua interezza porta i sintomi dell’assalto contemporaneo della lobby AIPAC al Congresso americano. Per essere uno degli arciguardiani del discorso, Spielberg ha compiuto egregiamente il suo lavoro. Ha aggiunto uno strato cinematografico essenziale per assicurarsi che la vera vergogna americana rimanga fortemente nascosta o forse, dovremmo dire, intatta.

È inutile menzionare che la rappresentazione di Lincoln concepita da Spielberg è stata acclamata dalla stampa ebraica. Nella rivista online «The Tablet Magazine» il presidente è stato soprannominato Avraham Lincoln Avinu (nostro padre, in ebreo). “Avraham”, secondo il «Tablet», è un vero e proprio buon ebreo. «Come è stato concepito da Spielberg e Kushner, il Lincoln di Lincoln è il sommo mensch. Ha delle doti naturali di psicologia e di interpretazione dei sogni. Inoltre, è un uomo straordinariamente intelligente con un’acutezza mentale predisposta per le discipline legali.» In poche parole, il ritratto di Lincoln composto da Spielberg è un Abele in cui si uniscono le abilità, i tratti distintivi e i doni di Mosè, di Freud nonché di Alan Dershovitz. Tuttavia, alcuni ebrei hanno criticato il film. “In quanto storico americano ebreo,” scrive Lance Sussman, “credo di dover affermare che sono rimasto piuttosto deluso dall’ultima produzione di Spielberg. Molto di ciò che vi è contenuto è positivo, tuttavia sarebbe stato ancora meglio se avesse inserito almeno un ebreo nel film, da qualche parte.”

Immagino che Spielberg abbia qualche difficoltà ad accontentare tutti. Quentin Tarantino, tuttavia, non ci prova nemmeno, anzi, fa tutto il contrario. Con un racconto fantastico senza alcun interesse nei confronti di alcun tipo di veridicità storica o per quanto riguarda l’attenersi ai fatti, nel suo ultimo capolavoro Django Unchained, egli riesce a riportare alla luce i segreti più oscuri della Schiavitù. Elimina ciò che è occultato e, a giudicare dalla reazione di un altro genio cinematografico, Spike Lee, è riuscito a scavare abbastanza a fondo. Fa scendere in campo uno spettacolo stilistico sullo stile del Western e Tarantino riesce a scavare sotto ogni aspetto che solitamente ci consigliano di lasciare intatto. Abborda i concetti di determinismo biologico, di supremazia dell’uomo bianco e della crudeltà. Tuttavia, orienta la prospettiva anche sulla sottomissione, subordinazione e collaborazione degli schiavi. Il regista “ateniese” ha concepito una serie di personaggi ad immagine e somiglianza degli dei della mitologia greca. Django (impersonato da Jamie Fox), è un turbolento re della vendetta e Schultz (Christopher Waltz), un dentista tedesco che si ritrova a fare il cacciatore di taglie, è il maestro della perspicacia, della gentilezza e dell’umanità, ed ha un dente del giudizio gigante e scintillante posto sul tettuccio della propria roulotte. Calvin Candie (Leonardo DiCaprio) è il Padrone hegeliano (razzista) e Stephen (Samuel L. Jackson) è il Servo hegeliano. Quest’ultimo risalta in quanto personificazione della trasformazione sociale. Da un certo punto di vista, il rapporto tra Candie e Stephen potrebbe essere visto come una delle riprese cinematografiche più profonde e sovversive sulla dialettica servo-padrone di Hegel.

Secondo la dialettica di Hegel, è possibile arrivare all’autocoscienza solamente attraverso un confronto. Nel film Django Unchained, sembra che lo schiavo Stephen trasmetta una massima forma di subordinazione, tuttavia questa non è altro che un’apparenza. In realtà, Stephen è di gran lunga più sottile e osservatore rispetto al padrone Candie. Questa è proprio l’immagine dell’ascesa sociale. È difficile affermare se Stephen sia un collaboratore o se in realtà è proprio lui che manda avanti la baracca. Eppure, nell’ultimo film di Tarantino, la dialettica di Hegel è, in qualche modo, divisa in rigidi schemi. Quando viene svincolato dalle catene, Django è chiaramente impenetrabile dalla dialettica Hegeliana. La sua liberazione accidentale attiva in lui un sentimento implacabile di resistenza. Una volta affrancato, infatti, uccide il Padrone, lo Schiavo e chiunque gli si presenti davanti. Inoltre, distorce le regole, comprese quelle della natura (determinismo biologico). Nel momento in cui il racconto termina, Django si lascia alle spalle il relitto della piantagione di Candie, simbolo cinematografico del Sud agonizzante nonché della “Dialettica schiavo-padrone”. Eppure, quando Django cavalca verso il sole nascente con sua moglie Broomhilda von Shaft (interpretata da Kerry Washington), anch’essa libera, si fa largo una sorta di fantasia cinematografica quasi inverosimile. Nel mondo reale, ossia al di fuori del cinema, la piantagione di Candie sarebbe rimasta intatta con ogni probabilità e Django sarebbe stato di nuovo incatenato. In pratica, Tarantino mette a punto una cinica giustapposizione del sogno, che coincide con la realtà cinematografica, e la realtà che già conosciamo. Così facendo, riesce ad illuminare nel profondo lo squallore in cui è intrappolata la condizione umana e in particolare per quanto riguarda la realtà dei neri negli Stati Uniti.

Tarantino, senz’altro, non è un “guardiano del discorso”. È piuttosto l’opposto, ossia l’acerrimo nemico dell’immobilità. La sua ultima rappresentazione, riprendendo lo stesso stampo delle sue opere precedenti, costituisce un assalto essenzialista della correttezza e dell’”amor proprio”. Tarantino, infatti, esegue un profondo lavoro di ricerca, aprendo il Vaso di Pandora. Sebbene sia un devoto “ateniese”, non intende dare una singola risposta o una lezione morale. Ci lascia allo stesso tempo perplessi e lieti. Immagino che per Tarantino il dilemma stia al centro dell’esistenzialismo. Spielberg, d’altro canto, fornisce tutte le risposte necessarie. Dopotutto, all’interno del discorso “progressista” e politicamente corretto, vi sono già le risposte che determinano in maniera retrospettiva quali siano le domande che siamo autorizzati a porre.

Se Leo Strauss ha ragione e la civiltà occidentale dovesse essere vista come un’oscillazione tra Atene e Gerusalemme, è necessario essere sinceri: ci vorrebbero molti più ateniesi con le loro riflessioni essenzialiste. In poche parole, abbiamo un disperato bisogno di un esercito di “Tarantini” che contrasti Gerusalemme e i suoi ambasciatori.

Gilad Atzmon
Fonte: www.counterpunch.org
Link: http://www.counterpunch.org/2013/02/15/hollywood-and-the-past/
15.02.2013

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ELISA BERTELLI

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