USA, LA WATERLOO DEI LIBERAL

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Napoleone dovette perdere due volte prima di capire, dopo Waterloo, che la sua sconfitta annunciava un cambiamento storico; Bush ha dovuto vincere due volte perché i liberal percepissero che stiamo entrando in una nuova era. La posta in gioco non è l’Iraq ma un nuovo ordine mondiale
e il ruolo degli Usa nel XXI secolo. Dobbiamo tuttavia rallegrarci per la vittoria di Bush: quella di Kerry avrebbe offuscato le linee di conflitto del futuro, che ora saranno chiarissime. Compito immediato, mentre l’impero americano regredisce a fortino dello stato-nazione, la costruzione di una Unione europea trans-nazionale e postmoderna.

DI SLAVOJ ZIZEK

La prima reazione della sinistra liberal alla seconda vittoria di Bush è stata di delusione e anche di paura: gli ultimi quattro anni non sono stati solo un brutto sogno, l’incubo – l’alleanza tra big business e populismo fondamentalista – continua, Bush potrà perseguire la sua agenda con un gusto nuovo, nominando giudici conservatori alla Corte suprema, passando al prossimo paese dopo l’Iraq, gli Usa liberal sono un passo più vicini all’estinzione… Una reazione così emotiva è però esattamente ciò che andrebbe evitato: non farebbe altro che testimoniare quanto i liberal siano riusciti a imporci le coordinate del loro punto di vista. Se manteniamo i nervi freddi e analizziamo i risultati con calma, le cose appaiono in una luce completamente diversa. Molti osservatori europei si chiedono come Bush possa aver vinto, avendo contro la maggior parte dell’élite intellettuale e cultural-pop. Finalmente siamo costretti a misurarci con il sottovalutato potere mobilitante dell’immaginario fondamentalista cristiano americano. Proprio per la sua evidente imbecillità, si tratta di un fenomeno molto più paradossale, e propriamente postmoderno, di quanto non possa apparire. La storia della nascita di Scientology è indicativa di questa dimensione: il suo fondatore, Ron L. Hubbard, esordì come scrittore di fantascienza con una serie di romanzi su eventi accaduti in un’altra galassia prima che l’umanità si sviluppasse sulla terra. A un certo punto, per così dire, Hubbard restò prigioniero del suo stesso gioco, cominciando a presentare le sue finzioni letterarie come testi «religiosi» – sicché ciò che dapprima era una fiction si trasforma retrospettivamente in religione, con un rovesciamento esatto della storia della modernità, in cui testi originariamente religiosi sopravvivono come monumenti artistici alla grandezza dello spirito umano…

C’è una rassomiglianza con il grande bestseller letterario del fondamentalismo cristiano statunitense Left Behind, di Tim F. Lehaye e Jerry B. Jenkins, una serie di dodici romanzi sulla prossima fine del mondo che, ignorata dai grandi media, ha venduto oltre sessanta milioni di copie. Il loro racconto comincia quando, tutto all’improvviso, inesplicabilmente scompaiono milioni di persone – gli innocenti che Dio ha chiamato direttamente a sé per risparmiare loro gli orrori dell’Armageddon. Appare poi l’Anti-Cristo, un certo Nicolae Carpathis, un giovane politico rumeno suadente, sordido e carismatico che, dopo essere stato eletto segretario generale dell’Onu, ne trasferisce la sede a Babilonia e riesce a imporre l’Onu come il governo mondiale antiamericano che ordina il disarmo di tutti gli stati-nazione… e così via finché, nella battaglia finale, tutti i non cristiani, compresi gli ebrei, vengono divorati dalle fiamme in un incendio catastrofico. Immaginate quali reazioni avrebbe suscitato nei media liberali occidentali una storia simile, se fosse stata scritta da un punto di vista musulmano e fosse divenuta un bestseller nei paesi arabi! A impressionare non sono tanto il primitivismo e l’impressionante povertà, quanto lo strano sovrapporsi del messaggio religioso «serio» con il trash commerciale della più bassa cultura popolare.

La riflessione successiva riguarda il paradosso fondamentale della democrazia. Ne La storia della VKP(b), la bibbia degli stalinisti, c’è un paradosso singolare quando Stalin (che scrisse il libro anonimamente) descrive l’esito del voto a un congresso del partito verso la fine degli anni ’20: «Con una larga maggioranza, i delegati approvarono all’unanimità la risoluzione proposta dal comitato centrale». Se il voto fu unanime, dov’era finita allora la minoranza? Lungi dal tradire una qualche perversa contorsione «totalitarista», questa identificazione è costitutiva della democrazia in quanto tale. La democrazia si basa su un cortocircuito tra la maggioranza e il tutto: in quanto il vincitore prende tutto, la maggioranza conta come tutto, detiene tutto il potere, anche se la sua maggioranza è solamente di un paio di centinaia di voti su milioni.

