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La Redazione

 

UNA GUERRA TRA POTENZE: NON SONO SOLO VOCI

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A cura di Das schloss
Il 29 Settembre 2008
38 Views

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DI SRDJA TRIFKOVIC
Chronicles Magazine

La crisi nei rapporti tra gli Stati Uniti e la Russia per quanto riguarda la questione georgiana annuncia un periodo particolarmente pericoloso per gli affari esteri: l’era della multipolarità asimmetrica. Una “major war” [guerra tra paesi sviluppati, ndt] tra due o più superpotenze è più probabile con questa configurazione che con qualsiasi altro modello di equilibrio globale storicamente noto. Il sistema più stabile è la bipolarità basata sulla dottrina della mutua distruzione assicurata [traduzione dall’inglese Mutual Assured Destruction, MAD, ndt], che fu adottata dagli anni ’50 fino alla fine della Guerra Fredda. La consapevolezza di entrambe le superpotenze di poter infliggere danni gravi e inevitabili, nonché reciproci, sul proprio territorio o su quello dei loro alleati, nell’eventualità di una guerra nucleare, era unita al riconoscimento da parte di ognuna delle due di una sfera di dominio o vitale interesse dell’altra che non doveva essere violata.

In prospettiva di Brest-Litovsk e dell’operazione Barbarossa, Stalin “intendeva trasformare i paesi conquistati dalle armate sovietiche in zone cuscinetto allo scopo di proteggere la Russia” (Kissinger). L’equivalente occidentale, anch’esso fondamentalmente difensivo, fu definito dalla Dottrina Truman (1947). “Proxy war” [letteralmente, guerre per procura, ndt] furono combattute nelle zone grigie di tutto il Terzo Mondo, soprattutto in Medio Oriente, ma restarono circoscritte anche quando vi era direttamente coinvolta una superpotenza (come nelle guerre in Vietnam e in Afghanistan). Questo modello era il prodotto di circostanze uniche senza un adeguato precedente storico e, in ogni caso, circostanze che molto probabilmente non si ripeteranno in un futuro prossimo o immediato.
Il modello più stabile di relazioni internazionali, che allo stesso tempo è ricorrente dal punto di vista storico e ripetibile in futuro da un punto di vista strutturale, è un equilibrio del sistema delle potenze nel quale nessuna singola grande potenza sia fisicamente in grado o desiderosa dal punto di vista politico di ottenere l’egemonia. Questo modello prevalse dalla Pace di Vestfalia (1648) fino all’ascesa di Napoleone, da Waterloo fino al 1900 circa, e da Versailles al 1933. Richiede un relativo equilibrio tra le potenze chiave (di solito sono da cinque a sette) le quali si tengono reciprocamente a freno e agiscono entro una serie riconosciuta di regole nota come “legge internazionale”. Le guerre tra le grandi potenze scoppiano inevitabilmente, ma sono limitate nello scopo e nell’intensità perché le parti in guerra accettano tacitamente la legittimità fondamentale e la sopravvivenza del o dei loro avversari.

Se una di queste potenze diventa decisamente più forte rispetto alle altre e se la sua élite decisionale fa propria un’ideologia che richiede o al massimo giustifica l’egemonia, il sistema della multipolarità asimmetrica, instabile già per sua natura, andrà incontro a degli sviluppi. Nei tre casi citati – la Francia di Napoleone dopo il 1799, l’Impero Germanico dello scorso inizio secolo e il Terzo Reich dopo il 1933 – la sfida non poteva essere risolta senza una “major war”.

Il governo degli Stati Uniti sta ora agendo in una maniera che ricorda strutturalmente quella di queste tre potenze. Essendosi autoproclamato leader di un’immaginaria “comunità internazionale”, si spinge oltre rispetto ad ogni altro aspirante egemone precedente guardando al mondo intero come una sfera d’interesse esclusivamente americana. Come ho fatto notare due settimane fa, la codificazione formale avvenne nel National Security Strategy del settembre 2002 [il rapporto della Casa Bianca sulle strategie difensive e di sicurezza degli Stati Uniti, ndt], che presentò lo spettro di una dominazione politica, militare ed economica a tempo indeterminato su tutto il mondo da parte degli Stati Uniti, che avrebbero agito unilateralmente contro gli “stati canaglia” e le “potenze potenzialmente ostili” e nell’intento di porre fine alle “distruttive rivalità tra nazioni”. A tale scopo, l’amministrazione si è impegnata “a mantenere le forze militari imbattibili, rendendo in tal modo prive di senso le destabilizzanti corse agli armamenti delle altre epoche storiche, e limitando le rivalità al commercio e alla ricerca della pace”.

