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DI MICHAEL SCHWARTZ

TomDispatch.com

Gli eventi in Iraq fanno notizia ovunque e ancora una volta non viene mai citata la vera questione alla base di tutta questa violenza: il controllo del petrolio iracheno. I media, invece, sono inondati di dibattiti sugli orrori commessi e su un’analisi approfondita di una minaccia terroristica che non suona affatto nuova, lo Stato Islamico d’Iraq e Siria (ISIS). Si trovano, inoltre, elaborate discussioni sulla possibilità di una guerra civile che minaccia sia un nuovo ciclo di pulizia etnica sia il crollo del combattuto governo del Primo Ministro Nouri al-Maliki.

Sono in corso, infatti, “una serie di rivolte urbane contro il governo”, come le ha definite l’ esperto di Medio Oriente Juan Cole. Attualmente sono limitate alle zone sunnite del paese e hanno un carattere spiccatamente settario, che è il motivo per cui gruppi come ISIS riescono prosperare e addirittura assumere un ruolo di leadership in diverse zone.

Queste rivolte, tuttavia, non sono state né create ne sono controllate da ISIS e dalle sue migliaia di combattenti. Ne sono anche coinvolti ex-baathisti e fedelissimi di Saddam Hussein, le milizie tribali e molti altri. E anche se in forma appena accennata, queste rivolte non sono limitate esclusivamente alle zone sunnite. Come riportava la settimana scorsa il New York Times, l’industria petrolifera è “preoccupata che i disordini possano diffondersi” a sud nella città sciita di Bassora, “dove sono concentrati i principali giacimenti di petrolio dell’Iraq e gli impianti per l’esportazione”.

Sotto l’oceano ribollente di malcontento sunnita c’è un fattore che viene ignorato. Gli insorti non insorgono solo contro l’oppressione di un governo a maggioranza sciita di Baghdad e contro le sue forze di sicurezza, ma anche contro chi controllerà e beneficerà di ciò che Maliki, parlando al Wall Street per conto della maggior parte dei suoi elettori, ha definito “patrimonio nazionale” dell’Iraq.

LO SMANTELLAMENTO DELL’IRAQ DI SADDAM HUSSEIN

Qualcuno ricorda come appariva l’Iraq una dozzina di anni fa, quando Saddam Hussein governava ancora il Paese e gli Stati Uniti si apprestavano ad invadere?

Da un lato, gli iracheni, prevalentemente sciiti e curdi, oppressi sotto il tallone di ferro di un dittatore – che potrebbero aver ucciso 250,000 persone di quel popolo durante i suoi 25 anni di regno. Hanno anche dovuto lottare contro le privazioni causate dalle sanzioni imposte dagli Stati Uniti che da sole causarono, secondo alcune stime, la morte di 500,000. bambini.

Dall’altro lato c’erano nel paese un certo numero di industrie di successo orientate all’esportazione, pelletteria e prodotti agricoli, come i datteri, che offrivano lavoro a imprenditori e a centinaia di migliaia di lavoratori relativamente ben pagati. Il paese aveva anche buone infrastrutture elettriche e idriche e una efficiente rete stradale (che però, a causa delle sanzioni, andò gradualmente deteriorandosi). Inoltre, il paese vantava il primato di “miglior paese dell’area” per sistema educativo e di assistenza sanitaria gratuita nel Medio Oriente. In una nazione di 27 milioni di persone, l’Iraq aveva, rispetto agli altri paesi dell’area, una classe media più corposa che contava ben 3 milioni di persone, principalmente impiegati governativi.

Tutti questi vantaggi e benefici provenivano da una sola fonte: 2,5 milioni di barili di petrolio che l’Iraq produceva ogni giorno. Il reddito giornaliero dalla vendita del “patrimonio nazionale” sosteneva dal basso la sovrastruttura economica del paese. In realtà, il bilancio petrolifero del governo era così ampio che consentì a Saddam Hussein di possedere diversi edifici, arricchire tutti i suoi parenti ed alleati e finanziare le varie guerre, sia in altri paesi che con i curdi e gli sciiti iracheni.

Questa miscela di oppressione e di prosperità terminò con l’invasione degli Stati Uniti. Nonostante le assicurazioni che non avrebbero mai messo le mani sul patrimonio iracheno, l’amministrazione Bush si buttò a capofitto sui proventi del petrolio, dirottandoli dall’economia locale e convogliandoli nel “pagamento del debito” e ben presto nella “campagna di pace”. Nonostante le promesse di Washington che, sotto l’occupazione americana, la produzione sarebbe salita a sei milioni di barili al giorno, la lotta per assumere il controllo della produzione di energia, sfilandolo dalle mani irachene, finì per paralizzare l’industria e ridurre la produzione del 40%.

