DI EDUARDO ZARELLI
ilribelle.com
Una esondazione di cemento. La cementificazione selvaggia ha colpito duramente il paesaggio, riducendolo ad un disordinato affastellarsi di capannoni industriali dismessi e ad un triste sequenza di nuovi ipermercati che stanno sradicando ogni idea di urbanità. È la fotografia scattata dal rapporto “Ecosistema rischio 2010”, realizzato da Legambiente e dal dipartimento della Protezione civile, che è stato recentemente diffuso: «l’Italia si scopre sempre più fragile», spiega il dossier, soprattutto a causa del «troppo cemento lungo i corsi d’acqua così come a ridosso di versanti franosi». Tanto che nell’82 per cento dei Comuni ci sono abitazioni costruite in aree a rischio frane o alluvioni, nel 54 per cento fabbricati industriali e nel 19 per cento strutture pubbliche sensibili come scuole e ospedali. Numeri che portano a ritenere che in Italia oltre 3 milioni e 500mila persone siano quotidianamente esposte al pericolo di frane o alluvioni, esondazioni, frane.Dal Veneto alla Calabria, bastano semplici temporali a provocare non solo allagamenti ma vere e proprie calamità, che mettono sotto assedio le città, piccoli comuni, servizi e attività primari. In attesa delle prossime intemperie l’Italia è completamente impreparata ad affrontare il maltempo stagionale, così come quello indotto dalla tropicalizzazione del Mediterraneo. Interi territori in stato di calamità, interi comuni distrutti.
Soltanto in Calabria, secondo i dati del Ministero dell’Ambiente e dell’Unione Province Italiane, sono esposte a rischio frana e alluvione almeno 185 mila persone. In Calabria il 100% dei comuni è a rischio frane e alluvioni. L’83% dei comuni ha abitazioni nelle aree golenali, negli alvei dei fiumi e in aree a rischio frana, il 42% delle amministrazioni presenta addirittura interi quartieri in zone a rischio, mentre il 55% ha edificato in tali aree strutture e fabbricati industriali, mettendo a rischio l’incolumità delle persone anche per gli eventuali sversamenti di prodotti inquinanti nelle acque e nei terreni. Inoltre, nel 26% dei casi, le strutture sensibili come scuole e ospedali sono presenti in zone a rischio. Ci spostiamo in Veneto e la situazione non cambia. Qui ci sono 161 i comuni con aree a rischio idrogeologico, pari al 28% del totale regionale, di cui 41 a rischio frana, 108 a rischio alluvione e 12 a rischio sia di frane che di alluvioni. Il primato negativo del rischio idrogeologico in questo territorio va alla provincia di Venezia che ha il 50% dei comuni ad elevato rischio. Anche quattro dei sette capoluoghi di provincia veneti sono considerati a rischio idrogeologico, restano fuori solo Venezia, Rovigo e Treviso.
Anno dopo anno le aree diventano sempre più fragili a causa degli effetti dei mutamenti climatici, con precipitazioni sempre più intense e concentrate in brevi periodi, ma soprattutto per una gestione dissennata del territorio. Il concetto stesso di “calamità naturali” in tal senso è fuorviante: la natura non è né buona né cattiva, fa il suo mestiere che è quello di far circolare aria e acqua sugli oceani e sui continenti, così come il “mestiere” dell’acqua piovana consiste nello scendere dalle montagne e dalle colline al mare lungo le strade di minore resistenza, i torrenti, i fiumi i fossi, con maggiore o minore velocità a seconda di quello che incontra sul terreno, cose ben note e prevedibili. I guasti vengono dal fatto che la civilizzazione urbanizza il territorio come se queste leggi non esistessero, costruendo strade e case, ponti e fabbriche dove torna utile, secondo piani che dovrebbero essere “regolatori”, cioè adatti a regolare le scelte sulla base delle leggi della natura, ma che invece non tengono conto di tali leggi, anzi generalmente operano contro di loro. L’unico sistema per evitare allagamenti e frane consiste nel predisporre sistemi per rallentare il moto delle acque con la vegetazione e i boschi e nel lasciare libero lo spazio di scorrimento delle acque nel loro cammino verso il mare. Purtroppo le valli sono spesso le zone più desiderabili per le costruzioni: i fondovalle sono stati occupati da strade e città a spese della vegetazione; sono state interrotte le strade naturali predisposte dalle acque per la loro discesa.
