DI DORIAN LINSKEY
Guardian.co.uk
Profeta oscuro, arguto e sarcastico,
cafone pentito: Leonard Cohen torna con un nuovo grande album, Old Ideas, e ancora intelligenza e saggezza
Nel corso del faticoso tour mondiale
del 1972 di Leonard Cohen , ripreso nel documentario di Tony Palmer Bird on a Wire, un intervistatore chiese al cantante di definire il successo. Cohen, che a 37 anni già ne sapeva qualcosa dei fallimenti e di quel genere di acclamazione con cui non si pagano le bollette, prese in modo obliquo la domanda e rispose: “Il successo è sopravvivenza“.
Da quel tempo, Cohen ha riscosso molto
più successo di quanto aveva previsto. Ci sono state rovesci della
fortuna lungo il suo percorso, ma quarant’anni dopo è entrato in
una stanza riccamente decorata del favoloso Crillon Hotel Parigi, accolto
da una calda brezza di applausi. Con l’apparenza di un malfattore
nonnesco, si è tolto il cappello e ha sorriso con grazia, come ha fatto
ogni notte del tour mondiale del 2008-10 che ha rappresentato un ritorno
creativo miracoloso. Il pungente e pericolosamente divertente personaggio
saturnino, testimoniato in Bird on a Wire, ha trovato una sua calma
e, come spesso ripete, la gratitudine.
Cohen, in questi giorni, raziona la
sue interviste con la massima austerità, e questo è il motivo di questa
conferenza stampa per promuovere il suo 12° album, Old Ideas, una riflessione
intima su amore, morte, sofferenza e perdono. Dopo il playback,
ha risposto alle domande. È stato sempre più divertente di quanto
sia stato dipinto; ora ha levigato la sua espressione impassibile con
una perfezione tale che ogni intervistatore diventa l’uomo diritto in
un atto doppio. Claudia dal Portogallo vuole che le spieghi l’umorismo
che è dietro alla sua immagine di uomo di una signora. “Bene,
per me essere l’uomo di una signora a questo punto richiede una grossa
dose di umorismo“, risponde. Steve dalla Danimarca si chiede
cosa sarà Cohen nella prossima vita. “Io davvero non capisco
il processo chiamato reincarnazione, ma se ci fosse una cosa del genere
mi piacerebbe tornare a essere il cane di mia figlia.” Erik,
anche lui dalla Danimarca, chiede se è venuto a patti con la morte.
“Sono arrivato alla conclusione, controvoglia, che dovrò
morire“, ha risposto. “Arrivano tutte queste domande
e gli viene data una risposta. Ma, sapete, mi piace farlo con ritmo.”
Cohen ricade nella strana categoria
delle leggende sottovalutate. Per i suoi fans, tra cui molti
scrittori di canzoni, lui è il meglio che ci sia in giro, ma non ha
mai avuto un disco di successo (al di fuori del suo Canada e, per qualche
ragione, in Norvegia) o un disco di platino. Ha detto che una certa
sua immagine è “stata messa nel computer“: il poeta sciupafemmine
che canta le canzoni della “malinconia e della disperazione“,
apprezzate da quelli che vorrebbero essere anche loro poeti sciupafemmine.
Oggi il database può rilevare che ha scritto Hallelujah,
una canzone trascurata su un album fallimentare che, grazie a un’alleanza
improbabile tra Jeff Buckley, Shrek ed X Factor, alla fine è diventata
una sorta di inno moderno.
Il suo creatore nacque a Montreal il
21 settembre del 1934, tre mesi prima di Elvis Presley. Quando iniziò
a presentare le sue canzoni a New York, quelle che diventarono nel 1967
le Songs of Leonard Cohen, gli agenti risposero: “Non
è un po’ troppo vecchio per questo gioco?” A quel tempo,
aveva già perso suo padre da quando era molto giovane, aveva incontrato
Jack Kerouac, vissuto in un idillio bohemien sull’isola greca
di Idra, visitato Cuba durante l’invasione della Baia dei Porci e
pubblicato due romanzi acclamati e quattro volumi di poesia. In breve,
aveva vissuto e ciò attribuì alle sue canzoni elaborate ed enigmatiche
una forte autorità, così che i più giovani ascoltatori si sentirono
privati dei misteri che potevano solo presentire.
