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La Redazione

 

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The BMJ – La fine della pandemia non sarà trasmessa in televisione

I grafici delle statistiche sulla pandemia hanno dominato i teleschermi ed aiutato a tracciare il decorso della Covid-19, ma David Robertson e Peter Doshi spiegano nel loro articolo sul British Medical Journal, pubblicato il 14 dicembre 2021, qui ripreso integralmente, perché potrebbero non essere sufficienti a definirne la fine.
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A cura di Markus
Il 25 Dicembre 2021
24121 Views

www.rossellafidanza.com

All’inizio dell’anno 2021, la pandemia di Covid-19 sembrava stesse regredendo.Discussioni e previsioni sull’”apertura,” sul ritorno alla “normalità” e sul raggiungimento dell’immunità di gregge erano nell’aria.(1,2,3,4). Ma per molti l’ottimismo era diminuito con l’aumento dei casi e dei decessi in India, Brasile e altrove. L’attenzione si era poi rivolta alle varianti del virus SARS-CoV-2 e, più recentemente, all’emergente Omicron. Proprio mentre la fine sembrava essere all’orizzonte, è stata interrotta dal presentimento che la pandemia potesse essere ben lontana dall’essere terminata (5,6).

A differenza delle precedenti pandemie, la Covid-19 è stato monitorata da vicino attraverso tabelle che mostrano il movimento e gli effetti in tempo reale del coronavirus, tengono traccia dei risultati dei test di laboratorio, dei ricoveri ospedalieri e di quelli in terapia intensiva, dei tassi di trasmissione e, più recentemente, delle dosi di vaccino somministrate.

Queste tabelle, con i loro pannelli di numeri, statistiche, curve epidemiche e grafici multicolore, hanno imperversato sui nostri teleschermi, sui nostri computer e sui nostri smartphone. Al centro c’è il fascino dell’obiettività e dei dati a cui aggrapparsi in mezzo all’incertezza e alla paura.

Hanno aiutato le popolazioni a concettualizzare la necessità di un rapido contenimento e controllo, (7) orientando le sensazioni del pubblico, alimentando la pressione per l’imposizione di contromisure e contribuendo a mantenere un’aura di emergenza (7). Danno la sensazione che le cose siano sotto controllo quando i casi si riducono a seguito di determinate contromisure, ma possono anche generare un senso di impotenza e di catastrofe imminente quando i casi aumentano.

Problemi riguardanti il termine di una pandemia

Non esiste una definizione universale dei parametri epidemiologici della fine di una pandemia. In base a quali parametri potremo allora sapere che è effettivamente finita? L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la pandemia di Covid-19, ma chi ci dirà quando sarà finita?

L’ubiquità delle tabelle ha contribuito a creare la sensazione che la pandemia finirà quando tutti gli indicatori dei grafici raggiungeranno lo zero (infezioni, casi, decessi) o 100 (percentuale di vaccinati). Tuttavia, le pandemie respiratorie del secolo scorso dimostrano che la fine non è chiara e che la conclusione della pandemia andrebbe intesa come la ripresa della vita sociale, non il raggiungimento di specifici obiettivi epidemiologici (8 9).

Le pandemie respiratorie degli ultimi 130 anni erano state seguite da ondate stagionali annuali alimentate dall’endemia virale che, in genere, era continuata fino alla pandemia successiva (10). Quello che va giù torna su e la difficoltà di datare la fine di una pandemia si riflette nella letteratura storica ed epidemiologica.
Sebbene molti studiosi descrivano l’”influenza spagnola” come verificatasi in tre ondate dal “1918 al 1919”, i riferimenti alla pandemia dal “1918 al 1920” sono anch’essi abbondanti e, di solito, si riferiscono a quella che alcuni definiscono una “quarta ondata”(11).

Analogamente, la pandemia di “influenza asiatica” della metà del secolo scorso è generalmente descritta come un evento a due ondate, dal 1957 al 1958, ma altri vi includono una terza ondata, che aveva posto fine alla pandemia nel 1959 (12).

Questa variabilità nella datazione delle pandemie storiche evidenzia la natura imprecisa dell’utilizzo dei tassi di mortalità per determinare, anche retrospettivamente, la “fine” di una pandemia e l’inizio del periodo inter-pandemico. Ad esempio, il CDC oggi afferma che circa 100.000 Americani sono morti in ciascuna delle pandemie influenzali del 1957 e del 1968 (13) (14). Ma queste stime includono morti avvenute in periodi che la maggior parte delle persone considererebbe interpandemici (1957-1960 e 1968-1972, rispettivamente) (15,16).

