DI SAM SMITH
Reseau Voltaire
Bush ha perso, ma non per questo abbiamo vinto
Nel momento in cui una parte della stampa occidentale si rallegra della vittoria dei Democratici al Congresso statunitense, la sinistra statunitense non vede motivi di soddisfazione. Sam Smith ricorda che il partito Democratico, lungi dall’essere un partito di opposizione ai Repubblicani, condivide gran parte dei suoi punti di vista e dei suoi obiettivi.
All’indomani dell’elezione, sono stato sorpreso nello svegliarmi di umore triste. Ci misi tempo per capire ciò che non andava. Non era certo perché Bush aveva perso. Questo era chiaro. Poi improvvisamente capii. Era perché non avevamo per questo vinto.
Senza alcun dubbio la situazione è migliorata. Ma non c’è nulla per cui provare una vera gioia.
E mi sono ricordato degli anni di Clinton, quando la capitale era diventata miope dalla boria e non contava più niente al di fuori delle preoccupazioni del momento. Se non seguivate il programma del giorno, ai loro occhi non valevate più di un Repubblicano.Nessuno voleva sentire le verità spiacevoli, tutto un insieme di problemi venivano ignorati, la socialdemocrazia che era stata costruita per il New Deal e le riforme sociali della Great Society (messe in opera dal Presidente Johnson nel 1964) erano poco a poco svuotate del loro senso, il Paese scivolava sempre di più verso la destra… di tutto ciò non si doveva parlare.
Washington D.C. era diventata un immenso campo di calcio e noi dovevamo giocare sempre il ruolo di supporters. L’ho scritto lì nelle mie memorie.. e poi ho capito, anni più tardi, che mi ero imbattuto nei contorni di una nuova frattura nel paesaggio politico degli Stati Uniti. Questa era così nuova da non aver ancora un nome, gli esperti e i profeti non le avevano ancora affiancato uno stereotipo o un cliché. In qualche maniera questo nuovo gruppo sembrava più un campo di rifugiati che un’assemblea deliberata. Ma più la studiavo, più mi rendevo conto che la logica comune dietro l’apparizione di questa frattura era lì, anche se non era stato facile vederla.
Da un lato c’erano i libertarians, i neri, i verdi, i populisti, i liberi pensatori, gli apatici alienati, i contadini abbandonati, i giovani apolitici e ben altri ancora, tutti convinti che il paese stesse perdendo la propria democrazia, la sovranità e il suo senso morale. Dall’altro lato della frattura si trovava un’élite tecnocratica, mediatica, legislativa, finanziaria e culturale, che dimorava essenzialmente a New York e Washington. In quel periodo si ebbe l’impressione che tutto il paese al di fuori di questi due centri di potere fosse diventato un gigantesco e caotico “Salone dei Rifiutati”.
Un’altra cosa che mi colpì in quell’epoca fu che questa frattura oltrepassava ampiamente la sfera politica. Era in corso un colpo di stato culturale, gestito da una classe sociale ben determinata e nella quale l’amministrazione Clinton giocava un ruolo primario.
Questa classe sociale stava costruendo un’economia divisa e il suo scopo era trasformare coloro che dovevano restare dall’altro lato della barriera in un gruppo di consumatori malleabili, omogenei e multinazionali. Per questi consumatori soprattutto le idee di libertà, di scelta e di democrazia dovevano essere condizionate, atrofizzate, fino a che non fossero stati altro che dei simboli virtuali, senza significato concreto.
In questo “migliore dei mondi” persone come me erano dei traditori della causa. Le parole di incoraggiamento che ricevevo provenivano sempre più da posti diversi dalla mia città natale Washington, capitale federale di cui avevo con entusiasmo sfidato il conformismo per circa 30 anni.
Negli anni 1960 e 1970 questo non mi poneva problemi: era pieno di gente con la quale ero d’accordo e Washington —così come Madison e Berkeley—ospitava una contro-cultura vigorosa, pronta a dividere, provocare e scioccare… e divertire mentre la si faceva.
Quando arrivarono gli anni 1980, le voci di contestazione si erano sensibilmente affievolite anche se la dissidenza era ancora viva quando si trattava di bersagliare Reagan e Bush.
Ma quando arrivarono gli anni 90, l’establishment di Washington chiuse i boccaporti e diventò sordo al ribollimento intellettuale.
Questo abbandono non riguardava solo gli avvocati –lobbysti del partito Democratico che praticarono improvvisamente nel grande giorno tutte le manovre ciniche che avevano praticato in maniera discreta durante l’amministrazione repubblicana. Non concerneva solamente i giornalisti la cui inerzia e la sottomissione ai potenti si dispiegarono nel grande giorno.