Non era certo il miglior cantante,
il miglior musicista né l’uomo più bello sulla piazza, ma
aveva il carisma e le parole, e un’intelligenza erotizzata. Forse perché
il suo stile doveva più a agli chansonnier francesi e ai
cantori ebrei che non al folk americano, fu amato più in Europa
che in nord ‘America. Una vecchia recensione sulla rivista Sing Out!
rimarcò: “Nessun paragone può
essere fatto tra Leonard Cohen e qualsiasi altro fenomeno.”
Se interrogato, avrebbe spiegato alcuni
dettagli delle sue canzoni, se la moglie del suo amico, Suzanne Vaillancourt,
gli servì davvero “tè e arance” (una specie: lei
beveva una marca di tè aromatizzata con buccia di arancia) o se Janis
Joplin gli fece “un pompino sul letto disfatto” nel
Chelsea Hotel (sì, ma più tardi si pentì della franchezza poco galante),
ma mai i loro significati.
Ancora resiste nello spiegarli e il
suo implacabile lavoro di secca auto-disapprovazione agisce come uno
scudo davvero efficace e divertente. Due notti dopo il playback
di Parigi, Cohen ne ha fatto un altro a Londra, ospitato da Jarvis Cocker.
Suo fan fin dall’adolescenza, Cocker ha continuato a insistere
sulla riluttanza di Cohen nello scavare troppo a fondo nella “meccanica
sacra” della scrittura delle canzoni, che altrimenti smetterebbero
di funzionare. Le canzoni gli vengono dolorosamente lente e, quando
ha una buon idea, ci rimugina sopra: per Hallelujah ci sono voluti due anni
e 80 testi diversi. Durante
il playback, un schermo ha mostrato le pagine dei suoi quaderni,
pieni di rimandi scarabocchiati e versi scartati. “Ci sono persone
che fanno esercizio di un senso di grande abbondanza“, ha detto.
“Mi piacerebbe essere uno di loro, ma non lo sono. Ognuno lavora
con quello che ha.”
La modesta fortuna di Cohen iniziò
a calare nel 1977 col roco Death
of a Ladies’ Man. Nello studio un folle Phil Spector puntò la
pistola alla tempia di Cohen e il produttore si occupò delle canzoni
in modo gretto. Il pezzo grosso della Columbia, Record Walter Yetnikoff, si rifiutò di pubblicare
Various Positions nel 1984 (quello
con Hallelujah), e si dice che abbia detto: “Guardi, Leonard,
sappiamo che lei è un grande, ma non sappiamo se ora possa valere qualcosa.”
Ma l’album successivo, I’m
Your Man, fu l’uno e
l’altro. Supportato dai sintetizzatori, da un’acre intelligenza
e una voce che ora suona come un disturbo sismico, si era rimesso in
sesto appena in tempo per godersi una valanga di elogi dai più giovani
ammiratori, tra cui Nick Cave e i Pixies. Ma in canzoni come First We Take Manhattan, Everybody
Knows e The Future, la
sua depressione assunse proporzioni geopolitiche. Disse al giornalista
Mikal Gilmore: “Non c’è motivo per cercare di impedire l’apocalisse.
La bomba è già partita.” A Parigi qualcuno gli ha chiesto
cosa pensasse dell’attuale crisi economica e ha risposto semplicemente:
Knows” (“Tutti sanno”).
Nel 1993, in ripresa e ben amato, ma
con un umore tetro, Cohen scomparve dallo sguardo fisso del pubblico.
Trascorse i sei anni successivi in un convento sul Monte Baldy in California,
studiando col vecchio amico e maestro Zen Kyozan
Joshu Sasaki, che lui chiama Roshi e che ora è un vecchio
resiliente di 104 anni. “Questo vecchio insegnante non parla
mai di religione“, ha detto Cohen al pubblico di Parigi. “Non
ci sono dogmi, non c’è un’adorazione devota, non ci si rivolge a
una divinità. È solo un impegno a vivere in una comunità.”