In realtà, il governo di occupazione fu un vortice di disastro economico. Ben presto s’iniziò a smantellare tutti gli impianti industriali gestiti dal governo (e sovvenzionati dal petrolio), mandando in bancarotta tutte le industrie private che dipendevano da questi. Fu devastata l’agricoltura commerciale, sempre con la sospensione delle sovvenzioni dell’era di Saddam Hussein finanziate dal petrolio e con attacchi aerei sugli insorti nelle zone rurali. Furono imposte nel paese misure di austerità e fu avviato un programma di “de-Baathificazione” nei sistemi educativi e sanitari del paese.

Poiché la maggior parte degli iracheni che occupavano posizioni di rilievo dovevano necessariamente appartenere al partito Baath di Saddam, tutto questo si rivelò un disastro per i professionisti della classe media, la maggioranza dei quali si trovarono senza lavoro o esiliati in paesi vicini. Dal momento che erano loro che gestivano tali sistemi, e in condizioni sempre più estreme, l’effetto sulla gestione dell’elettricità, dell’acqua e delle infrastrutture stradali, fu disastroso. Si aggiungano a questo gli effetti dei bombardamenti e la privatizzazione dei servizi di manutenzione ed ecco prodursi un disastro a lungo termine.

Quando, nel 2009, l’amministrazione Obama iniziò a ritirare le truppe da combattimento statunitensi, gli iracheni di tutto il paese – ma soprattutto delle zone sunnite – si ritrovarono con il 60% di disoccupazione, servizio elettrico discontinuo, sistemi idrici avvelenati, sistema educativo discontinuo, sistema sanitario disfunzionale e mancanza di mezzi pubblici o privati essenziali. Pochi occidentali ricordano che, nel 2010, Maliki fondò la sua campagna elettorale sulla promessa di porre rimedio a questi problemi, aumentando la produzione del petrolio – ancora questo numero – a 6 milioni di barili al giorno. Dato che la produzione esistente era più che sufficiente per far funzionare il governo, praticamente tutte le maggiori entrate potevano essere utilizzate per ricostruire le infrastrutture del paese, rilanciare il settore pubblico e riabilitare tutti i servizi pubblici, le industrie ed il settore agricolo.

LA CORROTTA EREDITÀ DELL’OCCUPAZIONE STATUNITENSE

Nonostante la sua evidente propensione sciita, i sunniti hanno voluto dare a Maliki il tempo per mantenere le sue promesse elettorali. Per alcuni aumentarono le speranze, quando furono messi all’asta i contratti di servizio ad imprese petrolifere internazionali con l’obbiettivo di portare la produzione di energia ai famosi 6 milioni di barili entro il 2020. (Alcuni, tuttavia, hanno visto questa mossa come una svendita del patrimonio nazionale). Molti iracheni si sentirono rassicurati quando la produzione di petrolio iniziò a risalire: nel 2011 si raggiunse finalmente il livello dell’era/Hussein di 2,5 milioni di barili al giorno, e nel 2013 la produzione superò i 3,0 milioni di barili giornalieri.

Questi aumenti alimentarono le speranze in un reale avvio della ricostruzione del paese. I prezzi del petrolio erano stabili intorno a poco meno di 100 dollari al barile; i proventi del petrolio del governo più che raddoppiati,, passando da circa $ 50 miliardi nel 2010 a più di $ 100 miliardi nel 2013.

Solo questo aumento, se distribuito tra la popolazione, avrebbe costituito una manna di 10.000 $ di sovvenzione per ognuna dei 5 milioni di famiglie irachene. Avrebbe, inoltre, rappresentato un acconto promettente del ripristino dell’economia irachena e dei suoi servizi sociali. (L’impianto elettrico, ad esempio, necessita di decine di miliardi di dollari di nuovi investimenti solo per ripristinare i livelli precedenti alla guerra, in ogni caso inadeguati).

Ma dal cielo non scese alcuna di queste ricchezze petrolifere, soprattutto nelle zone sunnite del paese, dove non si vedeva segno alcuno di ricostruzione, di nuovo impulso economico, di ristrutturazione dei servizi e di nuovi posti di lavoro. Al contrario, le enormi entrate petrolifere scomparvero tra i meandri di un governo che Transparency International ha definito come il settimo tra i governi più corrotti dell’intero pianeta.