«Democrazia» non è semplicemente «potere della gente, da parte della gente, per la gente», non basta sostenere semplicemente che, in democrazia, la volontà e gli interessi (le due cose non coincidono affatto automaticamente) della maggioranza determinano le decisioni statali. La democrazia – nel modo in cui questo termine è usato oggi – riguarda soprattutto il legalismo formale: la sua definizione minima è l’aderenza incondizionata a un certo insieme di regole formali le quali garantiscono che gli antagonismi siano pienamente assorbiti nel gioco agonistico.

«Democrazia» significa che, qualunque manipolazione elettorale si sia verificata, ciascun soggetto politico rispetterà incondizionatamente i risultati. In questo senso, già le elezioni presidenziali americane del 2000 sono state effettivamente «democratiche»: nonostante le evidenti manipolazioni elettorali, e nonostante la palese insignificanza del fatto che un paio di centinaia di voci, in Florida, abbiano deciso chi dovesse essere il presidente, il candidato democratico ha accettato la sconfitta. Nelle settimane di incertezza successive alle elezioni, Bill Clinton fece un commento tanto appropriato quanto amaro: «Il popolo americano si è pronunciato; solo che non sappiamo cosa ha detto». Questo commento andrebbe preso più seriamente di quanto non fosse inteso: ancora oggi non lo sappiamo e, forse, perché dietro il risultato non c’era alcun «messaggio» sostanziale.

Chi è vecchio abbastanza ricorderà ancora i noiosi tentativi dei «socialisti democratici» di opporre al miserabile «socialismo reale» la visione del socialismo autentico. La risposta standard hegeliana a questi tentativi è sufficiente: il fatto che la realtà non si riveli all’altezza del suo concetto, testimonia sempre la debolezza intrinseca del concetto stesso. Ma perché lo stesso non dovrebbe valere anche per la democrazia? Non è troppo semplice anche opporre alla democrazia capitalistica liberale «reale» una democrazia «radicale» più vera?

Comunque la vittoria di Bush non è stata assolutamente un mero errore accidentale, l’effetto di brogli e manipolazioni. Hegel ha scritto a proposito di Napoleone che egli dovette perdere due volte: solo dopo Waterloo gli fu chiaro come la sua sconfitta non fosse stata un rovescio militare accidentale, ma l’espressione di un più profondo cambiamento storico. E lo stesso vale per Bush: ha dovuto vincere due volte perché i liberal percepissero che stiamo tutti entrando in una nuova era.

L’11 settembre 2001 sono state colpite le Twin Towers. Dodici anni prima, il 9 novembre 1989, era caduto il muro di Berlino. Il 9 novembre annunciava i «felici anni ’90», il sogno di Francis Fukuyama della «fine della storia», la convinzione che in linea di principio la democrazia liberale avesse vinto, che la ricerca fosse finita, che l’avvento di una comunità mondiale liberale globale fosse dietro l’angolo, che gli ostacoli a questo happy ending ultra-hollywoodiano fossero meramente empirici e contingenti (tasche locali di resistenza dove i leader ancora non capivano di aver fatto il loro tempo). Per contro, l’11 settembre è il principale simbolo della fine dei felici anni `90 clintoniani, dell’arrivo di una nuova era in cui altri muri stanno sorgendo dappertutto: tra Israele e la Cisgiordania, intorno all’Unione Europea, sul confine Usa-Messico.
Nel loro recente saggio The War Over Iraq, William Kristol e Lawrence F. Kaplan scrivono: «La missione inizia a Baghdad, ma non finisce lì. […] Ci troviamo al vertice di una nuova epoca storica […] Questo è un momento decisivo. […] È chiaro che la posta in gioco è qualcosa di più dell’Iraq, di più anche del futuro del Medio Oriente e della guerra al terrore. La posta in gioco è quale tipo di ruolo gli Usa intendano giocare nel ventunesimo secolo». Non si può che essere d’accordo con queste parole; effettivamente è il futuro della comunità internazionale ad essere oggi in ballo: le nuove norme che la regoleranno, come sarà il nuovo ordine.