Quando lui scese dalla montagna, la
depressione di tutta una vita era finalmente sollevata. “Quando
parlo di depressione“, dice attentamente, “parlo di
una depressione clinica che è lo sfondo della vita intera, uno sfondo
di angoscia e ansia, un sensazione che niente vada per il verso giusto,
che il piacere non è a disposizione e tutte le tue strategie collassano.
Sono felice di affermare che, per gradi impercettibili e per la grazia
dei buoni insegnanti e della buona sorte, la depressione si
è lentamente dissolta e che non è
mai tornata con la stessa ferocia che aveva accompagnato gran parte
della mia esistenza.” Ritiene che potrebbe essere svanita con
l’avanzare degli anni: “Ho letto da qualche parte che quando
si invecchia alcune cellule cerebrali che sono associate con l’ansia
muoiono, e quindi non è molto importante quanto ci si applichi nelle
discipline. Inizierai a stare molto meglio o molto peggio, a seconda
delle condizioni dei tuoi neuroni.”
Può essere tutto così semplice?
L’umore delle sue canzoni classiche si può essere spiegare davvero
con una chimica cerebrale sfortunata? Ha detto di recente al suo biografo
Sylvie Simmons che, qualunque cosa facesse, “stavo solo tentando
di colpire il diavolo. Stavo solo cercando di montargli addosso.”
Così come con il Giudaismo e il Buddismo Zen, ha amoreggiato brevemente
con Scientology. Non si è mai sposato, ma ha avuto molte relazioni
significative, tra cui una con Joni Mitchell, con l’attrice Rebecca
De Mornay e con la donna da cui ha avuto due figli nei primi anni ’70,
Suzanne Elrod (no, non quella Suzanne). Era un forte bevitore e fumatore
che ha sperimentato molte droghe. Sul suo tour del 1972, come
documentato in Bird on a Wire, battezzò il suo gruppo The
Army e loro lo nominarono Captain Mandrax, dal suo tranquillante
preferito.
In quel film appare indisciplinato
ed esausto: un “usignolo distrutto “, che si rivolge
al pubblico con un umore irritabile. Adesso, nel suo tour di
ritorno, sembra profondamente grato per ogni acclamazione o applauso.
“Sono stato colpito dall’accoglienza, sì“, ha detto.
“Mi ricordo che stavamo suonando in Irlanda, e l’accoglienza
fu così calda che mi vennero le lacrime agli occhi e pensai,
‘Non posso farmi vedere mentre sto piangendo, a questo punto’, poi
io mi voltai e vidi piangere il chitarrista.”
Il tour è stato in parte provocato
dalle necessità finanziarie, dopo che il suo manager gli ha
soffiato quasi tutti i risparmi. Era riluttante a tornare di nuovo in
giro? “Non so se riluttanza
è la parola giusta, ma trepidazione o nervosismo. Abbiamo provato per
molto, molto tempo, più a lungo di quanto fosse ragionevole. Ma non
si è mai veramente sicuri.” Spera di effettuare più concerti
e di pubblicare un altro album fra un anno o poco più. È più vecchio
di Johnny Cash quando pubblicò il suo ultimo album; presto sopravvivrà
creativamente a Frank Sinatra. Sul dorso di uno dei suoi quaderni ha
scritto: “Siamo vicini alla fine del libro, ma non ci siamo
ancora.”
A Parigi, dopo la conferenza stampa,
mi sono introdotto con discrezione in una stanza buia per una rara intervista
rara con Cohen. Da vicino, è una presenza calmante, una vecchia pacata
cortesia, mescolata con lo Zen, e la sua grana di voce annerita dal
fumo è rassicurante come una ninnananna. Gli chiedo se lui abbia mai
desiderato che il lungo e doloroso processo di scrittura delle sue canzoni
fosse più lineare.