LA PRETESA DI UNA PARTE DEL PATRIMONIO NAZIONALE

Ecco, quindi, dove entra in gioco il petrolio iracheno o dove, comunque, entra in gioco l’assenza dei suoi proventi. Comunità di tutto il paese, soprattutto dalle martoriate zone sunnite, hanno iniziato a chiedere finanziamenti per la ricostruzione, sostenuti principalmente dai governi locali e provinciali. In risposta, il governo Maliki ha categoricamente escluso di voler destinare eventuali entrate petrolifere per tali richieste, scegliendo invece di denunciarle come un tentativo di deviare i fondi del governo da imperativi di bilancio più urgenti. Un esempio: decine di miliardi di dollari per l’acquisto di forniture militari, tra cui, nel 2011, 18 jet F-16 dagli Stati Uniti per $4 miliardi. In un raro momento di ironica intuizione, la rivista Time ha concluso il suo articolo sull’acquisto degli F-16 con questo commento : “La buona notizia è che l’accordo consentirà di mantenere in vita ancora per un anno lo stabilimento Lockeed – F-16 di Fort Worth. La cattiva notizia è che solo il 70% degli iracheni ha accesso all’acqua pulita e solo il 25% e ai servizi igienici”.

Per onestà nei confronti di Maliki, il suo governo ha effettivamente utilizzato una parte dei nuovi proventi del petrolio per iniziare a ristabilire le agenzie governative e le istituzioni di servizi sociali distrutte; tuttavia tutti i nuovi posti di lavoro sono stati dati ai cittadini sciiti delle aree sciite, mentre i sunniti hanno continuato ad essere esclusi dalle nuove occupazioni governative. Questa mancanza di lavoro – e quindi, questa mancanza di soldi dal petrolio – è stata determinante per la rivolta sunnita. Come ha scritto Patrick Cockburn del quotidiano britannico The Independent, “La gente sunnita è stata esclusa dalle nuove occupazioni perché i fondi pubblici sono stati spesi altrove e, in alcuni casi, è stata licenziata su due piedi e senza ricevere alcun indennizzo o vitalizio, per il fatto di aver aderito per tanti anni al partito Baath”. A un insegnante sunnita con 30 anni di esperienza un giorno hanno infilato sotto la porta di casa un biglietto in cui gli si chiedeva di non venire più al lavoro alla sua scuola, perché era stato licenziato proprio per questo motivo. “Che posso fare? Come faccio ora a mantenere la mia famiglia?” ha chiesto.”

Con le condizioni che peggioravano di giorno in giorno, le comunità sunnite si sono mostrate sempre più insofferenti, accompagnando le loro petizioni e manifestazioni presso gli uffici governativi con accesi sit-in, blocchi stradali e occupazioni di spazi pubblici come quella di Tahir Square. Maliki ha risposto intensificando gli arresti e disperdendo le manifestazioni pubbliche e, in un momento cruciale del 2013, “uccidendo decine di manifestanti”, quando le sue “forze di sicurezza hanno aperto il fuoco su un accampamento sunnito di protesta”. La repressione e la continua frustrazione nel vedere ignorate le richieste locali, non hanno fatto altro che alimentare nuove proteste e insurrezioni, quelle insurrezioni che furono la spina dorsale della resistenza sunnita durante l’occupazione americana. Quando il governo iniziò ad usare la forza, s’intensificarono gli attacchi di guerriglia nelle zone a nord e a ovest di Baghdad, l’area che gli occupanti americani avevano etichettato come “il triangolo sunnita”.

Molte di queste azioni di guerriglia erano mirate all’uccisione di funzionari governativi, polizia e – visto che aumentava la loro presenza – di soldati inviati da Maliki per reprimere le proteste. È da notare, tuttavia, che le risposte armate più incisive e meglio pianificate, hanno interessato gli impianti petroliferi. Anche se le aree sunnite dell’Iraq non sono degli importanti centri di produzione di petrolio – oltre il 90% dell’energia del paese si estrae nelle aree sciite del sud e nella regione di Kirkuk controllata dai curdi – esse ospitano comunque degli importanti obbiettivi petroliferi. Oltre a una serie di pozzi minori, il “triangolo sunnita” comprende, per quasi tutta la sua lunghezza, l’unica importante conduttura petrolifera che esce dal paese (Iraq/Turky), un’importante raffineria ad Haditha e il complesso petrolifero di Baiji, che comprende una centrale elettrica che alimenta le province settentrionali, e una raffineria da 310.000 barili al giorno che produce un terzo del petrolio raffinato del paese.