L’idea, rafforzata dai grafici, che una pandemia finisca quando i casi o i decessi scendono a zero è in contrasto con l’evidenza storica che una sostanziale morbilità e mortalità influenzale continua a verificarsi, stagione dopo stagione, anche tra le pandemie. Nel periodo inter-pandemico del 1928-29, ad esempio, si stima che negli Stati Uniti si siano verificati oltre 100.000 decessi in eccesso legati all’influenza A/H1N1 (il virus pandemico del 1918) in una popolazione pari ad un terzo di quella odierna (17). Inoltre, può essere difficile discernere quali morti possono essere attribuite alla pandemia e quali appartengono al periodo inter-pandemico. La differenza non è banale, perché l’eccesso di mortalità è il classico parametro per valutare la gravità [di una pandemia] (16,18).

Gli anni inter-pandemici hanno talvolta avuto un numero di morti più elevato rispetto alle stagioni pandemiche successive, come la stagione 1946-47, che aveva preceduto la stagione pandemica 1957-58 (fig 1) (19). Quindi, la fine di una pandemia non può essere definita dall’assenza di morti in eccesso associate al patogeno della pandemia.

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Tasso di mortalità mensile per tutte le cause negli Stati Uniti, le frecce e le date in grassetto indicano l’inizio delle pandemie, da gennaio 1900 a settembre 2021. La linea rossa indica la media mobile a 12 mesi. Si noti che, dal 1905 al 1909, l’Ufficio del censimento degli Stati Uniti aveva fornito solo dati annuali (non mensili)

Interruzione e ripresa della vita sociale

Un altro modo in cui potremmo dichiarare la fine di una pandemia è considerare l’imposizione e la revoca delle misure o delle restrizioni riguardanti la salute pubblica. Le misure utilizzate nelle precedenti pandemie erano state più fugaci e meno invadenti di quelle utilizzate per la Covid-19. Anche nel caso della catastrofica influenza spagnola, che negli Stati Uniti, in rapporto alla popolazione, aveva causato il triplo delle mortii della Covid-19, con un’età media dei decessi di 28 anni (20), la vita era tornata alla normalità in breve tempo, forse solo perché non c’era altra scelta. In un’epoca dove non esisteva Internet, le app per la consegna del cibo e le riunioni in video, un distanziamento sociale diffuso e prolungato era semplicemente impossibile, una situazione che rimane tale anche oggi per molti lavoratori ritenuti “essenziali.”

In effetti, basta un breve sguardo alle pandemie del passato negli Stati Uniti per capire che non c’è una relazione fissa o deterministica tra la patogenicità di un virus e l’intensità e la longevità degli interventi di salute pubblica.

Paragonata a quelle precedenti, la pandemia di Covid-19 ha prodotto uno sconvolgimento unico nella vita sociale. Per molto tempo, in anni pandemici e non pandemici, la gente ha dovuto convivere con la tragedia rappresentata dalla malattia e dalla morte improvvisa, ma la pandemia di Covid-19 è storicamente unica nella misura in cui l’interruzione e la ripresa della vita sociale sono state così strettamente legate alle metriche epidemiologiche.

Approcci storici contrastanti ai virus respiratori pandemici

1918 “L’influenza spagnola”

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Nel 1918, la prima ondata della pandemia era stata lieve e “aveva attirato relativamente poca attenzione” (11). In risposta alla seconda ondata, che “si era fatta strada in tutto il mondo,” alcune città degli Stati Uniti avevano imposto interventi non farmacologici, come la chiusura delle scuole e le restrizioni agli incontri pubblici. La maggior parte delle contromisure era stata allentata entro due-otto settimane e l’interruzione della vita sociale era stata di durata relativamente breve (21).
John Barry, uno storico importante che studia la pandemia del 1918, ha spiegato:

“l’intera faccenda era stata molto rapida.” A differenza della Covid-19, ha affermato, “lo stress non era stato continuo,” osservando che molte località avevano trascorso “diversi mesi di relativa normalità” tra le ondate (22). New York e Chicago, le due più grandi città del Paese, non avevano mai ufficialmente chiuso le scuole, nonostante quelle di Chicago avessero raggiunto un tasso di assenteismo di quasi il 50%. Dove le scuole erano rimaste chiuse, lo erano state in media per quattro settimane (intervallo 1-10 settimane) (23).

1957 “L’influenza asiatica”

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La pandemia di “influenza asiatica” del 1957 aveva raggiunto le coste americane verso la metà dell’anno. Nel corso dei successivi nove mesi, che avevano incluso due ondate, alla fine del 1957 e all’inizio del 1958, si stima che “80 milioni di Americani siano stati costretti a letto con malattie respiratorie” (24). Nella prima ondata si era ammalato circa il 60% degli scolari e il tasso di assenteismo aveva raggiunto il 20-30% (25).