No, questa deriva toccò in maniera uguale l’establishment progressista di Washington —i leaders sindacali, femministi ed ecologisti.
Essi erano talmente eccitati di avere improvvisamente accesso alle sontuose dimore che si erano dimenticati di vedere quanto le cause che difendevano in precedenza erano lontane da quelle che accettavano di sottoscrivere oggi al momento di un pranzo di affari —e spesso il semplice fatto di essere invitati a pranzo bastava loro come remunerazione per la loro sottomissione. Tutto ad un tratto nello stagno di Washington non si parlava più di politica, ce n’era solo per il do ut des.
Non c’erano più vittorie, solo soluzioni negoziate finanziariamente. Non c’era più ideologia, solo la fedeltà ad una marca. Si era conservatori o liberali come altri (spesso gli stessi) sono Coca Cola o Pepsi, Nike o Adidas.
Oh certo le cose sono diverse dai nostri giorni. La Casa Bianca rimane chiaramente il nostro nemico e al Congresso abbiamo oggi persone che meritano il nostro rispetto: John Conyers, Bernie Sanders, Russ Fingold per citarne alcuni. Ma la grande massa dei Democratici resta fermamente nella palude della miopia politica dove i finanziatori delle loro campagne e i lobbysti dalle tasche piene li hanno attirati.
Dean Baker nel suo editoriale del “Prospect” ce ne dà un’idea: “Tra le urgenze del calendario dei democratici c’è la Riforma del Medicare (assicurazione malattie). Al momento della campagna, i Democratici avevano promesso una riforma sostanziale. Stamattina alla radio i Democratici non parlano di altro che non sia ripulire alcuni aspetti più palesi e lasciare intatto il grosso dei cambiamenti alla legge ingiusti votati dai Repubblicani. Se si accontentano di una riforma simbolica senza ricadute concrete per i malati e gli anziani esclusi dal sistema di cure, milioni di elettori si sentiranno traditi.”
Quando, tre giorni dopo la ‘vittoria’ prendono forma già il tradimento e la tiepidezza di coloro i quali abbiamo eletto, è importante che tutti quelli in questo paese che vogliono veramente vivere in un’America democratica, morale e progressista, si dissocino chiaramente dai due grandi partiti che si dividono il potere. Noi abbiamo bisogno di una terza voce che parli alto e forte —una voce che non sia solo politica ma soprattutto morale e pragmatica— una voce che si ricordi in permanenza delle sanguisughe politiche del potere, che forzi i politicanti dei due bordi a girarsi verso le vere questioni, le vere riforme, i veri problemi. La vera ragione per cui Bush ha vinto 6 anni fa è stata che numerosissimi rappresentanti di questa terza voce —ivi comprese le femministe, i combattenti per i diritti civili e gli ecologisti— si erano lasciati risucchiare dalla macchina Clinton e avevano volontariamente fatto tacere le loro rivendicazioni progressiste.
Oggi non è il momento del silenzio, al contrario.
La terza voce della politica americana deve diventare sempre più forte. Deve puntare costantemente in direzione di un cammino migliore, fortemente diverso dal cammino che il nuovo Congresso probabilmente intraprenderà. Noi dobbiamo proporre un’alternativa chiaramente visibile a tutte le vigliaccherie e le corruzioni commesse dal centro molle della “sinistra”, dobbiamo spingerli ad andare nella direzione in cui non vogliono andare. E’ finito il tempo in cui accettavamo di tacere per “ragioni strategiche”, non dobbiamo più avere paura di proferire parole grosse come “copertura malattia universale” o di osare dire che i produttori stanno distruggendo il nostro pianeta.. anche se hanno finanziato la “nostra” campagna elettorale. Non dobbiamo mai dimenticarci che, se Bush e i suoi Kapò hanno perso la partita questa volta, noi non abbiamo ancora riportato la vittoria.
Nato a Washington nel 1937, Sam Smith è una figura della sinistra degli Stati Uniti. E’ stato di volta in volta assistente parlamentare, sindacalista poi organizzatore sociale nei quartieri disagiati della capitale, fondatore dei Verdi statunitensi, editore di giornali autogestiti. Dopo il 1964, il suo bollettino settimanale chiamato Progressive Rewiew è considerato uno dei migliori osservatori della vita politica a Washington.
Sam Smith
Fonte: http://www.voltairenet.org
Link: http://www.voltairenet.org/article144127.html
24.11.0206
Traduzione a cura di SAVERIA BRAMANTI per www.comedonchisciotte.org