Non era una novità che i guerriglieri attaccassero gli impianti petroliferi. Alla fine del 2003, dopo che l’occupazione americana aveva interrotto il flusso delle entrate petrolifere nelle aree sunnite, i locali ricorsero a diverse strategie per fermare la produzione o l’esportazione fino a quando non sarebbero state soddisfatte le richieste di quella che sentivano come la giusta parte loro spettante dei proventi petroliferi. Dopo più di 600 attacchi, il vulnerabile oleodotto Iraq/Turkey fu reso inutilizzabile. Le strutture Baiji e Haditha occupate dagli insorti, consentirono ai leader tribali locali di ottenere fino al 20% del petrolio che fluiva da esse. Dopo che l’esercito americano assunse il controllo degli impianti all’inizio del 2007, ponendo fine a quel compromesso raggiunto, le due raffinerie divennero un costante bersaglio di attacchi paralizzanti.

Il gasdotto e le raffinerie sono tornati a funzionare regolarmente solo dopo il ritiro degli Stati Uniti dalle province di Anbar e dopo che Maliki avesse nuovamente promesso ai leader tribali locali e agli insorti (spesso erano le stesse persone) una quota di petrolio in cambio di “protezione da furti o attacchi”.

Questo accordo è durato per quasi due anni, ma quando il governo ha stretto un giro di vite sulla protesta sunnita, terminò questa “protezione”. Esaminando questi sviluppi da un punto di vista petrolifero, Iraqi Oil Report, una newsletter online del settore che offre la copertura più dettagliata sugli eventi petroliferi in Iraq, ha definito questo “un momento cruciale di deterioramento della sicurezza”, commentando che “le forze di guardia agli impianti energetici….storicamente hanno sempre fatto affidamento ad alleanze e patti locali per garantire una reale protezione”.

LOTTANDO PER IL PETROLIO

Iraqi Oil Report ha riportato diligentemente e regolarmente le conseguenze di questa situazione di “sicurezza deteriorata”. “Dallo scorso anno, quando hanno iniziato ad intensificarsi gli attacchi contro l’oleodotto (Turchia)”, la North Oil Company, responsabile della produzione nelle zone sunnite, ha registrato un calo del 50% nella produzione.

L’oleodotto è stato definitivamente interrotto il 2 marzo scorso e da allora “è stato impedito alle squadre di riparazione di accedere ai siti delle rotture”. Il 16 aprile è stato bombardato il complesso Baiji, provocando un enorme fuoriuscita che ha reso imbevibile per diversi giorni l’acqua del fiume Tigri.

Dopo “numerosi” attacchi a fine 2013, la compagnia petrolifera nazionale dell’Angola Sonangol ha invocato la clausola di “forza maggiore” nel suo contratto con il governo iracheno, abbandonando quattro anni di lavoro di sviluppo nei campi Qaiyarah e Najmah nella provincia di Ninive. Questo Aprile scorso, i ribelli hanno rapito il capo della raffineria di Haditha. Nel mese di giugno, hanno preso possesso degli impianti inattivi, dopo che le forze militari del governo l’avevano abbandonata a seguito della disfatta dell’esercito iracheno nella seconda città più grande del paese, Mosul.

In risposta a questa crescente ondata di attacchi dei guerriglieri, il regime di Maliki ha intensificato la sua repressione tra le comunità sunnite, punendole per aver “ospitato” gli insorti. Sono stati inviati sempre più soldati nelle città ritenute centri di “terrorismo”, con l’ordine di reprimere ogni forma di protesta. Nel dicembre del 2013, quando le truppe governative hanno iniziato ad usare la forza letale negli accampamenti di protesta che bloccavano le strade e gli scambi commerciali in diverse città, sono aumentati vertiginosamente gli attacchi di guerriglia armata. Nel mese di Gennaio, truppe e funzionari governativi hanno abbandonato parti delle città di Ramadi e Falluja, due città chiave del triangolo sunnita.

Questo mese, che ha visto quella che Patrick Cockburn ha definito una “sollevazione generale”, 50.000 soldati hanno ceduto le armi ai guerriglieri e lasciato Mosul ed altre città minori. Sviluppi, questi, del tutto inaspettati, come li hanno descritti la maggior parte dei canali d’informazione americani; Cockburn, invece, esprimendo il parere di molti osservatori informati, ha definito il crollo dell’esercito nelle zone sunnite “per niente sorprendente”. Come lui ed altri hanno detto, i soldati di quelle forze corrotte “non erano preparati a combattere e morire in quelle zone… poiché il loro lavoro era principalmente quelle di guadagnare soldi per mantenere le proprie famiglie.”