“Bene, sa, stiamo parlando
di un mondo dove i ragazzi vanno giù
nelle miniere, masticando la coca e passando tutto il giorno in un lavoro
sfiancante. Siamo in un mondo dove c’è
la carestia e la fame, le persone stanno scansando le pallottole e stanno
grattando con le unghie le prigioni sotterranee, quindi
è davvero difficile per me per attribuire un alto valore al lavoro
che faccio quando scrivo una canzone. Sì, lavoro sodo, ma se paragonato
agli altri?”
Impara qualcosa dallo scriverle? Tira
fuori le idee a questo modo?
“Io penso lei si avvicina a
qualcosa. Ma non le chiamerei idee. Penso che le idee sono quelle di
cui ci si vuole liberare. Non mi piacciono molto le canzoni con le idee.
Tendono a diventare slogan. Tendono a stare sul lato giusto delle cose:
ecologista o vegetariano o pacifista. Sono tutte idee meravigliose,
ma mi piace lavorare su una canzone fino a che questi slogan, per quanto
meravigliosi siano e per quanto siano positive le idee che promuovono,
si dissolvano nei più profondi riposti del cuore. Non mi sono mai messo
a scrivere una canzone didattica. È
solo la mia esperienza. Tutto quello che devo mettere in una canzone
è la mia esperienza.”
In Going Home, la prima canzone
di Old Ideas, parla di scrivere “un manuale per vivere
con la sconfitta“. Un ascoltatore può imparare qualcosa sulla
vita dalle sue canzoni?
“Una canzone opera su vari
livelli. Opera al livello di cui tu stai parlando, quando arriva al
cuore nelle sue sofferenze e nelle sue sconfitte, ma
è anche utile per lavare i piatti o per pulire la casa.
È anche utile come sfondo per fare la corte.”
Le cover di Hallelujah sono
un complimento che è oramai stanco di ricevere?
“Ci sono state delle occasioni
in cui qualcuno ha chiesto di poter avere una moratoria su Hallelujah?
La dobbiamo sentire alla fine di ogni film drammatico e di ogni puntata
di American Idol? Una volta o due volte mi sono detto che forse avrei
dovuto prestare la mia voce per farli tacere, ma ripensandoci su sono
davvero felice che venga cantata.”
Definisce ancora il successo come sopravvivenza?
“Sì“, sorride. “Quanto
meno vale per me.”
I migliori album di Leonard Cohen
of Leonard Cohen Columbia,
1967
Cohen si risentì della lussuriosa
produzione di John Simon, ma le canzoni, iniziando da Suzanne, sono
impeccabili. Robert Altman ne utilizzò tre per il suo western
destrutturato, McCabe and Mrs Miller.
From a Room Columbia, 1969
Rigido e ossessivo per suoni e tematiche,
il secondo album affonda nella guerra, nella rivoluzione e nel sacrificio
biblico. Kris Kristofferson disse di volere le prime strofe di Bird
on a Wire per la sua lapide.
of Love and Hate Columbia,
1971
Cohen può anche sorridere sulla copertina
del disco, ma solo lì. La depressione e la rabbia circolano in queste
canzoni viziosamente belle, tra cui Famous
Blue Raincoat e Avalanche, anticipatrice del goth.
Man Columbia, 1988
La sua rinascita creativa auto-prodotta,
a volte divertente e spaventosa. First
We Take Manhattan è il sogno febbrile
di un terrorista; la sghemba e riflessiva Tower
of Song potrebbe essere il tema
di Cohen.
Leonard Cohen, 2002
Questa eccellente antologia, che copre
il periodo dal 1967 al 2002, contiene tutti i classici, ma va a scovare
qualche pezzo saliente dai suoi album più controversi. La voce diventa
sempre più bassa.
Old Ideas, Columbia, 2012
Cohen rivisita alcuni dei ruoli preferiti
il cafone pentito, l’arguto sarcastico, il profeta oscuro, l’anima
persa, con una voce che suona vecchia come il tempo.
Fonte: Leonard Cohen: ‘All I’ve got to put in a song is my own experience’
19.02.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE