Venezuela, né con Maduro né con Guaidó. A Caracas la fame, il caos, la corrente che va e viene

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DI FRANCESCA BORRI

ilfattoquotidiano.it

Maduro o Guaidó? Chi ha ragione? Di chi è la colpa, qui? Dell’imperialismo o del socialismo? Degli americani, che hanno bloccato i conti correnti del Venezuela, o del welfare, di un governo che spende, e spende e spende, ed è finito sul lastrico? Cos’è stato Chávez? Cos’è davvero questa sua rivoluzione? Una sfida al pensiero unico, o alla matematica?

Dopo tre giorni, penso una cosa sola: ho fame. Ho fame e basta. Il Venezuela ha 32 milioni di abitanti. E secondo le stime dell’Onu, 4,3 milioni hanno bisogno di acqua, 3,7 milioni di cibo. 2,8 milioni di farmaci. E 3,4 milioni sono già andati via.

In media, in Venezuela perdi 11 chili l’anno. L’hanno ribattezzata “la dieta Maduro”: e segna lo sguardo logoro dei miei coinquilini della Mision Vivienda della avenida Libertador, una delle principali vie di Caracas. Vivo qui, in uno dei complessi di edilizia popolare voluti da Chávez per i senza casa. Che all’epoca erano 2,9 milioni. Sono dodici piani. Con otto appartamenti a piano. E si conoscono tutti. Sto da Mariela Herrera, 48 anni, infermiera, e suo figlio. E in casa abbiamo un chilo di riso, mezzo chilo di farina, tre carote e un pezzo di formaggio. Ma quando tiro fuori la mia scorta di biscotti, Baleska Samivamis, che ha 44 anni e nessun lavoro e sta al piano di sopra insieme alla madre, due figli e un nipote, e in dispensa ha mezzo chilo di riso e sei pomodori, e per capire quello che dico mi legge il labiale, perché non sente, e non può più permettersi la pila dell’apparecchio acustico, propone subito di andare al sesto piano a dividerli con Eliana Benitez, 49 anni, di mestiere portinaia: che ha la sclerosi e sta per terra su un materasso, esausta, perché non può più permettersi i farmaci. Ed è costretta a scegliere, tra i farmaci e la cena. E tra i suoi farmaci e quelli per la figlia. Che ha 17 anni e il diabete, e va avanti con un po’ di glucosio e la pelle tutta chiazzata di rosso. In casa hanno un pezzo di pollo e mezzo chilo di riso. Mi offrono un bicchiere di acqua di pioggia.

Ma berrei qualsiasi cosa, a questo punto. Ho sete. Sete e basta.

Ho bevuto l’ultima volta undici ore fa.

Vivo qui, e come tutti gli altri, vivo con 600 bolívar al giorno. Il salario minimo. Non so bene quanto sia, in realtà. Un dollaro sono 3mila bolívar, ma l’inflazione è a sette cifre: e il bolívar non è che carta colorata. Letteralmente. Ci fai gli origami. E comunque, nessuno sa più il prezzo di niente. Perché dipende se paghi in bolívar o in dollari. E in un negozio normale o del governo. O al mercato nero. E se paghi in contanti, o via telefono, o con una carta di credito. E i contanti, tra l’altro, non si trovano più, perché non ci sono più i soldi per stamparne abbastanza. E quindi mi prestano una carta di credito. Stai attenta, mi dicono. Ma non per il contenuto. Per la carta in sé: manca anche la plastica.

Vale più di tutto quello che hai in banca.

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