Il ritiro militare dalle città ha portato, seppure parzialmente, alla fine delle occupazioni degli impianti petroliferi. Il 13 giugno, due giorni dopo la caduta di Mosul, Iraq Oil Report ha osservato che la centrale e gli altri edifici del complesso di Baiji erano già “sotto il controllo delle tribù locali.” Dopo un contrattacco da parte delle forze governative, il complesso è diventato una zona contesa.

Iraq Oil Report ha definito l’attacco a Baiji da parte degli insorti come “un tentativo di dirottare una parte del flusso delle entrate da petrolio iracheno.” Se si consolida l’occupazione di Baiji, la “zona di controllo” includerà anche la raffineria di Haditha, i campi petroliferi di Qaiyarah e Hamrah, e “i corridoi infrastrutturali-chiave come l’ Iraq/Turkey Pipeline e l’ al-Fatha, una rete di installazioni che distribuiscono gas e combustibile alle zone centrali e settentrionali del paese”.
Un’ulteriore prova di questa volontà di controllare “una porzione del flusso di entrate petrolifere irachene” la possiamo riscontrare nelle prime azioni intraprese dai guerriglieri tribali, una volta conquistata la centrale elettrica di Baiji: “I militanti non hanno causato alcun danno e hanno invitato i lavoratori della centrale a continuare nel loro lavoro predisponendo tutto quanto necessario per riavviare l’impianto appena possibile”. Azioni simili sono state adottate nei campi petroliferi occupati e nella raffineria di Haditha. Anche se la situazione attuale è ancora troppo incerta per permettere un effettivo funzionamento degli impianti, l’obiettivo primario dei militanti è chiaro: stanno cercando di realizzare con la forza ciò che non poteva essere realizzato attraverso il processo politico e di protesta: la presa di possesso di una parte significativa dei proventi delle esportazioni di petrolio del paese.

E gli insorti sembrano decisi a iniziare il processo di ricostruzione che Maliki si è rifiutato di avviare. Solo pochi giorni dopo queste vittorie, l’Associated Press ha riferito che i ribelli stavano promettendo ai cittadini di Mosul e ai rifugiati rimpatriati “cibo e gas a prezzi contenuti” e che ben presto sarebbero state ripristinate le forniture alimentari e idriche e rimossi gli sbarramenti stradali. Tutto questo finanziato con 450milioni di $(denaro dal petrolio) e con lingotti d’oro che pare siano stati saccheggiati dalla Banca centrale irachena e da diverse altre banche della zona di Mosul.

Il regime oppressivo di Saddam Hussein ha incontrato infinite rivolte e insurrezioni, e quando è fallita la feroce repressione, una parte dei proventi petroliferi è stata trasferita alla popolazione in forma di nuovi posti di lavoro, servizi sociali, sovvenzioni alle industrie e all’agricoltura. L’oppressiva occupazione da parte degli Stati Uniti ha incontrato anch’essa infinite rivolte e insurrezioni, perché hanno tentato di sfruttare le enormi entrate petrolifere del paese per loro disegni di dominio in Medio Oriente. Il regime oppressivo Maliki anch’esso ora è tormentato da rivolte e insurrezioni, perché il primo ministro ha rifiutato di condividere questi proventi petroliferi con i suoi elettori sunniti.
E’ stato sempre e solo il petrolio, idioti!

Michael Schwartz è professore emerito in sociologia alla Stony Brook State University. Da tempo collabora con TomDispatch. E’ autore di svariati libri ed articoli su movimenti e insurrezioni popolari e sulle dinamiche politiche e imprenditoriali. Uno tra questi: “Una Guerra senza Fine: la Guerra in Iraq”. Il suo indirizzo di e-mail: [email protected]

Fonte: www.tomdispatch.com

Link: http://www.tomdispatch.com/blog/175860/

24.06.2014

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

Nota: questi commenti fanno parte di un report di Ben Lando e dello staff di Iraq Oil Report, la migliore fonte d’informazione in lingua inglese sulla politica, l’economia e le rivolte sociali in Iraq. Poiché tali articoli non possono essere letti senza abbonamento, non vengono qui riportati i link. Altre informazioni su petrolio e occupazione statunitense sono state tratte da “Una Guerra senza Fine: la Guerra in Iraq”.
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