L’economista Giovanna Ricoveri, nel suo recente libro I beni comuni (Jacabook, 2010) ricostruisce il processo con cui si è formata la proprietà del suolo; in tempi medievali la terra era “del principe”, cioè della sovranità politica, che stabiliva dove dovevano o non dovevano essere costruite le città e i villaggi, come dovevano essere protetti o rinnovati i boschi, con leggi che sono arrivate spesso integre fino allo stato unitario, addirittura fino alla metà del Novecento. Queste leggi stabilivano che non si doveva costruire sulle rive dei fiumi e dei laghi perché si doveva lasciare spazio alle acque di muoversi nei periodi di piena che si manifestano in maniera abbastanza regolare e prevedibile. Rive, boschi, fiumi possono essere usati come beni comuni dal “popolo” ma sotto il controllo dello Stato che ne è l’unico padrone nel nome del popolo stesso.
Le opere di salvaguardia del territorio, di pulizia e controllo dei fiumi, sono venute meno; sono le stesse amministrazioni pubbliche che mettono all’incanto i beni collettivi cioè la base per la salvaguardia degli abitanti da alluvioni e frane, rilasciando senza ritegno concessioni edilizie secondo gli interessi dei proprietari privati dei suoli.
Il “riassetto del territorio”, in controtendenza, significherebbe in primo luogo, difesa del suolo contro l’erosione, almeno dove è ancora possibile farlo, regolazione e sistemazione e pulizia dei corsi di acqua, dai torrenti di montagna ai fianchi delle colline, ai grandi e piccoli fiumi, ai fossi di pianura, con l’unico imperativo di assicurare che l’acqua scorra senza violenza e senza ostacoli verso il mare, suo unico destino finale. Una politica del territorio e di “prevenzione civile”, che si ponga la questione delle cause e non insegua interessatamente gli “effetti”, all’opposto quindi di quella “distruzione creativa” che appalta opere per riparare guasti già avvenuti, ma che si sarebbero potuti prevenire, creando posti di lavoro secondo una progettualità “ecologica” e sostenibile. Soprattutto stimolerebbe comportamenti virtuosi perché la moralità verso la natura è premessa per l’etica privata e pubblica. L’opposizione è quella fra la logica riduzionistica del contrattualismo tra proprietà privata e Stato e quella fenomenologica, relazionale, partecipativa propria del comunitario. Soltanto quest’ultima supera il dualismo soggetto-oggetto e la conseguente alienazione dell’umano (soggetto astratto) al di fuori della natura. Il bene comune è una relazione qualitativa, noi non “abbiamo” un bene comune ma in gran misura “siamo” il bene comune, abitiamo un territorio di cui esprimiamo la sua identità essendone responsabili in termini di consapevolezza sociale (cultura, memoria, sapere, estetica). Il comunitario non è solo un oggetto (un corso d’acqua, una foresta, un ghiacciaio) ma è una categoria dell’essere. Espressione ecologico-qualitativa e non economico-quantitativa, per questo non è riducibile a un diritto (categoria dell’avere) ma è ad un tempo esperienza di soddisfazione soggettiva (libertà) e di partecipazione oggettiva (consapevolezza) all’essere. Senza tornare ad essere abitanti della Terra non daremo soluzioni alle contraddizioni dello stare in questo Mondo.
Eduardo Zarelli
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13.10.2011
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