Eppure, anche quando era stato stimato che in alcune scuole di New York fosse assente per l’influenza il 40% degli alunni, il sovrintendente scolastico della città aveva avvertito che “non c’era motivo di allarmarsi e che, su consiglio del Dipartimento della Sanità, abbiamo ridotto attività” (26). Alla fine di ottobre, le partite del campionato di football universitario in tutto il Paese erano state cancellate perché molti giocatori erano malati. Gli allenatori si erano dati da fare, facendo scendere in campo le riserve e, alla fine, non era stata cancellata nessuna partita importante (27). Come durante l’influenza spagnola, l’effetto sulla salute del nuovo virus H2N2 non era terminato quando la pandemia del 1957 era [stata dichiarata ufficialmente] “finita.”

Nel 1960, Newsweek aveva riferito che “senza la fanfara di due anni fa, il virus dell’influenza asiatica stava tranquillamente facendo fuori quasi tutti quelli che gli erano sfuggiti la prima volta” (28). All’inizio di quell’anno si era stimato che il 20% degli scolari di Los Angeles – circa 120.000 bambini – e oltre il 15% dei lavoratori dell’industria fossero assenti a causa dell’influenza (28). Nonostante le loro dimensioni, questi effetti epidemiologici non avevano dato la sensazione che la società stesse ricadendo in una pandemia.

1968 “L’influenza di Hong Kong”

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Un decennio dopo era arrivato un altro virus pandemico che, secondo le stime a posteriori degli esperti di salute pubblica, aveva ucciso un milione di persone in tutto il mondo. Il suo impatto sugli interventi di salute pubblica e sulla vita sociale era stato però minimo.

Lo storico John Barry scrive che per gli Stati Uniti “l’episodio non era stato significativamente più letale di una tipica stagione influenzale negativa,” osservando che “solo le poche persone che l’avevano vissuta sapevano che si era verificata” (29).

Lo storico Mark Honigsbaum sottolinea che “anche se al culmine dell’epidemia, nel dicembre 1968, il New York Times l’aveva descritta come “una delle peggiori nella storia della nazione,” c’erano state poche chiusure di scuole e le attività commerciali, per la maggior parte parte, avevano continuato a funzionare normalmente” (30).

Grafici: combattono o alimentano la pandemia?

Anche se le rappresentazioni visive delle epidemie esistono da secoli (31), la Covid-19 è la prima in cui la grafica in tempo reale ha saturato e strutturato l’esperienza del pubblico.

Alcuni storici hanno osservato che le pandemie non si concludono quando cessa la trasmissione della malattia, “ma piuttosto quando, nell’attenzione del pubblico in generale e nel giudizio di alcuni media e delle élite politiche che modellano quell’attenzione, la malattia cessa di essere degna di nota”(8).

I grafici pandemici forniscono un carburante infinito, assicurando la costante attualità della pandemia di Covid-19, anche quando la minaccia è bassa. Così facendo, potrebbero prolungare la pandemia, rendendo più difficile la sua conclusione e il ritorno alla vita pre-pandemica.

Dimenticare o disconnettrsi dalla rappresentazione grafica potrebbe essere l’azione più potente per porre fine alla pandemia. Questo non significa nascondere la testa nella sabbia. Piuttosto, è riconoscere che nessuna serie singola o congiunta di metriche può dirci quando la pandemia è finita.

La fine della pandemia non vi sarà comunicata

La storia suggerisce che la fine della pandemia non seguirà semplicemente il raggiungimento dell’immunità di gregge o una dichiarazione ufficiale, ma piuttosto avverrà gradualmente e in modo non uniforme man mano che le società cesseranno di essere tutte consumate dalle metriche scioccanti della pandemia.

La fine della pandemia è più una questione di esperienza vissuta, Perciò è più un fenomeno sociologico che biologico. E quindi i grafici – che non misurano la salute mentale, l’impatto educativo e la negazione di stretti legami sociali – non sono lo strumento che ci dirà quando finirà la pandemia.

In effetti, considerando come le società sono arrivate ad utilizzare i grafici, questi potrebbero essere uno strumento che contribuità a prevenire un ritorno alla normalità. Le pandemie – almeno le pandemie virali respiratorie – semplicemente non finiscono in modo tale da poter essere visualizzato sui grafici.

Ben lontane dar “finire” in modo drammatico, le pandemie svaniscono gradualmente man mano che la società si adatta a convivere con il nuovo agente patogeno e la vita sociale torna alla normalità. Essendo un periodo storico in cui la vita sociale è stata stravolta, la pandemia di Covid-19 sarà finita nel momento in cui spegneremo i nostri teleschermi e decideremo che altri problemi sono di nuovo degni della nostra attenzione.

A differenza del suo inizio, la fine della pandemia non verrà trasmessa in televisione.

Fonte: https://www.bmj.com/content/375/bmj-2021-068094?fbclid=IwAR1JzP9Swx7DQlLtMGGi750ZGqq5_X5Rze5Ypj4jveOC1kpI6MIoM_2owYE
23.12.2021
Traduzione a cura di Giovanna G. e rivista da Markus per comedonchisciotte.org

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