Una nuova visione del Nuovo Ordine Mondiale sta dunque emergendo come l’effettiva linea guida della recente politica Usa: dopo l’11 settembre, gli Usa hanno sostanzialmente depennato il resto del mondo come partner affidabile; l’obiettivo ultimo perciò non è più l’utopia di Fukuyama di espandere la democrazia liberale universale, ma la trasformazione degli Usa in una «fortezza America», una superpotenza solitaria e isolata dal resto del mondo, che protegge i suoi interessi economici vitali e si garantisce la sicurezza attraverso il suo nuovo potere militare, comprendente non soltanto truppe da impiegare rapidamente in qualunque punto del globo ma anche la messa a punto di armi spaziali per mezzo delle quali gli Usa controlleranno la superficie del globo dall’alto. Questa strategia mette sotto una nuova luce i recenti conflitti tra gli Usa e l’Europa: non è l’Europa che sta «tradendo» gli Usa; essi stessi non hanno più bisogno della loro partnership con l’Europa, né debbono fare affidamento su di essa… In breve, il problema dell’America di Bush non sta nel fatto che essa è un nuovo impero globale, ma che non lo è: mentre finge di esserlo, continua ad agire come uno stato-nazione, perseguendo spietatamente i suoi interessi. È come se la linea guida della recente politica statunitense fosse un rovesciamento del famoso motto degli ecologisti: agire globalmente, pensare localmente.

E, all’interno di queste coordinate, ciascuna persona di sinistra che pensa dovrebbe rallegrarsi della vittoria di Bush. È meglio per tutto il mondo, perché i contorni degli scontri futuri saranno tracciati in modo molto più chiaro. La vittoria di Kerry sarebbe stata una specie di anomalia storica, e avrebbe offuscato le vere linee di divisione. Diciamolo chiaramente: Kerry non aveva una visione globale tale da costituire una alternativa praticabile alla politica di Bush. Inoltre, paradossalmente, la vittoria di Bush è preferibile per l’economia dell’Europa e dell’America latina: per ottenere il sostegno dei sindacati, Kerry aveva promesso più misure protezioniste.

Comunque il vantaggio principale concerne la politica internazionale. La vittoria di Kerry avrebbe significato per i liberal dover affrontare le conseguenze della guerra in Iraq, e il campo di Bush avrebbe potuto attribuire a loro i risultati delle sue decisioni catastrofiche. Nel 1979, nel suo saggio Dictators and Double Standards, pubblicato in Commentary, Jeanne Kirkpatrick ha distinto tra regimi «autoritari» e «totalitari». Questa distinzione è servita a giustificare la politica degli Usa di collaborare con i dittatori di destra, riservando un trattamento molto più duro ai regimi comunisti: i dittatori autoritari sono persone che comandano in modo pragmatico e hanno a cuore il loro potere e la loro ricchezza, e sono indifferenti verso le questioni ideologiche, anche se a parole aderiscono a qualche grossa causa; i leader totalitaristi, al contrario, sono dei fanatici disinteressati che credono nella loro ideologia e sono pronti a mettere in gioco tutto per i loro ideali. Perciò, mentre è possibile trattare con i leader autoritari, che reagiscono razionalmente e prevedibilmente alle minacce materiali e militari, i leader totalitari sono molto più pericolosi e richiedono uno scontro diretto… Il paradosso è che questa distinzione enuclea perfettamente ciò che è andato storto nell’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti: Saddam era un dittatore autoritario e corrotto in lotta per il potere, guidato da brutali considerazioni pragmatiche (che lo avevano portato a collaborare con gli Usa per tutti gli anni `80), e il risultato principale dell’intervento Usa è che esso ha generato un’opposizione «fondamentalista» molto più intransigente, che preclude qualsiasi compromesso pragmatico.

La vittoria di Bush fugherà le illusioni sulla solidarietà basata sugli interessi tra i paesi occidentali sviluppati; essa darà nuovo impeto all’urgenza di andare avanti nel processo doloroso ma necessario di costruire nuove alleanze come l’Unione europea o il Mercosur in America latina. È un clichè giornalistico elogiare il capitalismo Usa, dinamico e «postmoderno», contro la «vecchia Europa» ferma alle illusioni del welfare state con le sue norme. Almeno nel dominio dell’organizzazione politica, oggi l’Europa sta andando molto più lontano degli Usa, verso il suo autocostituirsi come una unità trans-statale inedita e propriamente «postmoderna» in cui c’è posto per tutti indipendentemente dalla geografia o dalla cultura, fino a Cipro e alla Turchia.
Non c’è ragione di disperare, dunque. Anche se le prospettive oggi sono oscure, dobbiamo ricordare uno dei grandi bushismi: «Domani il futuro sarà migliore».

Slavoj Zizek
Fonte:www.ilmanifesto.it
7.11.04
Traduzione di Marina Impallomeni

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