Ogni tentativo da parte di una singola potenza di mantenere le proprie forze militari imbattute è di per sé destabilizzante, e porta – prima o poi – all’emergere di una vera e propria coalizione avversa. Napoleone alla fine ne affrontò una nella Völkerschlacht [battaglia dei popoli, ndt] a Lipsia nel 1813. “Non c’è equilibrio fra le potenze in Europa, ci siamo solo io e i miei ventiquattro corpi d’armata”, fu la frase celebre del kaiser nel 1901. Con gli anni, costruì anche una flotta d’alto mare. Entro il 1907, la Germania Guglielmina provocò la nascita di una coalizione avversa che indusse perfino i suoi rivali tradizionali come Gran Bretagna e Russia ad allearsi (quest’ultima rimpiazzata poi dagli Stati Uniti nel 1917). E come per il più recente Griff nach der Weltmacht [assalto al potere mondiale, ndt], allo scoccare della seconda settimana del dicembre del 1941 la Germania fu irrevocabilmente condannata ad un’altra sconfitta.

Un sintomo certo, indicatore di questa asimmetria destabilizzante nei fatti è la tendenza dell’aspirante egemone a rivendicare una sfera di influenza o interferenza sempre più ampia, a spese dei suoi rivali. Nel periodo precedente al 1914, questo fu annunciato dal Telegramma di Kruger (1896) ed esemplificato dal tentativo tedesco di costruire la linea ferroviaria Berlino-Baghdad (1903) e dalla Prima Crisi Marocchina, o Crisi di Tangeri, (1905). Né Napoleone né Hitler conoscevano limiti “naturali”, ma le loro mire erano confinate essenzialmente all’Europa. Con gli Stati Uniti, oggi, la novità è che quest’ambizione è estesa – letteralmente – al mondo intero. Non solo l’Occidente, non solo la “Vecchia Europa”, il Giappone, o Israele, ma anche Taiwan, la Corea e altre zone improbabili come la Georgia, l’Estonia, il Kosovo o la Bosnia sono considerati di vitale importanza. L’intero globo terreste è di fatto considerato come la sfera d’influenza dell’America, naturalmente incluse le zone del Caucaso, dell’Europa e dell’Asia centrale alle porte della Russia.

Quattro settimane fa lo stesso gioco è diventato pericolosamente asimmetrico. Per l’America è ancora una questione ideologica, ma per la Russia è diventata una questione esistenziale. La Russia si sta comportando adesso alla stregua di una potenza conservatrice europea pre-1914 che cerca di salvaguardare il suo “near abroad” [lo spazio nel quale si estendeva precedentemente l’Urss, rappresentato ora dalla Comunità degli Stati Indipendenti, ndt]. L’America sta agendo come una potenza rivoluzionaria globale, il cui “near abroad” è letteralmente ovunque.

È dunque inutile per la Russia tentare di “gestire” la crisi come se fossimo prima del 1914 e sperare in qualche arrendevolezza elusiva dall’altra parte, perché a Washington il calcolo non è razionale. La controstrategia dell’imprevedibilità, esemplificata dal riconoscimento dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud di Medvedev, è, in ogni caso, una risposta altamente razionale.
Questo potrebbe ancora indurre gli ultimi rimasti, dotati di buon senso, all’interno del mondo politico statunitense, a tentare di esercitare una qualche supervisione ragionevole sulla “comunità politica estera” bipartisan dei cosiddetti “smokers in the arsenal” [letteralmente, fumatori nella polveriera, espressione idiomatica per indicare chi agisce in maniera incosciente, senza consapevolezza del pericolo, ndt].

Titolo originale: “A Major War: Not Just Rumors”

Fonte: http://www.globalresearch.ca
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03.09.2008

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di EVINRUDE

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